Cass. civ., sez. I, sentenza 22/03/2005, n. 6187
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In tema di capitalizzazione degli interessi, il rapporto di conto corrente bancario è soggetto ai principi generali di cui all'art. 1283 cod. civ. e ad esso non è applicabile l'art. 1831 cod. civ., che disciplina la chiusura del conto corrente ordinario. Il contratto di conto corrente bancario è, infatti, diverso per struttura e funzione dal contratto di conto corrente ordinario, e l'art. 1857 cod. civ. non richiama l'art. 1831 cod.civ. tra le norme applicabili alle operazioni bancarie regolate in conto corrente.
Nei contratti bancari la determinazione dei tassi di interesse mediante il rinvio agli accordi interbancari è da considerarsi sufficiente solo ove esistano vincolanti discipline del saggio fissate su scala nazionale con accordi di cartello e non già ove tali accordi contengano diverse tipologie di tassi o, addirittura, non costituiscano più un parametro centralizzato e vincolante, essendo, in quest'ultimo caso, necessario accertare in concreto il grado di univocità della fonte richiamata, per stabilire a quale previsione le parti abbiano potuto effettivamente riferirsi.
Sul provvedimento
Testo completo
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. C A - Presidente -
Dott. G G - Consigliere -
Dott. F F M - rel. Consigliere -
Dott. F F - Consigliere -
Dott. G F A - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
BANCA ANTONIANA POPOLARE VENETA S.P.A. già Banca Cattolica s.p.a., in persona del Dirigente pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA VIA ARCHIMEDE 145, presso l'avvocato S A, rappresentata e difesa dall'avvocato E C, giusta mandato in calce al ricorso;
- ricorrente -
contro
T M V, P G, elettivamente domiciliati in ROMA VIA L. MANTEGAZZA 24, presso l'avvocato G L, rappresentati e difesi dall'avvocato R G, giusta procura speciale a margine del controricorso;
- controricorrenti -
e sul 2^ ricorso n. 24165/03 proposto da:
T M, elettivamente domiciliato in ROMA VIA L MANTEGAZZA 24, presso l'avvocato L G, rappresentato e difeso dall'avvocato R G, giusta procura speciale a margine del ricorso;
- ricorrente -
contro
BANCA CATTOLICA S.P.A. ora Banca Antoniana Popolare Veneta s.p.a., in persona del Procuratore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA VIA ARCHIMEDE 145, presso l'avvocato ANTONIO STANIZZI, rappresentata e difesa dall'avvocato E C, giusta mandato in calce al controricorso;
- controricorrente al ricorso incidentale -
avverso la sentenza n. 614/02 della Corte d'Appello di BARI, depositata il 16/07/02;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 18/01/2005 dal Consigliere Dott. Francesco Maria FIORETTI;
udito, per il ricorrente, l'Avvocato CAPOBIANCO che ha chiesto l'accoglimento del ricorso principale e il rigetto del ricorso incidentale;
udito, per il resistente, l'Avvocato GARGANO che ha chiesto l'accoglimento del ricorso incidentale ed il rigetto del ricorso principale;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. MACCARONE Vincenzo che ha concluso per il rigetto del ricorso principale e incidentale.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con decreto del primo aprile 1996 il Presidente del Tribunale di Treni, su ricorso della Banca Cattolica s.p.a., che assumeva di essere creditrice della somma di lire 148.845.247 a titolo di saldo del conto corrente di corrispondenza, acceso da T M Vito, garantito dalla fideiussione prestata da P G, ingiungeva ai predetti coniugi Tisbo-Persia il pagamento della somma summenzionata con i relativi interessi moratori al tasso convenzionale del 15,50%.
Con atto di citazione, notificato il 15.5.1996, detti coniugi proponevano opposizione avverso tale provvedimento monitorio, eccependo, tra l'altro, l'erroneo addebito di somme per competenze ed interessi, l'eccessività del tasso di interesse applicato, l'illegittimità della capitalizzazione trimestrale degli interessi e l'inesistenza del prospettato riconoscimento del debito. Con sentenza del 12-30 dicembre 1998 l'adito Tribunale di Trani, ritenuta la nullità della clausola di rinvio agli interessi usualmente praticati su piazza per la determinazione del relativo tasso convenzionale, l'inesistenza della prospettata ricognizione di debito da parte dei convenuti e la inidoneità della prova documentale offerta dalla banca per pervenire comunque alla determinazione del preteso credito attraverso CTU, accoglieva la proposta opposizione e revocava il decreto ingiuntivo opposto.
