Cass. civ., sez. II, sentenza 30/06/2021, n. 18496

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Il provvedimento analizzato è una sentenza della Corte di Cassazione, emessa dal Consigliere relatore Dott.ssa M.F. Le parti in causa erano una promissaria acquirente e la venditrice, con l'agenzia immobiliare coinvolta. La ricorrente sosteneva di aver subito un danno a causa di un presunto inadempimento della venditrice, che non avrebbe informato adeguatamente sulla provenienza donativa dell'immobile, ritenendo tale omissione un errore essenziale. La venditrice, invece, contestava la legittimità del recesso dal contratto preliminare e chiedeva la condanna della ricorrente per lite temeraria.

La Corte ha rigettato il ricorso principale, confermando la decisione della Corte d'appello di Torino. Ha argomentato che la venditrice aveva fornito la documentazione necessaria, inclusa l'atto di donazione, e che l'acquirente era a conoscenza della provenienza dell'immobile. Inoltre, la Corte ha escluso la sussistenza di dolo omissivo, evidenziando che il semplice silenzio non integra di per sé un comportamento ingannevole. Infine, ha ritenuto che la condotta della ricorrente fosse pretestuosa, giustificando la condanna al risarcimento dei danni ai sensi dell'art. 96 c.p.c. per lite temeraria.

Sul provvedimento

Citazione :
Cass. civ., sez. II, sentenza 30/06/2021, n. 18496
Giurisdizione : Corte di Cassazione
Numero : 18496
Data del deposito : 30 giugno 2021
Fonte ufficiale :

Testo completo

seguente CCO(V SENTENZA sul ricorso 6973-2016 proposto da: P S, elettivamente domiciliata in ROMA, via Germanico n. 107, presso lo studio dell'avvocato A B, rappresentata e difesa dall'avvocato A F del foro di Torino;

- ricorrente -

contro

N M, elettivamente domiciliata in ROMA, via Cola di Rienzo n. 297, presso !o studio dell'avvocato N B, rappresentata e difesa dall'avvocato G G del foro di Torino;- controricorrente e ricorrente incidentale - e

contro

RM CASE s.a.s. di SPENNACCHIO DANIELE ANTONIO & C. e SPENNACCHIO DANIELE ANTONIO personalmente, domiciliati in ROMA, presso la cancelleria della Corte di Cassazione, rappresentati e difesi dall'avvocato L I R del foro di Torino;

