Cass. civ., sez. III, sentenza 17/01/2019, n. 01046
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Testo completo
e R.G.N. 12228/2016 SENTENZA Cron. sul ricorso 12228-2016 proposto da: Rep. P C , elettivamente domiciliata in ROMA, ud . 03/04/29 PIAZZA EUCLIDE 31, presso lo studio dell'avvocatopu A F, che la rappresenta e difende giusta procura in calce al ricorso;- ricorrente - contro 1041 P F ;- intimato - Nonché da: P F , elettivamente domiciliato in ROMA, V.DELLA CASETTA MATTEI 239, presso lo studio dell'avvocato F T, rappresentato e difeso dall'avvocato S L gi_ista procura in calce al controricorso e ricorso incidentale;- ricorrente incidentale - contro P C , elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA EUCLIDE 31, presso lo studio dell'avvocato A F, che la rappresenta e difende giusta procura in calce al controricorso;- controricorrente all'incidentale - avverso la sentenza n. 6290/2015 della CORTE D'APPELLO di ROMA, depositata il 12/11/2015;udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 03/04/2018 dal Consigliere Dott. S G G;udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. C S che ha concluso per il rigetto del l° e 2° motivo del ricorso principale, accoglimento p.q.r. del 3° motivo, inammissibilità dell'incidentale;FATTI DI CAUSA 1. C P ricorre, sulla base di tre motivi, per la cassazione della sentenza n. 6290/15 del 12 novembre 2015 della Corte di Appello di Roma, che - accogliendo solo parzialmente il gravame da essa esperito contro la sentenza n. 4181/10 del 23 febbraio 2010 del Tribunale di Roma - ne ha confermato la condanna a risarcire a F P il danno non patrimoniale cagionatogli a causa di frasi ingiuriose rivolte al suo indirizzo al cospetto di terzi, danno liquidato in C 30.000,00. 2. Riferisce, in punto di fatto, C P di essere stata convenuta in giudizio innanzi al Tribunale capitolino, lamentando l'attore F P (fratello dell'odierna ricorrente, giacché entrambi figli dello stesso padre) di essere stato investito, nel giugno 2005, presso il proprio studio legale, alla presenza di collaboratori e colleghi, oltre che del cliente Paolo Bella, da una serie di espressioni ingiuriose rivolte al suo indirizzo dalla sorella ("ma che cazzo hai fatto?", "sei uno stronzo", "mi hai rovinata", "la devi smettere di rubarmi i soldi ed approfittarti di me", "tu mi vuoi rovinare, sei un ladro, io ti ammazzo"), la quale gli avrebbe messo le mani al collo nel tentativo di strangolarlo. In particolare, parte attrice, oltre a richiedere il ristoro dei danni non patrimoniali subiti, agiva pure per il risarcimento del danno patrimoniale conseguente, a suo dire, alla revoca di un mandato conferitogli dal Bella, in esecuzione del quale egli avrebbe dovuto percepire un compenso di C 32.400,44, oltre IVA e CPA. Costituitasi in giudizio l'odierna ricorrente, la stessa non solo contestava integralmente la ricostruzione dell'accaduto fornita da parte attrice, negando di aver pronunciato frasi ingiuriose ai danni del fratello e di averlo aggredito fisicamente, ma proponeva anche domanda riconvenzionale. Lamentava, infatti, di aver subito un grave danno a seguito della discussione avuta con il proprio congiunto (nel corso della quale avrebbe richiesto esclusivamente chiarimenti circa interventi edilizi arbitrariamente eseguiti presso un locale di sua proprietà, confinante con lo studio professionale del medesimo), essendo stata colta da malore all'esito del diverbio. Istruita la causa anche attraverso l'esame di testimoni, il giudice di prime cure accoglieva integralmente la domanda dell'attore, riconoscendogli il risarcimento anche del danno patrimoniale lamentato, respingendo, invece, la riconvenzionale proposta da C P. Proposto gravame da quest'ultima, la Corte di Appello di Roma, in parziale accoglimento dello stesso, ritenendo non raggiunta la prova del nesso causale tra il contegno ascritto all'appellante e il danno patrimoniale lamentato da F P "sub specie" di revoca (o mancato conferimento) di incarichi professionali, respingeva "in parte qua" la domanda risarcitoria, confermando, invece, la pronuncia impugnata quanto al risarcimento del danno ex art. 2059 cod. civ. 3. Avverso tale ultima decisione ha proposto ricorso per cassazione C P, sulla base di tre motivi. 