Avverso detta sentenza la Banca Cattolica s.p.a., con atto di citazione notificato il 17.1.2000, proponeva appello dinanzi alla Corte d'Appello di Bari, che con sentenza 31-5-2002/16.7.2002 respingeva l'impugnazione. A sostegno di tale decisione la corte di merito osservava che il consulente tecnico di ufficio - al quale era stato affidato il compito di accertare se e in quale misura sussistesse il credito vantato dalla banca appellante - aveva accertato che al 28 marzo 1996 (data di chiusura del conto) e a far tempo nel calcolo dal 1984 (stante l'addotta impossibilità della banca di reperire la necessaria documentazione contabile per il periodo anteriore a decorrere dal 3.11.1982, epoca di inizio del rapporto), anziché un credito della banca, sussisteva un credito degli appellati di L. 88.561.963, pari ad attuali euro 45.738,44;
che non ricorreva la eccepita nullità della c.t.u. per aver escluso l'attualizzazione trimestrale delle competenze, sia perché al c.t.u. era stato affidato l'incarico di accertare l'eventuale credito della banca calcolando a tal fine l'interesse legale semplice, sia perché comunque il c.t.u. non avrebbe potuto tener conto della invocata capitalizzazione, trattandosi di una clausola nulla;che neppure poteva invocarsi la nullità della c.t.u. per non avere il consulente tecnico tenuto conto del riconoscimento da parte degli appellanti del loro debito, non potendo attribuirsi alcun effetto ad una ricognizione di un fatto nullo;che, infine, neppure poteva invocarsi la nullità della c.t.u. per non avere il consulente d'ufficio adottato il criterio determinativo degli interessi secondo le previsioni di cui alla legge n. 154/92 sulla trasparenza bancaria ed ai decreti legislativi nn. 333 e 342 del 1999, trattandosi di interventi legislativi non estensibili a rapporti sorti, come quello in questione, in epoca anteriore;che in presenza di una pattuizione nulla sugli interessi non poteva che trovare applicazione il tasso legale al momento ili vigore ex art. 1284, co. 2, cod. civ.;che rettamente il tribunale aveva dichiarato la nullità della clausola relativa alla determinazione del tasso convenzionale degli interessi con riferimento a quello praticato dagli istituti bancari sulla piazza, anche se in presenza di accordi di cartello interbancari, atteso che anche il recepimento della determinazione degli interessi su piazza secondo detti accordi non consente di individuare con certezza e preventivamente la tipologia degli interessi a cui le parti hanno fatto concreto riferimento all'atto della stipulazione del contratto di conto corrente, lasciando la banca del tutto arbitra, seppure nell'ambito degli accordi di cartello, di determinare unilateralmente e discrezionalmente il tasso degli interessi da applicare;
che non valeva a sanare detta nullità il fatto che al correntista erano stati inviati regolarmente i rendiconti periodici senza che fossero mosse agli stessi contestazioni, avendo il silenzio del correntista il solo effetto di precludergli la possibilità di muovere successive contestazioni sulla regolarità contabile delle singole operazioni;
che, però, alla banca non poteva essere addossata la responsabilità ex art. 96 c.p.c., invocata dagli appellati, non solo perché trattavasi di domanda riferita ad un comportamento già tenuto dalla banca nella precedete fase di giudizio, avanzata per la prima volta in sede di gravame e, quindi, inammissibile, ma soprattutto perché, dato il dibattito tutt'ora in corso sulle questioni oggetto del presente giudizio, non appariva possibile ravvisare nel comportamento tenuto dall'appellante a difesa delle sue ragioni gli estremi di cui alla norma summenzionata.
Avverso detta sentenza la Banca Antoniana Popolare Veneta s.p.a., incorporante la Banca Cattolica s.p.a., ha proposto ricorso per cassazione sulla base di sette motivi, cui T M a P G ha resistito con controricorso. A sua volta anche il Tisbo ha proposto ricorso, con atto notificato successivamente a quello della banca, sulla base di due motivi, cui la banca ha resistito con controricorso. Entrambe le parti hanno depositato memorie ex art. 378 c.p.c. MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo la banca summenzionata denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 1284, 1346 e 1362, n. 2 c.c. (art. 360, n. 3, c.p.c.). Omessa, insufficiente e contraddittoria
motivazione in ordine al tasso convenzionale degli interessi applicato al rapporto e in ordine al rilievo a tale riguardo dell'atto di riconoscimento del debito sottoscritto dal debitore e della mancata contestazione degli estratti conto e delle comunicazioni della banca (art. 360, c. 5, c.p.c.). Con tale motivo la ricorrente censura la sentenza impugnata con riferimento alla ritenuta nullità della clausola di rinvio agli accordi interbancari per la determinazione del tasso degli interessi applicabile.
Deduce preliminarmente la ricorrente che l'art. 7, comma 3, delle condizioni generali del contratto, sottoscritto dal Tisbo il 3 novembre 1982, recita: "Gli interessi dovuti dal correntista all'Azienda di credito, salvo patto diverso, si intendono determinati alle condizioni praticate usualmente su piazza, e producono a loro volta interessi nella stessa misura";
che il "patto diverso" cui fa riferimento detta clausola sarebbe contenuto nel frontespizio del contratto stesso, ove sarebbe contenuta, con patto aggiunto sul modulo (art. 1342, comma 1, c.c.), l'esplicita previsione del tasso non già alle condizioni praticate usualmente su piazza, bensì all'"accordo interbancario";
che il successivo art. 16 delle condizioni generali recito:
"l'Azienda di credito si riserva la facoltà di modificare in qualsiasi momento le norme e le condizioni tutte che regolano i rapporti di conto corrente mediante lettera semplice all'ultimo indirizzo indicato dal correntista oppure mediante avviso affisso esposto nei locali dell'azienda......";
che, pertanto, la banca avrebbe applicato, in base a dette clausole, pattuite per iscritto secondo la regola di cui all'art. 1284, comma 3, c.c., il tasso derivante dagli accordi interbancari (che sono
contenuti in documenti scritti certi, conoscibili e di agevole riscontro sì da rendere pienamente ammissibile, per la determinazione del tasso, il riferimento nel contratto agli stessi) via via succedutisi nel tempo dalla data di apertura del conto e non il tasso determinato sulla base degli usi di piazza, cui la corte avrebbe fatto un larvato riferimento;che il contratto in questione contiene la clausola che consente alla banca di variare unilateralmente le condizioni applicate al rapporto;
che continuare a discutere di tassi oggettivi (come farebbe in sostanza la corte d'appello con motivazione del tutto erronea ed insufficiente) in un sistema che da sempre avrebbe accettato come fisiologico che le parti fissassero in contratto un tasso ultralegale di partenza, che, tuttavia, per la stessa natura di durata del contratto potrebbe variare, a seconda delle esigenze del mercato finanziario, sol che lo stabilisca una delle parti del rapporto semplicemente comunicandolo all'altra (art. 16 del contratto), costituirebbe una presa di posizione che trascura la reale dinamica dei rapporti bancari e postula un formalismo impensabile ed irrealizzabile;
che non sarebbe, quindi, tanto un problema di conoscenza del tasso fissato in contratto, quanto di conoscenza del tasso applicato al rapporto, che sarebbe stato puntualmente comunicato al cliente e da questo accettato con l'approvazione degli estratti conto a lui inviati, non essendo stati mai contestati, e più tardi con i successivi atti ricognitivi;
che, nel valutare la "certezza" dei tassi, la corte d'appello non si sarebbe dovuta arrestare alla constatazione che il rapporto fosse regolato, quanto al tasso, dall'accordo interbancario, ma avrebbe dovuto valutare, altresì, tutti gli elementi normativi, convenzionali e fattuali idonei ad accertare nel concreto rapporto la previsione di tasso cui le parti, di volta in volta, avevano fatto riferimento.