- controricorrenti -

avverso la sentenza n. 1518/2015 della Corte di appello di Torino, depositata il 5 agosto 2015 e notificata il 25 ottobre 2016;
udita la relazione della causa svolta nell'udienza pubblica del 4 novembre 2020 dal Consigliere relatore Dott.ssa M F;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. C M, che ha concluso per il rigetto dei primi tre motivi di ricorso principale e l'inammissibilità del quarto, in subordine il rigetto integrale del ricorso principale e l'assorbimento del ricorso incidentale condizionato;
uditi l'Avv.to L B (con delega scritta dell'avvocato A F)A P, per parte ricorrente, e l'Avv.to L I R per parte controricorrente.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con atto di citazione notificato il 29 gennaio 2009 S P evocava in giudizio, dinanzi al Tribunale di Torino, M N, l'agenzia immobiliare RM CASE s.a.s. e il socio accomandatario Daniele Antonio SPENNACCHIO, premettendo di avere sottoscritto in data 29.10.2006 proposta irrevocabile di acquisto di bene immobile per il prezzo di euro 180.000,00, di cui euro 5.000,00 versati contestualmente alla sottoscrizione di detta proposta a titolo di caparra confirmatoria, e in data 30.11.2006 scrittura integrativa con la quale la N garantiva la piena disponibilità del bene e l'assenza di vincoli, occasione nella quale versava un ulteriore acconto di euro 20.000,00, cui veniva attribuita ancora natura di caparra confirmatoria;
aggiungeva che il saldo avrebbe dovuto essere versato non appena gli enti mutuanti interpellati avessero terminato le formalità per la concessione di un mutuo, circostanza della quale era stata prontamente informata la promittente venditrice, essendo stata esplicitata la necessità di dover accedere ad un finanziamento di euro 50.000,00 per l'integrale versamento del prezzo;
precisava ancora che in data 30.12.2006 aveva versato un ulteriore acconto di euro 20.000,00, oltre ad avere commissionato il giorno 04.01.2007 la progettazione e la realizzazione di arredi;
solo successivamente a tale data la promissaria acquirente veniva a conoscenza che l'immobile promesso in vendita era pervenuto alla promittente venditrice per donazione, ragione per la quale gli istituti di credito consultati avevano rifiutato di accordarle il finanziamento, secondo le prassi consolidate delle banche;
detta circostanza veniva contestata alla promittente venditrice e all'agenzia di mediazione assumendo l'inadempimento dell'obbligo di informazione, per cui dichiarava di considerare risolto il contratto preliminare, con conseguente obbligo della promittente venditrice di restituzione di quanto ricevuto, pari ad euro 45.000,00, oltre alla provvigione corrisposta per euro 5.900,00, richiedendo, altresì, la condanna di tutti i convenuti al risarcimento dei danni. Instaurato il contraddittorio, nella resistenza dei convenute, spiegata dalla N riconvenzionale per sentir dichiarare la legittimità del recesso ovvero, in via subordinata, la condanna dell'agenzia e del socio accomandatario alla manleva, il giudice adito, con la sentenza n. 1574/2013, espletata istruttoria, respingeva le domande attoree e in accoglimento di quella riconvenzionale, dichiarava la legittimità del recesso dal contratto preliminare esercitato in data 05.04.2007 e per l'effetto riconosceva il diritto della convenuta a trattenere la caparra di euro 25.000,00. In virtù di rituale appello interposto dalla PIU, la Corte di appello di Torino, nella resistenza degli appellati, proposto dalla N appello incidentale condizionato, insistendo sulla domanda in manleva nei confronti dell'agenzia e del socio accomandatario, con sentenza n. 1518 del 2015, respingeva il gravame principale e per l'effetto confermava la decisione di primo grado, con condanna dell'appellante alla rifusione delle spese del grado e al risarcimento dei danni ai sensi dell'art. 96 c.p.c. A sostegno della decisione adottata la corte territoriale evidenziava che l'efficacia del contratto non era stata sottoposta alla condizione dell'ottenimento del mutuo e la stipulazione di contratto di finanziamento non era stata neanche prevista come sicura. Aggiungeva che dalle prove testimoniali acquisite risultava che fra la documentazione consegnata alla promissaria acquirente al momento della sottoscrizione del preliminare, in data 20.11.2006, vi era anche l'atto di donazione, per cui non poteva essere imputata alla promittente venditrice alcuna omissione nel fornire informazioni sulla provenienza del bene, né sussisteva alcun presupposto per l'annullamento del contratto anche in considerazione del fatto che la donazione era stata disposta dal padre della N a favore della sua unica figlia, sicchè il rischio di azione in riduzione era del tutto modesto. La condanna dell'appellante al risarcimento dei danni ai sensi dell'art. 96 c.p.c. veniva dalla Corte distrettuale ravvisata da un'analisi dettagliata della condotta extraprocessuale dell'originaria attrice. Per la cassazione della sentenza della Corte di appello di Torino ha proposto ricorso Sabrina Più, sulla base di quattro motivi, cui hanno resistito con separati controricorsi gli originari convenuti, contenente quello della N anche ricorso incidentale condizionato affidato ad un unico motivo. In prossimità della udienza pubblica tutte le parti hanno depositato memoria illustrativa.

