Cass. pen., sez. I, sentenza 11/03/2022, n. 08390
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Testo completo
la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da: LO EA nato a [...] il [...] avverso l'ordinanza del 21/04/2021 del TRIB. SORVEGLIANZA di PALERMOudita la relazione svolta dal Consigliere MONICA BONI;
lette/sontik le conclusioni del P G • cé reticd-c-te c.eu d&t'e-lk) ILL(CLUJ,CCISA lbs Ritenuto in fatto 1. Con ordinanza in data 21 aprile 2021, il Tribunale di sorveglianza di Palermo rigettava l'appello proposto da AN LU avverso l'ordinanza del Magistrato di sorveglianza della stessa città, emessa in data 18 gennaio 2021, con la quale era stata applicata la misura di sicurezza della libertà vigilata per la durata di due anni, disposta con sentenza della Corte di appello di Palermo del 20 marzo 2015, che lo aveva condannato alla pena di anni sei e mesi quattro di reclusione per il reato di cui all'art. 416-bis cod. pen., commesso nel 2013. 2. Avverso il predetto provvedimento ha proposto ricorso per cassazione LU per mezzo del difensore di fiducia, avv. Aristide Galliano, deducendo, con un unico motivo di impugnazione, la inosservanza o erronea applicazione della legge penale, nonché la mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in relazione alla ritenuta attualità della pericolosità sociale. In particolare, la difesa del ricorrente lamenta, ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., che il Tribunale di sorveglianza non ha considerato che egli è tato condannato quale partecipe di associazione di stampo mafioso e non quale capo o promotore e ha erroneamente ritenuto significativi di attuale pericolosità sociale i rapporti o contatti, in realtà del tutto casuali, con soggetti pregiudicati, ha valorizzato informazioni ormai datate e risalente al momento dell'arresto, fornite dalla D.D.A. della Procura di Palermo e dalla Prefettura. In tal modo il Tribunale di sorveglianza ha omesso la valutazione prognostica pretesa per imporre la misura di sicurezza nei confronti di soggetto che si riconosce non avere posto in essere recenti violazioni della legge penale. Pertanto, il giudizio espresso si è basato soltanto sulla gravità del reato già giudicato senza considerare il periodo di detenzione sofferto, la liberazione anticipata concessa, la sottoposizione a misura di prevenzione senza rilievi, l'espletamento di attività lavorativa, l'ammissione di responsabilità resa agli operatori dell'U.e.p.e.. 3. E' pervenuta in cancelleria la requisitoria scritta del Procuratore generale presso questa Corte, dr. Vincenzo Senatore, con la quale è stato chiesto dichiararsi inammissibile il ricorso. Considerato in diritto Il ricorso è fondato e merita accoglimento.
1. E noto che, anteriormente all'entrata in vigore della legge 10 ottobre 1986, n. 663 (cd. legge Gozzini), l'art. 204 cod. pen. prevedeva specifici casi nei quali la pericolosità sociale era presunta, con conseguente obbligo per il giudice procedente di applicare una determinata misura di sicurezza. Il superamento di tale disciplina è frutto di un percorso progressivo, iniziato con le reiterate pronunce della Corte costituzionale (sentenze n. 139/1982, n. 249/1983 e n. 58/1995), completato con l'entrata in vigore dell'art. 31 della citata legge n. 663 del 1986, secondo il quale «tutte le misure di sicurezza personali sono ordinate previo accertamento che colui il quale ha commesso il fatto è persona socialmente pericolosa». L'attuale disciplina pretende, dunque, che l'applicazione delle misure di sicurezza personali sia frutto dell'accertamento, da parte del giudice procedente, che il responsabile del reato sia persona socialmente pericolosa, giudizio che deve essere seguito dalla verifica, demandata alla magistratura di sorveglianza, del permanere della menzionata condizione di pericolosità sociale, intesa come accentuata possibilità di commettere, in futuro, altri reati e desunta dalla gravità dei fatti-reato commessi, ma anche dai fatti successivi e dal comportamento tenuto dal condannato durante, e dopo, l'espiazione della pena secondo i criteti dettati dall'art. 133 cod. pen. (Sez. 1, n. 11055 del 2/3/2010, Mazzurco, Rv. 246789;
Sez. 3, n. 29407 del 17/4/2013, L., Rv. 256900).
1.1 I medesimi principi generali sono stati affermati anche nei riguardi di chi sia stato condannato per il delitto di associazione per delinquere di tipo mafioso. Invero, diversamente da quanto ritenuto da altro orientamento giurisprudenziale (cfr. Sez. 6, n. 2025 del 21/11/2017, dep. 2018, Ambesi, Rv. 272023;
Sez. 6, n. 44667 del 12/5/2016, Camarda, Rv. 268678;
Sez. 5, n. 38108 del 8/7/2015, Perri, Rv. 265006;
Sez. 1, n. 7196 del 12/1/2011, Inzerillo, Rv. 249224), qui non condiviso, dopo la ricordata modifica introdotta dalla legge n. 663 del 1986 non può configurarsi alcuna presunzione semplice di pericolosità nemmeno in caso di condanna per il reato di partecipazione ad associazione di tipo mafioso, secondo quanto previsto dall'art. 417 cod. pen.
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