In particolare la corte non avrebbe considerato che la banca aveva comunicato per iscritto, ai sensi dell'art. 16 delle condizioni generali di contratto (che da rilievo alla mera lettera semplice), con gli estratti conto, mai contestati, i tassi di volta in volta applicati;
che con la lettera del 27 giugno 1995 il Tisbo avrebbe riconosciuto per iscritto i tassi applicati al rapporto;
che, quindi, non vi sarebbe stata nessuna incertezza tra le parti sul tasso applicato, in quanto il comportamento complessivo delle stesse, anche posteriore alla conclusione del contratto, deponeva unicamente per la piena determinatezza e, anche sotto il profilo soggettivo, per la certezza e consapevolezza dei tassi di volta in volta in essere. Insistere sulla irrilevanza di detta lettera di ricognizione, in quanto ritenuta vertente su un fatto nullo (la pattuizione di interessi in violazione dell'art. 1346 c.c.) sarebbe erroneo ed irragionevole, non potendo aprioristicamente valutarsi nulla una clausola in astratto prima di valutare tutti gli elementi e le circostanze atti a ricostruire la volontà delle parti. Con il secondo motivo la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 1284, comma 3, 1346, 1366, 1367 e 1371 c.c. (art. 360, n. 3, c.p.c.). Omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione in ordine al tasso convenzionale di interessi applicabile al rapporto (art. 360, n. 5, c.p.c.). Prima di giungere alla conclusione di dichiarare nulla la clausola di determinazione del tasso degli interessi la Corte avrebbe dovuto avvalersi di tutti gli strumenti atti ad evitare quella declaratoria ed in particolare della norma di cui all'art. 1367 c.c., che impone al giudice di interpretare il contratto o le singole clausole nel senso in cui possono avere qualche effetto e non in quello secondo cui non ne avrebbero alcuno (principio di conservazione del contratto). Alla luce di tale disposizione il riferimento agli accordi interbancari avrebbe potuto essere inteso con riferimento ai tassi medi pubblicati sul Bollettino Statistico della Banca d'Italia, oppure al prime rate ABI, qualora non si ritenesse accettabile il riferimento ai tassi medi, essendo quest'ultimo un tasso certo, in quanto riconosciuto dalla legislazione vigente, determinato, in quanto al di sotto di esso nessuna banca potrebbe erogare il fido, di agevole riscontro, in quanto diffuso tramite circolari ABI, Bankitalia e sui giornali economici. Giocherebbero a favore della riferibilità al prime rate, oltre al principio di conservazione del contratto, anche il disposto dell'art. 1371 c.c., il quale prescrive che il contratto debba realizzare "l'equo contemperamento delle parti", da un lato assicurando alla banca una remunerazione minima, dall'altro imponendo al cliente lo sforzo meno gravoso, ed il disposto dell'art. 1366 c.c., che impone di preferire la clausola che soddisfi meglio l'interesse di entrambe le parti., disposizione che porterebbe ad escludere la riferibilità al tasso legale, attivo e passivo, contrastando tale criterio con la qualificazione della banca come impresa e che, quindi, per la sua sussistenza deve basare la sua attività sul differenziale di tasso tra operazioni attive e passive. Con il terzo motivo la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 1284, comma 3, c.c. e degli artt. 5 L. 17 febbraio 1992 n. 154 e 117, comma 7, t.u. banc. (art. 360, n. 3, c.p.c.): Omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione in
ordine al tasso legale di interessi applicabile al rapporto (art. 360, n. 5, c.p.c.. Deduce in subordine la ricorrente che, in mancanza di una valida pattuizione degli interessi, dovrebbe trovare applicazione non il tasso legale, ma a partire dal 9 luglio 1992, data di entrata in vigore della legge sulla trasparenza bancaria, il tasso da questa e poi dal testo unico bancario previsto per i rapporti bancali (tasso nominale massimo dei buoni ordinari del Tesoro annuali o di altri titoli similari eventualmente indicati dal Ministro del Tesoro nei dodici mesi precedenti). Detta normativa sul tasso degli interessi dovrebbe considerarsi fonte determinativa esterna del contratto, che integra legalmente (ex artt. 1374 e 1339 c.c.) quale legge speciale il contratto stesso.