CONSIDERATO IN DIRITTO

Va preliminarmente esaminata l'eccezione di inammissibilità del ricorso formulata dalla RM Case s.a.s. e da Daniele Antonio Spennacchio, nonché dalla N nei rispettivi controricorsi ai sensi dell'art. 327 c.p.c. Questa Corte ha avuto più volte occasione di affermare che in caso di appello proposto avverso sentenza di primo grado, ai fini dell'operatività del termine semestrale di decadenza dal gravame (previsto dall'art. 327 c.p.c., nel testo novellato dalla legge n. 69 del 2009 ed applicabile - ai sensi dell'art. 58 della stessa legge - ai soli giudizi pendenti dopo la sua entrata in vigore), la "pendenza del giudizio" va individuata con riferimento alla data di notificazione dell'originario atto introduttivo (ex multis, Cass. 5 giugno 2015 n. 11666;
Cass. 4 maggio 20012 n. 6784). In sostanza, il nuovo quadro normativo introdotto nel corso dell'anno 2009 ha previsto che il più breve termine di impugnazione per la proposizione dell'appello si applichi ai giudizi instaurati dopo il 4 luglio 2009. Orbene, deve escludersi che ciò nella specie ricorra per essere stato il contraddittorio instaurato in primo grado il 29 gennaio 2009 e dunque trova applicazione la norma anteriore alla riforma. Quanto alla eccezione di improcedibilità ex art. 369 c.p.c. per essere stato il ricorso depositato oltre i venti giorni rispetto la data di notificazione a tutte le parti, è anch'essa infondata. La legge consente agli avvocati che hanno sottoscritto il ricorso di procedere al suo deposito anche mediante l'invio per posta, in plico raccomandato, al cancelliere della Corte di Cassazione. Qualora ci si avvalga di tale mezzo, il deposito si ha per avvenuto, a tutti gli effetti, alla data di spedizione dei plichi con la posta raccomandata, e ciò ai sensi del comma 5 dell'art. 134 delle disp. att. c.p.c. (è sufficiente, dunque, che il plico sia spedito prima dello scadere dei venti giorni decorrenti dalla notifica, a nulla rilevando che esso pervenga alla cancelleria della Corte successivamente allo spirare di tale termine: v. Cass. n. 9861 del 2014 e Cass. n. 684 del 2016). Ai fini della verifica del tempestivo deposito del ricorso per cassazione, ex art. 369 c.p.c., nel caso in cui la parte si sia avvalsa del servizio postale, come nella specie, assume pertanto rilievo, per il ricorrente, la data di consegna del plico all'ufficio postale, mentre il termine di venti giorni dall'ultima notificazione si calcola dalla data di ricezione dell'atto notificato alla parte contro cui il ricorso è proposto, con la conseguenza che essendo stato notificato il ricorso ai controricorrenti a mezzo pec in data 1° marzo 2016 (v. relativa attestazione di notificazione in atti), il deposito dello stesso è da ritenere tempestivo per essere stato inviato a mezzo posta in data 21 marzo 2016, pervenuto alla Corte di Cassazione il 23 marzo 2016, come da avviso di ricevimento. Pure infondata è la deduzione di inammissibilità del ricorso principale ai sensi dell'art. 366 n. 3 c.p.c. per mancanza di esposizione sommaria dei fatti. Questa Corte ha affermato che "per soddisfare il requisito imposto dall'art. 366, primo comma, n. 3), c.p.c. il ricorso per cassazione deve contenere l'esposizione chiara ed esauriente, sia pure non analitica o particolareggiata, dei fatti di causa, dalla quale devono risultare le reciproche pretese delle parti, con i presupposti di fatto e le ragioni di diritto che le giustificano, le eccezioni, le difese e le deduzioni di ciascuna parte in relazione alla posizione avversaria, lo svolgersi della vicenda processuale nelle sue articolazioni, le argomentazioni essenziali, in fatto e in diritto, su cui si fonda la sentenza impugnata e sulle quali si richiede alla Corte di cassazione, nei limiti del giudizio di legittimità, una valutazione giuridica diversa da quella asseritamene erronea, compiuta dal giudice di merito (Cass. 3 febbraio 2015 n. 1926). Il ricorso deve, quindi, contenere tutti gli elementi necessari a porre il giudice di legittimità in grado di avere la completa cognizione della controversia e del suo oggetto, di cogliere il significato e la portata delle censure rivolte alle specifiche argomentazioni della sentenza impugnata, senza la necessità di accedere ad altre fonti ed atti del processo, ivi compresa la sentenza stessa. Ciò significa che la valutazione sulla completezza della esposizione dei