3.1. Con il primo motivo è dedotta "nullità della sentenza" - ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 3), cod. proc. civ. - "per violazione degli artt. 594 cod. pen., 2059 e 2697 cod. civ. e 115 e 116 cod. proc. civ.", oltre che "difetto assoluto di motivazione in merito alla sussistenza e alla prova del reato di ingiuria". Ci si duole del fatto che l'unico argomento addotto a sostegno della "ammissibilità e fondatezza della richiesta di risarcimento del danno non patrimoniale si esaurisce nella laconica affermazione per cui viene «in rilievo un fatto configurabile come reato di ingiuria»", senza che sia stato, dunque, "condotto alcun accertamento circa la sussistenza del reato". Accertamento, questo, tanto più necessario, visto che ai fini della configurazione del reato ex art. 594 cod. pen. (peraltro, ormai abrogato dal d.lgs. 15 gennaio 2016, n. 7) è necessario "contestualizzare" l'offesa, ossia "rapportarla all'ambiente spazio-temporale nel quale viene pronunciata e tenendo conto della sua obiettiva capacità offensiva e dei rapporti tra le parti". In proposito, la sentenza impugnata avrebbe omesso di considerare che espressioni del tipo di quelle che sarebbero state pronunciate (ma che la ricorrente, comunque, nega di aver proferito) "sono ormai proprie del linguaggio comune, usate di frequente nelle conversazioni informali, soprattutto nei contesti familiari e domestici" (come nel caso di specie, giacché l'episodio oggetto del presente giudizio riguarda due fratelli i cui rapporti erano già inaspriti in ragione di vicende patrimoniali trascinatesi per anni), oltre che "sdoganate nel contesto sociale da fenomeni mediatici come il cinema e la televisione". D'altra parte, nella specie, mancherebbe "tanto l'allegazione, quanto la prova dell'intenzione e della consapevolezza dell'agente di usare espressioni ingiuriose con la consapevolezza di offendere l'altrui decoro", e dunque del dolo proprio dell'illecito ex art. 594 cod. pen., senza tacere del fatto che nel contegno della ricorrente dovrebbe ravvisarsi l'esimente ex art. 599, comma 3, cod. pen., giacché nella stessa ricostruzione dei fatti proposta dal (già) attore F P si riferisce dello "stato di agitazione" della sorella Carla, rappresentandosi, così, "una diminuzione dello stato di lucidità mentale della ricorrente ed un attacco di rabbia della stessa, ossia quello stato d'ira che escluderebbe la sanzionabilità del reato di ingiuria".3.2. Con il secondo motivo è dedotta nuovamente "nullità della sentenza" - ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 3), cod. proc. civ. - "per violazione e falsa applicazione degli artt. 2059 cod. civ., 185 cod. pen., 2697 cod. civ., 115 e 116 cod. proc. civ.", oltre che per "erroneità, illogicità e/o contraddittorietà della motivazione sul difetto di allegazione e prova della sussistenza del danno non patrimoniale e dei presupposti per la sua risarcibilità". Si assume che la sentenza impugnata avrebbe considerato quello conseguente all'ingiuria come un danno "in re ipsa", contravvenendo ai principi affermati da questa Corte - anche con riferimento al danno da lesione della reputazione - secondo cui "la prova dell'esistenza della lesione non significa che la stessa sia sufficiente ai fini del risarcimento, essendo necessaria l'ulteriore prova dell'entità del danno". 3.3. Il terzo motivo ipotizza, del pari, la "nullità della sentenza" - sempre ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 3), cod. proc. civ. - "per violazione e falsa applicazione degli artt. 1226, 2056, 2059 cod. civ., 113, 115 e 132 cod. proc. civ.", nonché "nullità della sentenza ex art. 360, comma 1, n. 4), cod. proc. civ. per violazione dell'art. 132, comma 1, n. 4), cod. proc. civ.", in ragione di "omessa e/o insufficiente e/o illogica motivazione sull'applicazione del criterio equitativo nella liquidazione del danno non patrimoniale". Si assume, infatti, come "eccessiva, illogica ed immotivata" la liquidazione nella misura di C 30.000,00, giacché basata sul solo assunto che l'aggressione sarebbe avvenuta presso lo studio ove l'Avv. C P svolge la propria attività professionale. In questo modo sarebbe stato disatteso il principio della cd. "equità circostanziata", il quale esige che il giudice renda evidente e controllabile riter" logico in base al quale perviene alla quantificazione del danno.
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