Con il quarto motivo la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione dell'art. 1283 c.c. (anche in relazione agli artt. 1823 ss. e 1852 ss. c.c.) (art. 360, n. 3, c.p.c.). Omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione in ordine al tema della capitalizzazione convenzionale degli interessi.
Deduce la ricorrente che la legittimità della clausola bancaria di capitalizzazione trimestrale degli interessi non potrebbe considerarsi esclusa dalla circostanza che la cassazione, dopo averla affermata costantemente per decenni, l'abbia negata con talune recenti sentenze (a partire dalla sentenza n. 2374/99), le cui motivazioni si fonderebbero su una ricostruzione storica errata e su una visione miope in materia di conto corrente bancario. L'art. 1283 c.c. riserverebbe agli usi - senza richiedere la loro anteriorità temporale - la funzione di disciplinare la materia dell'anatocismo in modo difforme dalla previsione legislativa. Anche a voler ammettere, poi, che gli unici usi fatti salvi dal legislatore con l'espressione "in mancanza di usi contrarr di cui all'art. 1283 siano soltanto quelli già formatisi all'epoca di entrata in vigore della norma, ciò non di meno bisognerebbe riconoscere la legittimità della clausola contenente la previsione di capitalizzazione trimestrale, perché l'uso in questione non venne introdotto per la prima volta con le norme bancarie uniformi divenute efficaci dal primo gennaio 1952 (come affermato nelle più recenti sentenze della Cassazione), ma esisteva già all'inizio del secolo precedente ed era certamente già esistente nel 1929, quando la "Confederazione Generale Bancaria Fascista con circolare n. 30/2545 del 7 gennaio 1929 inviava alle banche i moduli contenenti il testo delle norme regolanti i conti correnti di corrispondenza, ove all'art. 1 si legge: " I rapporti di dare ed avere si regoleranno, in via normale, semestralmente e cioè al 30 giugno e 31 dicembre di ogni anno, portando in conto gli interessi e le commissioni ai tassi stabiliti, le spese postali, telegrafiche e simili. I conti che risultino anche saltuariamente debitori si regoleranno invece, in via normale trimestralmente e cioè a fine marzo, giugno, settembre e dicembre di ogni anno". Se la Confederazione Generale Bancaria Fascista decise di uniformare i rapporti posti in essere dalle banche ad essa associate, sarebbe ragionevole ritenere che non abbia innovato sul punto, ma abbia preso come referente le condizioni d'affari più frequenti in materia, così come affermatesi presso il maggior numero di istituti di credito o presso le banche di maggior rilevanza sul territorio. L'assunto secondo cui l'uso della capitalizzazione trimestrale sarebbe sorto per effetto della entrata in vigore nel 1952 delle NUB sarebbe pure smentito:
dal rilevamento di detto uso da parte di alcune Camere di Commercio - di Roma, di Milano e di Genova -, le quali accertarono che già nel 1951 la capitalizzazione trimestrale era praticata nel territorio delle rispettive province;
dal fatto che l'uso della capitalizzazione trimestrale viene riportato nei manuali di tecnica bancaria già agli inizi degli anni trenta;
da Cass. 9 maggio 1927 n. 1682, che ritenne legittima la capitalizzazione trimestrale degli interessi.
Ugualmente errata sarebbe la affermazione - con la quale dalle recenti sentenze della Cassazione viene negata la legittimità della capitalizzazione trimestrale - che l'uso di detta capitalizzazione sarebbe un uso imposto dalle banche e sarebbe stato praticato senza il convincimento di obbedire ad un comando legale. Cosi argomentando si ignorerebbe il significato peculiare dell'art. 1283 c.c., che sarebbe una norma singolarissima, poiché, pur dettando una disciplina inderogabile, limiterebbe l'ambito in cui deve operare, perché conserverebbe efficacia e valore normativo agli usi contrari alla disciplina risultante dal suo comando. Ne deriverebbe che coloro i quali, dopo l'entrata in vigore del codice del 1942, hanno accolto nelle pattuizioni la capitalizzazione, nelle varie forme in cui continuava ad essere praticata, in conformità degli "usi contrari" esistenti, non dovevano avere il convincimento di prestare adesione ad un comando legale, ma solo la consapevolezza che l'uso bancario della capitalizzazione non è in contrasto con i limiti posti all'anatocismo dall'art. 1283 c.c., in virtù della esclusione dall'ambito del divieto contenuto nella norma delle materie in cui esistevano usi contrari.
La esatta portata dell'art. 1283 c.c. si coglierebbe se si tiene conto dello scenario legislativo preesistente alla entrata in vigore del codice vigente e della unificazione del codice civile del 1865 e del codice di commercio del 1882 compiuta col nuovo codice. L'art. 1283 cod. civ. in esame avrebbe risentito in modo particolare di detta unificazione. L'art. 1232 del codice civile del 1865 poneva limiti alla pratica dell'anatocismo solo per le materie civili, non anche per le materie commerciali. Il codice di commercio del 1882 ne codificò l'uso nel contratto di conto corrente, prevedendo all'art. 345 la decorrenza dell'interesse sulle somme annotate in conto, a debito del ricevente, dalla data dell'esazione ed all'art. 347 che la "chiusura del conto corrente e la liquidazione della differenza" avessero "luogo alla scadenza dei termini stabiliti dalla convenzione o dagli usi del commercio e in difetto alla fine di dicembre di ogni anno" e che sulla differenza decorresse l'interesse dalla data della liquidazione.