fatti contenuta nell'atto introduttivo deve essere effettuata considerando il fine che il requisito mira ad assicurare e contemperando la esigenza di fornire alla Corte tutti gli elementi necessari ai fini della decisione con quella della necessaria sinteticità degli atti processuali. Ne discende che, come evidenziato dalle Sezioni Unite di questa Corte, la "esposizione sommaria dei fatti di causa" non richiede né la pedissequa riproduzione dell'intero, letterale contenuto degli atti processuali, né che "si dia meticoloso conto di tutti i momenti nei quali la vicenda processuale s'è articolata" (così in motivazione Cass. Sez. Un. 11 aprile 2012 n. 5698), essendo sufficiente una sintesi della vicenda "funzionale alla piena comprensione e valutazione delle censure mosse alla sentenza impugnata". Le stesse Sezioni Unite hanno anche significativamente aggiunto che "il ricorso non può dirsi inammissibile quand'anche difetti una parte formalmente dedicata all'esposizione sommaria del fatto, se l'esposizione dei motivi sia di per sè autosufficiente e consenta di cogliere gli aspetti funzionalmente utili della vicenda sottostante al ricorso stesso". Nel caso di specie la violazione dell'art. 366 n. 3 c.p.c. non può essere affermata rilevato che dal tenore dell'atto, in particolare nel testo dal titolo "Fatto e svolgimento del processo" viene riprodotta gran parte della sentenza impugnata e contiene una puntuale descrizione dello svolgimento del processo, mediante il riferimento ai precedenti gradi di giudizio (v. le pagine da 2 a 5). In altri termini, in esso, con la trascrizione del dispositivo della sentenza di primo grado e di quello di appello, corredata dalle rispettive difese e dall'istruttoria, vi è una corretta ed essenziale narrazione dei fatti processuali (Cass., Sez. Un., n. 21260 del 2016). Del pari è da ritenere infondata l'eccezione di inammissibilità del ricorso formulata dalla N quanto alle argomentazioni "grossolanamente fuorvianti e mistificatrici" svolte nell'impugnazione, salvo quanto verrà osservato con riferh alle singole censure. Sempre in via pregiudiziale, va ritenuta irrituale la produzione documentale effettuata dai controricorrenti RM Case s.a.s. e dal suo legale rappresentante, Spennacchio Daniele Antonio, solo in pubblica udienza - come eccepito dalla stessa ricorrente - giacchè ai sensi dell'art. 372, comma 2, c.p.c. "il deposito dei documenti relativi all'ammissibilità può avvenire indipendentemente da quello del ricorso e del controricorso, ma deve essere notificato, mediante elenco, alle altre parti". Si osserva, altresì, per completezza espositiva, che «Nel giudizio per cassazione è ammissibile la produzione di documenti non prodotti in precedenza solo ove attengano alla nullità della sentenza impugnata o all'ammissibilità processuale del ricorso o del controricorso, ovvero al maturare di un successivo giudicato, mentre non è consentita la produzione di documenti nuovi relativi alla fondatezza nel merito della pretesa, per far valere i quali, se rinvenuti dopo la scadenza dei termini, la parte che ne assuma la decisività può esperire esclusivamente il rimedio della revocazione straordinaria ex art. 395, n. 3, c.p.c..» (Cass. n. 18464 del 2018). Venendo al merito del ricorso principale, con il primo motivo la PIU nel denunciare — ex art. 360, comma 1, n. 3 e n. 5 c.p.c. — la violazione e/o la falsa applicazione dell'art. 1429 n. 2 c.c., nonché l'omessa qualificazione dell'errore sulla provenienza donativa dell'immobile oggetto di compravendita quale errore essenziale e riconoscibile, lamenta che la Corte di merito non abbia ritenuto che la falsa rappresentazione della provenienza dell'immobile non integrasse gli estremi di un errore rilevante ai sensi degli artt. 1429 e 1431 c.c. La ricorrente sostiene che, a causa della provenienza da donazione, il bene, in contrasto con la garanzia prestata dalla promittente venditrice, non era del tutto libero, in quanto quella stessa provenienza, taciuta dal venditore, comportava il rischio della perdita del bene a seguito di azione di riduzione. La circostanza che la promissaria acquirente aveva appreso solo in un secondo tempo che il bene promesso in vendita proveniva da donazione integrava la fattispecie dell'errore. Il motivo è per un verso inammissibile e per altro infondato. E' inammissibile laddove non censura la ratio decidendi della sentenza che nel riferire l'inadempimento all'acquirente ne individua il presupposto nella mancata previsione nel regolamento negoziale della necessità di ottenere il finanziamento quale condizione (sospensiva ovvero risolutiva) di efficacia del contratto medesimo, peraltro con la precisazione che la stipulazione di contratto di mutuo non era prevista neanche come sicura, tant'è che riguardo alle modalità di pagamento del saldo del prezzo di euro 135.000,00 era espressamente pattuito "tramite contanti e/o finanziamento/mutuo che la promissaria acquirente chiederà". Né è sottoposta a critica l'argomentazione con la quale la Corte territoriale ha escluso l'esistenza del lamentato errore, essenziale e riconoscibile, per avere avuto la promissaria acquirente, nell'ambito della documentazione messa a sua disposizione dalla promittente venditrice, attraverso l'agenzia immobiliare, la possibilità di verificare la provenienza del bene, essendovi fra i documenti anche l'atto di donazione del padre, disposta in favore della sua unica figlia. Del resto anche a voler ritenere che la conoscenza della donazione fosse comunque avvenuta al più tardi contestualmente alla sottoscrizione della proposta irrevocabile, momento in cui pacificamente è stata consegnata alla proponente la 'cartellina' dei documenti a corredo del bene immobile, nessun rilievo risulta avere dedotto al riguardo, neanche nei giorni successivi. Nel merito, poi, occorre rilevare che secondo la giurisprudenza della Corte «Il semplice fatto che un bene immobile provenga da donazione e possa essere oggetto teoricamente oggetto di una futura azione di riduzione per lesione di legittima esclude di per sé che esista un pericolo effettivo di rivendica e che il compratore possa sospendere il pagamento del terzo o pretendere la prestazione di una garanzia» (Cass. n. 2541 del 1994;
Cass.n. 8002 del 2012;
Cass. n. 8571 del 2019;
Cass. n. 32694 del 2019). Tale orientamento merita di essere condiviso. È innegabile che la provenienza da donazione porta con sé la possibilità che questa possa essere attaccata in futuro dai legittimari del donante, i quali, una volta ottenutane la riduzione, potrebbero pretendere la restituzione del bene donato anche nei confronti dei terzi acquirenti (art.563 c.c.). Nello stesso tempo è altrettanto innegabile che la teorica instabilità insita nella provenienza non determina per sé stessa un rischio concreto e attuale che l'acquirente del donatario si veda privato dell'acquisto. Da questo punto di vista l'analisi deve partire dalla considerazione che il diritto alla legittima si costituisce al momento della morte del donante in base al valore dei beni, relitti e donati, riferiti a quel momento (art. 556 c.c.). Solo all'apertura della successione è possibile appurare se sussiste una «lesione di legittima». Si deve ancora aggiungere che l'esistenza di una lesione di legittima non comporta necessariamente il sacrificio dei donatari, né tanto meno il sacrificio indistinto di tutti i donatari (artt. 553, 555, 559 c.c.). Le donazioni, infatti, non sono riducibili se non dopo esaurito il valore dei beni relitti (artt. 553, 555 c.c.). Le donazioni, inoltre, non si riducono proporzionalmente come le disposizioni testamentarie, ma secondo un criterio cronologico, cominciando dall'ultima e risalendo via via alle anteriori (art. 559 c.c.). Le norme sul modo di integraziod della legittima e sull'ordine di riduzioni;
delle disposizioni lesive sono inderogabili (Cass. n. 4721 del 2016), per cui il legittimario non può far ricadere il peso della riduzione in modo difforme da quanto dispongono gli artt. 553, 555, 558 e 559 c.c. Consegue da tale sistema che: a) il legittimario può pretendere dai donatari solo l'eventuale differenza fra la legittima, calcolata sul relictum e sul donatum, e il valore dei beni relitti: se questi sono sufficienti i donatari sono al riparo da qualsiasi pretesa, qualunque sia stata la scelta del legittimario nei riguardi dei coeredi e beneficiari di eventuali disposizioni testamentarie;
b) il legittimario non può recuperare a scapito di un donatario posteriore quanto potrebbe prendere dal donatario anteriore (Cass. n. 3500 del 1975;
Cass. n. 22632 del 2013);