Nel contratto di conto corrente l'uso della capitalizzazione a periodi più brevi dell'anno esisteva nella pratica mercantile prima del codice di commercio del 1882, che lo tradusse in legge, ed era, come risulterebbe da alcuni scritti di poco successivi all'approvazione del codice di commercio, praticato nei rapporti bancari prima che le associazioni delle banche cominciassero a redigere modelli comuni per i contratti con la clientela. Non si potrebbe, quindi, dubitare che il legislatore del 1942, con la espressione "in mancanza di usi contrari" contenuta nella norma che definisce i limiti dell'anatocismo, volle escludere dai divieti, che ne derivano, le materie in cui esistevano per inveterata tradizione usi contrari.
L'orientamento giurisprudenziale criticato avrebbe omesso, inoltre, di porre in relazione la norma dell'art. 1283 c.c. con le disposizioni in materia di conto corrente ordinario e di conto corrente bancario.
Da tale coordinamento si ricaverebbe che il potere riconosciuto alle parti di negoziare liberamente i termini di chiusura dei conti e la conseguente maturazione sul "saldo-nuova rimessa" di nuovi interessi, si tradurrebbe in una indiretta pattuizione anatocistica, ammessa ex art. 1831 c.c. anche nel conto corrente bancario, in deroga al principio generale sulla posteriorità di questa pattuizione rispetto al tempo di maturazione degli interessi, di cui all'art. 1283 c.c. Con il quinto motivo la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione dell'art. 1283 c.c. (anche in relazione agli artt. 1284 ss., 1831 e 1852 ss. c.c.) (art. 360, n. 3, c.p.c.). Omessa motivazione in ordine al tema della capitalizzazione quantomeno su base annua degli interessi (art. 360, n. 5, c.p.c.). Deduce la ricorrente che la corte di merito avrebbe omesso ogni motivazione in ordine alla sottolineata erroneità della previsione del criterio dell'interesse semplice, sulla base del quale detto giudice avrebbe ordinato il ricalcolo del credito della banca, escludendo la capitalizzazione dello stesso su base annua. Non potrebbe escludersi che il periodo di cadenza minima della capitalizzazione debba quantomeno considerarsi l'anno, atteso che secondo l'art. 1284 c.c. gli interessi si computano in ragione di anno e che è connaturale alla stessa struttura del contratto di conto corrente, che deve chiudersi annualmente. Ciò risulterebbe dall'art. 1831 c.c. in materia di conto corrente che, per la chiusura del conto, rinvia alle scadenze stabilite dal contratto e dall'art. 7 delle condizioni generali del contratto che stabilisce espressamente che "i rapporti di dare ed avere vengono chiusi contabilmente, in via normale, a fine dicembre di ogni anno portando in conto gli interessi...". Con il sesto motivo la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 2934, 2935 e 2946 c.c. (art. 360, n. 3, c.p.c.). Omessa motivazione in ordine al punto della prescrizione
della pretesa al ricalcolo del credito (art. 360, n. 5, c.p.c.). Deduce la ricorrente che la corte di merito avrebbe omesso ogni motivazione in ordine alla eccezione di prescrizione, avendo la ricorrente stessa contestato che la ricostruzione del rapporto potesse partire dal 1982 e cioè da ben sedici anni prima della formulazione dell'atto (opposizione a decreto ingiuntivo notificata il 15 maggio 1996), con il quale il preteso diritto a contestare le risultanze del conto fatto valere dai coniugi Tisbo-Persia era stato fatto valere. Con il settimo motivo la ricorrente denuncia nullità del procedimento in relazione all'art. 360, n. 4, c.p.c. per violazione del diritto di difesa, per la violazione del contraddittorio, per nullità della consulenza d'ufficio, per omissione delle necessarie integrazioni istruttorie. Omessa o insufficiente motivazione su punti decisivi della controversia (art. 360, n. 5, c.p.c.).
Deduce la ricorrente che con l'ordinanza 20.7-31.8.2001, con la quale la corte di merito ha disposto la prosecuzione del giudizio per l'accertamento del credito della banca attraverso una c.t.u., sarebbero stati violati il diritto di difesa ed il principio del contraddittorio, statuendo su punti decisivi della controversia, quali la nullità del tasso convenzionale dell'interesse, la nullità della clausola di capitalizzazione, la entità del tasso di interesse da applicarsi per il ricalcolo del credito.
Deduce altresì di aver richiesto la rinnovazione della perizia, denunciandone la nullità nella prima difesa successiva al deposito, per una serie di motivi, richiesta che era stata disattesa dalla sentenza impugnata, motivando solo con riferimento ad uno dei motivi addotti (cioè sul punto attinente alla capitalizzazione trimestrale), tralasciando gli altri.
Non avendo preso in considerazione tutte le puntuali critiche mosse all'elaborato, il giudice sarebbe incorso nel vizio di motivazione. Con il primo motivo del ricorso proposto dal Tisbo, il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione di norme di diritto, ed in particolare dell'art. 96 c.p.c. (ex art. 360 n. 3 c.p.c.), nonché omessa insufficiente e contraddittoria motivazione sulla assunta tardività della domanda ex art. 96 c.p.c. (ex art. 360 n. 5 c.p.c.). La corte di merito avrebbe errato nel dichiarare inammissibile la domanda di risarcimento ex art. 96 c.p.c., perché tardiva, trattandosi di domanda riferita ad un comportamento già tenuto dalla banca nella precedente fase di giudizio, avanzata per la prima volta in sede di gravame.