se la donazione posteriore è capiente le anteriori non sono riducibili, anche se la prima non sia stata attaccata in concreto con l'azione di riduzione. Occorre poi considerare che l'eventuale sacrificio di uno dei donatari non si traduce necessariamente nel sacrificio dell'acquirente del donatario colpito da riduzione. Ai sensi dell'art. 563 c.c. la c.d. retroattività reale dell'azione di riduzione non è riconosciuta senza limitazioni, dovendo il donatario preventivamente escutere i beni eventualmente esistenti nel patrimonio del donatario (Cass. n. 5042 del 2011;
Cass. n. 613 del 1961). Solo in caso di esito negativo di tale escussione il legittimario ha diritto di rivolgersi contro il terzo chiedendogli la restituzione del bene immobile (Cass. n. 1392 del 1970). In base a tale sistema è inevitabile dedurne che la mancanza di un rischio concreto e attuale a carico dell'avente causa del donatario, come accertato nella specie dalla Corte di merito, con valutazione della concretezza di tale rischio che non è stata avulsa da una indagine sulla consistenza del patrimonio ereditario in relazione al numero dei possibili legittimari (la promittente era figlia unica), indagine che oltre a non essere stata oggetto di critica da parte della ricorrente, costituisce una valutazione di merito non censurabile in sede di legittimità, ove adeguatamente argomentata. Art-- Con il secondo motivo la ricorre' denuncia la violazione e/o la falsa applicazione dell'art. 1439 c.c., oltre a difetto di motivazione, in relazione alla ritenuta insussistenza del dolo quale causa invalidante il contratto preliminare per omessa informazione della provenienza donativa dell'immobile. Ad avviso della ricorrente avendo ella in più occasioni manifestato sia verbalmente sia per iscritto l'esigenza di accendere un mutuo per l'acquisto dell'abitazione, le controparti avrebbero dovuto metterla a conoscenza di tutte le circostanze utili per perfezionare l'atto di acquisto de quo. Anche il secondo motivo è privo di pregio ed, essenzialmente, perché si fonda su una valutazione dei fatti e delle risultanze istruttorie, diversa da quella compiuta dalla Corte distrettuale, la quale, risultando priva di vizi logici e/o giuridici, non è suscettibile di sindacato nel giudizio di cassazione. D'altra parte, deve assumersi, in diritto, che, pur potendo il dolo omissivo viziare la volontà e determinare l'annullamento del contratto, tuttavia, esso rileva a tal fine solo quando l'inerzia della parte contraente si inserisca in un complesso comportamento adeguatamente preordinato, con malizia od astuzia, a realizzare l'inganno perseguito. Il semplice silenzio, anche su situazioni di interesse della controparte, e la reticenza, non immutando la rappresentazione della realtà, ma limitandosi a non contrastare la percezione di essa alla quale sia pervenuto l'altro contraente, non costituiscono causa invalidante del contratto. Piuttosto, la reticenza ed il silenzio non sono sufficienti a costituire il dolo, se non in rapporto alle circostanze ed al complesso del contegno che determina l'errore del "deceptus", che devono essere tali da configurarsi quali malizia o astuzia volte a realizzare l'inganno perseguito (Cass. n. 2104 del 2003;
più di recente, Cass. n. 11009 del 2018). Ora, nel caso in esame, la Corte distrettuale ha evidenziato che la Piu, cui incombeva il relativo onere probatorio, non ha dedotto tutti gli elementi necessari ad integrare il preteso dolo omissivo della promittente venditrice e dell'agenzia immobiliare con riferimento sia al contesto nel quale il silenzio da essi tenuto avrebbe dovuto inserirsi per essere rilevante, sia alla idoneità del silenzio stesso ad incidere sulla determinazione volitiva dell'acquirente. Anzi, come ha avuto modo di specificare la Corte distrettuale, appare dirimente la circostanza che il contratto di donazione intervenuto in favore della venditrice sia stato nella disponibilità dell'acquirente sin dall'origine in quanto ricompreso fra la documentazione consegnata alla medesima dall'agenzia immobiliare RM Case, in assenza peraltro di successive doglianze al riguardo. Nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto, le parti devono comportarsi secondo buona fede, intesa nella sua accezione oggettiva, quindi come regola di condotta che si sostanzia nel principio della solidarietà contrattuale, articolandosi nei due aspetti della lealtà e della salvaguardia, e la Corte distrettuale ha anche escluso che la venditrice non si fosse comportata secondo buona fede, tanto è vero che ha specificato