Detta domanda - che faceva seguito alla dichiarazione di inammissibilità della richiesta di cancellazione delle ipoteche, chiesta dal Tisbo nel corso del giudizio di appello ex art. 700 c.p.c., ed al comportamento della banca, che non aveva consentito la
parziale cancellazione di iscrizione ipotecaria su beni di valore di circa cento volte superiore al credito da essa vantato e su quei beni che il Tisbo stesso era tenuto a vendere a terzi acquirenti - sarebbe ammissibile, essendo stata formulata per la prima volta in appello con specifico riferimento al danno verificatosi in questo grado di giudizio.
Con il secondo motivo il ricorrente denuncia (ex art. 360 n. 3 c.p.c.) violazione e falsa applicazione di norme di diritto, nonché
(ex art. 360 n. 5 c.p.c.) omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione sull'assunto insussistenza dei presupposti per la liquidazione del risarcimento ex art. 96 c.p.c.. Deduce il ricorrente che l'art. 96 c.p.c. prevede due fattispecie diverse: da un lato la ipotesi della semplice azione o resistenza in giudizio con mala fede o colpa grave (1^ comma);dall'altro la ipotesi del pregiudizio conseguente all'utilizzazione dei mezzi di cautela previsti dalle norme processuali a tutela di un diritto rivelatosi inesistente. In quest'ultimo caso rileverebbero non già la mala fede o la colpa grave, ma rileverebbe l'aver agito senza la normale prudenza. Nel caso di specie la corte d'appello avrebbe omesso di considerare che ricorrono entrambe le fattispecie, giustificando il comportamento della banca con l'esistenza di una incertezza interpretativa, che in realtà, dato l'orientamento giurisprudenziale ormai consolidato sulle questioni dibattute, non sussiste, e, quindi, con riferimento alla sola prima fattispecie, senza verificare se la banca, nell'iscrivere ipoteca su un patrimonio di gran lunga superiore rispetto al credito fatto valere e nel mantenere tale iscrizione nonostante la sentenza di primo grado e le risultanze della c.t.u., avesse agito secondo "normale prudenza". Preliminarmente ricorso principale e ricorso incidentale (quello del Tisbo, perché proposto successivamente a quello della banca, deve essere considerato incidentale), essendo stati proposti avverso la medesima sentenza, devono essere riuniti ai sensi dell'art. 335 cod. proc. civ.. Il primo motivo del ricorso principale è fondato.
Con il motivo in esame si censura la parte della motivazione in cui si afferma che "anche il recepimento degli interessi su piazza secondo l'accordo interbancario non consente di individuare con certezza e preventivamente la tipologia a cui le parti hanno fiato concreto riferimento all'atto della stipulazione del contratto di conto corrente e lascia, in definitiva, la banca del tutto arbitra, sia pure nell'ambito degli accordi di cartello, di determinare unilateralmente e discrezionalmente il tasso degli interessi da applicare.
Nè in contrario è utile ricordare che agli appellati sono stati regolarmente inviati i rendiconto periodici rimasti orfani di osservazioni sul punto, atteso che il silenzio del correntista preclude le contestazioni sulla regolarità contabile delle singole operazioni, ma non vale a sanare la nullità del rapporto sottostante alle medesime".
La ricorrente censura tale motivazione, assumendo:
che il giudice a quo avrebbe confuso il tasso determinato sulla base degli usi su piazza (derivanti da consuetudini o pratiche commerciali), con quello derivante dall'applicazione di accordi interbancari, (cioè da pattuizioni contenute in documenti scritti, certi, conoscibili e di agevole riscontro), che per le loro caratteristiche renderebbero pienamente ammissibile la determinazione del tasso per relationem;
che la corte, nel ritenere la nullità - per incertezza del tasso applicabile - della clausola di previsione del tasso ultralegale, avrebbe trascurato di considerare talune circostanze, che avrebbero caratterizzato rapporto tra il Tisbo e la banca, essendosi limitata a constatare che il rapporto era regolato, quanto al tasso, dall'accordo interbancario, senza valutare tutti gli elementi normativi, convenzionali e fattuali idonei ad accertare in concreto la previsione di tasso cui le parti, di volta in volta, avevano fatto riferimento ed in particolare: la clausola n. 16 contenuta nel contratto del 3 novembre 1982 (surriportata), che consentiva di variare unilateralmente le condizioni applicate al rapporto;il fatto che la banca a mezzo degli estratti conto avrebbe puntualmente comunicato al cliente il tasso di volta in volta applicato;il fatto che il Tisbo aveva riconosciuto con lettera del 27 giugno 1995 i tassi applicati al rapporto, circostanza questa che rileverebbe come "comportamento complessivo" delle parti posteriore alla conclusione del contratto, di cui si dovrebbe tener conto per la sua interpretazione ai sensi dell'art 1362, secondo comma, c.c. Tale censura merita di essere condivisa.