che Vincenzo D'Apuozzo, coniuge della Piu, ispettore della Guardia di finanza, sentito anche come teste, proprio in considerazione della sua qualifica, avendo accompagnato la coniuge, era a conoscenza della natura dell'atto di acquisto da parte della venditrice, e a fronte di siffatte risultanze non si può davvero affermare sussistente la prova che la N avesse fatto dichiarazioni consapevolmente menzognere. Con il terzo motivo la ricorrente lamenta la violazione e/o la falsa applicazione dell'art. 1759 c.c., nonché l'omissione di pronuncia, in relazione alla ritenuta insussistenza dei presupposti per dichiarare la responsabilità del mediatore per inadempimento contrattuale e pronunciarsi la sua condanna al risarcimento dei danni dalla stessa patiti. Anche la terza censura non merita accoglimento e ruota sempre intorno alla questione dell'inadempimento per omessa comunicazione inerente la provenienza donativa dell'immobile. Secondo l'orientamento dominante nella giurisprudenza di questa Corte, che il Collegio intende ribadire, poiché la legge n.39 del 1989 subordina l'esercizio dell'attività di mediazione al possesso di specifici requisiti di capacità professionale, configurandola come attività professionale, l'obbligo di informazione gravante sul mediatore a norma dell'art. 1759 c.c., va commisurato alla normale diligenza alla quale è tenuto a conformarsi nell'adempimento della sua prestazione il mediatore di media capacità, e pertanto deve ritenersi che il suddetto obbligo deve riguardare non solo le circostanze note, ma tutte le circostanze la cui conoscenza, in relazione all'ambito territoriale in cui opera il mediatore, al settore in cui svolge la sua attività e ad ogni altro ulteriore utile parametro, sia acquisibile da parte di un mediatore dotato di media capacità professionale con l'uso della normale diligenza. Tuttavia, anche secondo il richiamato orientamento giurisprudenziale, non rientra nella comune ordinaria diligenza, alla quale il mediatore deve conformarsi nell'adempimento della prestazione ai sensi dell'art. 1176 c.c., lo svolgimento, in difetto di particolare incarico, di specifiche indagini di tipo tecnico giuridico, quale, con riguardo al caso di intermediazione in compravendita immobiliare, quella relativa all'accertamento, previo esame dei registri immobiliari, della natura dell'atto di proprietà e, per ciò che più conta nella specie, la incidenza di detta informazione sulle modalità di pagamento del prezzo (v., tra le altre, Cass. n. 19075 del 2012 (non massimata);
Cass. n. 15926 del 2009;
Cass. n. 15274 del 2006;
Cass. n. 822 del 2006;
Cass. n. 16009 del 2003;
Cass. n. 6389 del 2001;
Cass. n. 4791 del 1999. Per un caso in cui si è ritenuto che l'obbligo del mediatore di riferire alle parti le circostanze dell'affare a sua conoscenza, ovvero che avrebbe dovuto conoscere con l'uso della diligenza da lui esigibile, ricomprenda, nel caso di mediazione immobiliare, le informazioni sulla esistenza di iscrizioni o trascrizioni pregiudizievoli, v. Cass. n. 16382 del 2009). Nella specie, la Corte di appello, elencati in modo dettagliato i principi ed il contenuto degli obblighi del mediatore che si desumono dagli articoli del codice civile e dalla giurisprudenza, con motivazione congrua, ha applicato tali principi alla fattispecie concreta, e, sulla base della valutazione delle prove emerse nel corso del giudizio, ha verificato la inesistenza della violazione di tali principi. In particolare ha accertato che non poteva dirsi raggiunta la prova sulla esplicitazione nella proposta - neanche verbalmente esternata - subordinando l'efficacia del contratto alla condizione di ottenere un finanziamento. Del resto la RM Case correttamente, sulla base del riportato orientamento giurisprudenziale, ritenne che l'incarico ricevuto non comportasse, in assenza di una previsione diversa, l'obbligo di svolgere approfondite indagini anche in ordine alle conseguenze giuridiche dell'atto di proprietà. Con il quarto e ultimo motivo la ricorrente denuncia la violazione dell'art. 96 c.p.c. per avere la corte distrettuale ritenuto la sussistenza dei presupposti per pronunciare condanna nei suoi confronti per lite temeraria. Anche l'ultima censura non può trovare ingresso. Questa Corte ha recentemente riesaminato la questione relativa alla funzione sanzionatoria della condanna per lite temeraria prevista da tale norma, in relazione sia alla necessità di contenere il fenomeno dell'abuso del processo, sia all'evoluzione della fattispecie dei "danni punitivi" che ha progressivamente fatto ingresso nel nostro ordinamento;
al riguardo, è stato affermato che "la condanna ex art. 96, comma 3, c.p.c., applicabile d'ufficio in tutti i casi di soccombenza, configura una sanzione di carattere pubblicistico, autonoma ed indipendente rispetto alle ipotesi di responsabilità aggravata ex art. 96, commi 1 e 2, c.p.c. e con queste cumulabile, volta al contenimento dell'abuso dello strumento processuale;
la sua applicazione, pertanto, non richiede, quale elemento costitutivo della fattispecie, il riscontro dell'elemento soggettivo del dolo o della colpa grave, bensì di una condotta oggettivamente valutabile alla stregua di "abuso del processo", quale l'aver agito o resistito pretestuosamente (Cass. n. 27623 del 2017) e cioè nell'evidenza di non poter vantare alcuna plausibile ragione. Tale pronuncia è stata preceduta da un altro fondamentale arresto secondo il quale "nel vigente ordinamento, alla responsabilità civile non è assegnato solo il compito di restaurare la sfera patrimoniale del soggetto che ha subìto la lesione, poiché sono interne al sistema la funzione di deterrenza e quella sanzionatoria del responsabile civile, sicché non è ontologicamente incompatibile con l'ordinamento italiano l'istituto, di origine statunitense, dei "risarcimenti punitivi" (Cass., Sez. Un., n. 16601 del 2017)": nella motivazione della sentenza richiamata l'art. 96 u.co c.p.c è stato inserito nell'elenco delle fattispecie rinvenibili, nel nostro sistema, con funzione di deterrenza;
in relazione a ciò, va ribadito, a mero titolo esemplificativo, che ai fini della condanna ex art. 96, terzo comma, c.p.c. può costituire abuso del diritto all'impugnazione la proposizione di un ricorso per cassazione basato su motivi manifestamente incoerenti con il contenuto della sentenza impugnata, o completamente privo di autosufficienza, dedotto in assenza della esposizione sommaria dei fatti oppure contenente una mera complessiva richiesta di rivalutazione nel merito della controversia, oppure fondato sulla deduzione del vizio di cui all'art. 360 n. 5 c.p.c., ove sia applicabile, ratione temporis, l'art. 348 ter ult.com . c.p.c. che ne esclude la invocabilità oppure, come nel caso di specie, non osservante dp tutti gli incombenti processuali, anche di rilievo pubblicistico, necessari per la non manifesta fondatezza del gravame. In tali ipotesi, l'appello integra un ingiustificato sviamento del sistema giurisdizionale, essendo non già finalizzato alla tutela dei diritti ed alla risposta alle istanze di giustizia, ma risolvendosi soltanto, oggettivamente, ad aumentare il volume del contenzioso e, conseguentemente, a ostacolare la ragionevole durata dei processi pendenti ed il corretto impiego delle risorse necessarie per il buon andamento della giurisdizione. Ed è quanto ha accertato la Corte distrettuale, con motivazione non censurabile in sede di legittimità, laddove ha analizzato la condotta dell'appellante, originaria attrice, tenendo conto della lievitazione degli importi richiesti sia per la restituzione degli acconti versati (da euro 70.000,00 ad euro 129.000,00) sia quanto all'importo relativo alla provvigione (da euro 4.900,00 ad euro 5.900,00, risultando in realtà versata la somma di euro 3.000,00 a tale titolo), oltre ad avere pretestuosamente aumentato le voci di danno. Rimane assorbito, per effetto della reiezione del ricorso principale, il ricorso incidentale condizionato formulato dalla controricorrente, che con unico motivo ha insistito nella riproposizione della domanda in manleva nei confronti dell'agenzia immobiliare di mediazione e del suo socio accomandatario. In definitiva, alla stregua delle ragioni complessivamente svolte, il ricorso principale deve essere rigettato, con assorbimento di quello incidentale condizionato. La soccombente ricorrente principale va condannata al pagamento delle spese del presente giudizio, che si liquidano nei sensi di cui in dispositivo. Infine, ai sensi dell'art. 13, comma 1-quater del d.P.R. n. 115 del 2002, occorre dare atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente principale, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso articolo 13, se dovuto.
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