Questa corte ha affermato costantemente che l'obbligo della forma scritta ad substantiam, imposto dall'art. 1284, ultimo comma, cod. civ., per la pattuizione di interassi eccedenti la misura legale, non
comporta che il documento negoziale debba necessariamente indicare in cifre il tasso di interesse, e che detto obbligo - in coerenza con il principio secondo cui l'oggetto del contratto deve essere determinato o determinabile - è da ritenersi ugualmente rispettato quando nel documento contrattuale le parti indichino criteri certi ed oggettivi, che consentano la concreta quantificazione del tasso di interesse, ancorché ciò avvenga per relationem, mediante il richiamo ad elementi estranei al documento stesso. Ha affermato, altresì, che nei contratti bancari la determinazione dei tassi di interesse mediante il rinvio agli accordi interbancari è da considerarsi sufficiente solo ove esistano vincolanti discipline del saggio fissate su scala nazionale con accordi di cartello e non già ove tali accordi contengano diverse tipologie di tassi o, addirittura, non costituiscano più un parametro centralizzato e vincolante, essendo, in quest'ultimo caso, necessario accertare in concreto il grado di univocità della fonte richiamata, per stabilire a quale previsione le parti abbiano potuto effettivamente riferirsi (cfr. tra le molte: Cass. n. 10657 del 1996;Cass. n. 4696 del 1998;Cass. n. 6247 del 1998;Cass. n. 9465 del 2000;Cass. n. 10129 del 2001;Cass. 13823 del 2002). Attesi i principi che precedono, il giudice a quo - in presenza di una clausola di rinvio, per la determinazione del tasso di interessi superiore a quello legale, agli accordi interbancari - avrebbe dovuto, al fine di verificarne la validità, accertare in concreto se detti accordi, tenuto conto di tutte le circostanze del caso, consentivano di individuare con certezza il tasso di interesse cui le parti avevano inteso riferirsi.
Non poteva, quindi, limitarsi ad affermare che "anche il recepimento della determinazione degli interessi su piazza secondo l'accordo in parola (cioè l'accordo interbancario) non consente di individuare con certezza e preventivamente la tipologia degli interessi a cui le parti hanno fatto concreto riferimento all'atto della stipulazione del contratto di conto corrente e lascia, in definitiva, la banca del tutto arbitra, sia pure nell'ambito degli accordi di cartello, di determinare unilateralmente e discrezionalmente il tasso degli interessi da applicare".
Così argomentando, ha dato per scontato quello (la mancanza di univocità della fonte richiamata) che, invece, solo in base ad un accertamento in concreto effettuato avrebbe potuto eventualmente ritenere. Sussiste, pertanto il vizio denunciato.
Il controricorrente ha eccepito che gli accordi di cartello interbancari, diretti a fissare i tassi di interesse attivi e passivi in modo vincolante in ambito nazionale, devono ritenersi nulli in applicazione dell'art. 2 della legge 10 ottobre 1990 n. 287 - applicabile nei confronti delle aziende ed istituti di credito ai sensi del successivo art. 20 -, che vieta le intese tra imprese che abbiano per oggetto o per effetto di impedire, restringere o falsare in maniera consistente la concorrenza all'interno del mercato nazionale o in una sua parte rilevante, ricomprendendo espressamente tra tali intese quelle che detto risultato perseguano o determinino attraverso attività consistenti nel fissare, direttamente o indirettamente, prezzi di acquisto o di vendita dei rispettivi prodotti.
Il collegio osserva che, a parte la considerazione che la disciplina antitrust di cui alla legge n. 287 del 1990 è entrata in vigore in epoca successiva a quella in cui è sorto il rapporto oggetto del presente giudizio, tale disciplina richiede che venga accertato in concreto, al fine di stabilirne la nullità se una intesa tra imprese abbia per oggetto o per effetto di impedire, restringere o falsare in maniera consistente il gioco della concorrenza.
L'accoglimento del primo motivo di ricorso comporta la dichiarazione di assorbimento del secondo e del terzo motivo, essendo stata denunciata, con il secondo motivo, la violazione di norme ermeneutiche nell'interpretazione della clausola in questione relativa alla determinazione del tasso ultralegale degli interessi, e, con il terzo motivo, denunciata, in subordine, a partire dal 9 luglio 1992, la mancata applicazione del tasso previsto dalla legge sulla trasparenza bancaria n. 154 del 1992 e dal testo unico delle leggi in materia bancaria n. 385 del 1993.
Il quarto motivo di ricorso è infondato.
Con un primo profilo di censura si insiste sulla esistenza dell'uso normativo della capitalizzazione trimestrale dell'interesse. La censura non merita di essere condivisa.
Sulla questione si sono espresse con sentenza n. 21095 del 2004 le sezioni unite di questa corte, che hanno escluso che la capitalizzazione trimestrale degli interessi possa essere ricondotta all'esistenza di un uso normativo, soluzione cui questo collegio intende dare continuità, non ravvisando nuove e serie ragioni per discostarsene.
Con un secondo profilo di censura si sostiene la applicabilità anche al rapporto di conto corrente bancario dell'art. 1831 cod. civ., che disciplina il conto corrente ordinario, il quale - disponendo che la chiusura del conto con la liquidazione del saldo è fatta alle scadenze stabilite dal contratto o dagli usi e, in mancanza, al termine di ogni semestre, computabile dalla data del contratto - ammetterebbe una pattuizione anatocistica degli interessi in deroga al principio generale, di cui all'art. 1283 cod. civ., della posteriorità di questa pattuizione rispetto al tempo di maturazione degli interessi e senza vincolo alcuno di frequenza della capitalizzazione.
Il collegio ritiene di dover escludere la applicabilità del citato art. 1831 cod. civ., anche al conto corrente bancario per le seguenti considerazioni.
L'art. 1857 cod. civ., dettato in materia di operazioni bancarie in conto corrente, nel prevedere che alle operazioni bancarie regolate in conto corrente si applicano alcune disposizioni che disciplinano il conto corrente ordinario e precisamente le norme di cui agli articoli 1826, 1829 e 1832 cod. civ., non richiama anche l'art. 1831 cod. civ.. Secondo certa dottrina la mancanza di un richiamo espresso, da parte dell'art. 1857 c.c., dell'art. 1831 c.c. non impedirebbe l'applicazione analogica di detta ultima disposizione al contratto di conto corrente bancario.
Il collegio ritiene che tale tesi non possa essere condivisa per la fondamentale ragione che contratto di corrente ordinario e contratto di conto corrente bancario sono contratti notevolmente diversi per struttura e funzione con pochissimi e non decisivi punti di contatto. Notevolmente diversa è la funzione.
Infatti la funzione del primo va ravvisata - secondo autorevole dottrina - nella reciproca concessione di credito o, come ritiene altra dottrina, nella liquidazione per compensazione delle reciproche rimesse;la funzione del secondo va ravvisata, invece, nella prestazione da parte della banca di un servizio di cassa e di gestione del danaro - del tutto estraneo al conto corrente ordinario - riconducibile allo schema del mandato senza rappresentanza. Ulteriori elementi di differenziazione sono costituiti dal fatto che nel conto corrente ordinario i crediti annotati nel conto sono inesigibili ed indisponibili sino alla chiusura del conto stesso, mentre nel conto corrente bancario il credito, che risulta dal conto, è sempre disponibile;dal fatto che nel conto corrente ordinario la compensazione ha luogo soltanto al momento della chiusura del conto e fino a questo momento le due masse contrapposte mantengono la loro individualità, mentre nel conto corrente bancario la compensazione tra versamenti e prelievi è immediata ed addirittura alcuni autori escludono che le operazioni di annotazione delle riscossioni e dei pagamenti, con la conseguente variazione continua del saldo disponibile, possa integrare una fattispecie compensativa;dal fatto che nel conto corrente bancario manca la reciprocità delle rimesse presente nel conto corrente ordinario;dal fatto la banca è tenuta ad eseguire gli ordini ricevuti dal cliente nei limiti della disponibilità e, quindi, a svolgere un'attività gestoria del tutto estranea al conto corrente ordinario. Il quinto motivo è inammissibile.
Con tale motivo la banca ricorrente lamenta che la corte di merito avrebbe omesso ogni motivazione in ordine alla denunciata erroneità della previsione, per il ricalcolo del credito della banca, del criterio dell'interesse semplice, escludendo la capitalizzazione dello stesso su base annua.
Siccome dalla sentenza impugnata non risulta che la attuale ricorrente abbia richiesto nel giudizio di merito che, nel calcolare gli interessi dovuti alla banca, il c.t.u. procedesse alla capitalizzazione degli stessi su base annua, la ricorrente avrebbe dovuto indicare - in ossequio al principio dell'autosufficienza del ricorso per cassazione - in quale atto processuale o verbale d'udienza abbia formulato tale richiesta, indicazione che, invece, ha omesso.
Tale omissione comporta la inammissibilità del motivo (cfr. tra le molte Cass. n. 6502 del 2001;Cass. n. 2773 del 1999). Anche il sesto motivo è inammissibile.
La ricorrente deduce che la corte d'appello avrebbe omesso ogni motivazione sulla eccezione di prescrizione sollevata nel giudizio di appello nel verbale di inizio delle operazioni peritali, ribadita nelle conclusioni formulate all'udienza dell'8 marzo 2002 e nella comparsa conclusionale. Il collegio osserva che l'art. 345, secondo comma, cod. proc. civ. preclude la possibilità di proporre nel
giudizio di appello nuove eccezioni, che non siano rilevabili anche d'ufficio.
La eccezione di prescrizione non può essere rilevata d'ufficio (art. 2938 cod. civ.) e, quindi, non può essere proposta per la prima
volta nel giudizio di appello. La ricorrente, con la indicazione degli atti in cui assume di aver formulato tale eccezione, implicitamente ammette la sua tardività.
Il motivo di ricorso in esame, pertanto, deve essere dichiarato inammissibile per carenza di interesse, non sussistendo l'interesse alla cassazione di una pronuncia per difetto di motivazione su una eccezione che non risulti tempestivamente proposta. Il settimo motivo devesi ritenere assorbito, trattandosi di questioni relative alla validità della consulenza di ufficio, che, in conseguenza dell'accoglimento del primo motivo di ricorso, possono essere riproposte ed esaminate nel giudizio di rinvio. Infine anche i motivi del ricorso incidentale devono essere dichiarati assorbiti, atteso che l'accoglimento del primo motivo di ricorso comporta anche il riesame in sede di rinvio degli elementi posti a fondamento della richiesta di condanna della banca ricorrente al risarcimento del danno per responsabilità aggravata. Concludendo, per quanto su esposto deve essere accolto il primo motivo del ricorso principale, rigettato il quarto motivo, dichiarati inammissibili il quinto ed il sesto, dichiarati assorbiti il secondo, il terzo ed il settimo motivo del ricorso principale, nonché il ricorso incidentale.
La sentenza impugnata deve essere cassata in relazione alle censure accolte e rinviata, anche per la liquidazione delle spese del giudizio di legittimità, ad altra sezione della corte d'appello di Bari.