Cass. civ., sez. IV lav., sentenza 03/06/2004, n. 10594

Sintesi tramite sistema IA Doctrine

L'intelligenza artificiale può commettere errori. Verifica sempre i contenuti generati.Beta

Segnala un errore nella sintesi

Massime1

Nell'interpretazione della disciplina contrattuale collettiva dei rapporti di lavoro - la quale spesso è articolata su diversi livelli (nazionale, provinciale, aziendale, ecc.), regola una materia vasta e complessa in ragione della interdipendenza dei molteplici profili della posizione lavorativa, e utilizza il linguaggio delle cosiddette relazioni industriali, non necessariamente coincidente con quello comune - assume un rilievo preminente il criterio, dettato dall'art. 1363 cod. civ., dell'interpretazione complessiva delle clausole, mentre il criterio letterale cui fa riferimento l'art. 1362 non deve essere utilizzato in contrasto con la finalità della ricerca della concorde volontà delle parti contraenti (secondo il medesimo articolo costituente l'obiettivo dell'attività ermeneutica), e trascurando la frequente mancanza di una chiara corrispondenza tra il tenore testuale delle espressioni e la volontà delle parti. In siffatta prospettiva, quando oggetto di interpretazione è un accordo collettivo aziendale, diventa potenzialmente rilevante, ai fini della individuazione della effettiva volontà delle parti, il significato che i termini utilizzati, e in genere la complessiva pattuizione, possono assumere sulla base del tenore e della portata della contrattazione nazionale con cui lo specifico accordo è destinato ad interagire. (Nella specie, la S.C. ha annullato la decisione della corte territoriale che, in riforma della sentenza di primo grado, aveva accolto la domanda di un autoferrotranviere dipendente Cotral diretta all'accertamento che per il calcolo del compenso del lavoro straordinario e festivo le percentuali di maggiorazione dovevano essere computate sulle quote della retribuzione normale considerando l'orario di lavoro normale di 37 e non già di 39 ore settimanali, avendo ritenuto che, con l'accordo collettivo aziendale, l'orario di lavoro settimanale fosse stato ridotto da 39 a 37 ore, in contrasto con la difesa dell'azienda, secondo la quale, con l'accordo, sarebbe stato introdotto l'istituto dell'orario di servizio, stabilendolo in 37 ore e attribuendo ai dipendenti due ore di riposo retribuite come se fossero lavorate, " fermo restando l'attuale orario di lavoro ai fini retributivi", frase interpretata invece dal giudice di seconde cure come riferita alla non variazione della retribuzione spettante nonostante il minor orario prestato. La S.C. ha osservato al riguardo che il giudice di seconde cure era pervenuto a tale interpretazione senza considerare aspetti della disciplina contrattuale strettamente attinenti alla tematica in questione, quali quelli sulla composizione e struttura della retribuzione e sulle modalità di determinazione della retribuzione oraria, rilevanti ai fini della determinazione dei compensi per lavoro straordinario).

Sul provvedimento

Citazione :
Cass. civ., sez. IV lav., sentenza 03/06/2004, n. 10594
Giurisdizione : Corte di Cassazione
Numero : 10594
Data del deposito : 3 giugno 2004
Fonte ufficiale :

Testo completo

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. M V - Presidente -
Dott. P G - Consigliere -
Dott. F D - Consigliere -
Dott. D R A - Consigliere -
Dott. T S - rel. Consigliere -
ha pronunciato la seguente:

SENTENZA
sul ricorso proposto da:
MET.RO. SPA - METROPOLITANA DI ROMA (già COTRAL) già Metroferro S.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, già elettivamente domiciliato in

ROMA VIA DEI ROGAZIONISTI

16, presso lo studio dell'avvocato R V, che lo rappresenta e difende, giusta delega in atti, e da ultimo d'ufficio presso la CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE;



- ricorrente -


contro
P G, elettivamente domiciliato in ROMA via della

GIULIANA

44, presso lo studio dell'avvocato S N, che lo rappresenta e difende, giusta delega in atti;



- controricorrente -


avverso la sentenza n. 270/00 della Corte d'Appello di ROMA, depositata il 30/11/00 - R.G.N. 327/2000;

udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del 14/11/03 dal Consigliere Dott. S T;

udito l'Avvocato N;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SEPE E A che ha concluso per il rigetto del ricorso. SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con ricorso al giudice del lavoro di primo grado di Roma, Giovanni Pera, dipendente del Cotral-Consorzio Trasporti Pubblici Lazio, conveniva in giudizio il medesimo, chiedendo l'accertamento che, per il calcolo del compenso per il lavoro straordinario e festivo, le relative percentuali di maggiorazione dovevano essere computate sulle quote della retribuzione normale ottenute considerando l'orario di lavoro normale di 37 e non già di 39 ore settimanali, con la condanna della datrice di lavoro al pagamento delle differenze retributive maturate.
Il ricorrente richiamava gli accordi aziendali del 22.6.1983 e del 28.7.1988 e in particolare la prevista riduzione dell'orario di lavoro da 39 a 37 ore settimanali.
Le domande erano rigettate dal Tribunale.
L'appello del lavoratore, a cui resisteva la Metroferro s.p.a., subentrata al Cotral, era accolto dalla Corte d'appello di Roma che, disattesa l'eccezione di prescrizione per la sussistenza di un idoneo atto interruttivo, condannava la parte appellata a pagare al lavoratore la somma di L. 4.398.427, oltre accessori. La Corte rilevava che thema decidendum era se l'orario di lavoro era stato ridotto a 37 ore. Al riguardo riteneva non fondate le difese dell'azienda, la quale deduceva che per esigenze funzionali relative ad una più efficace ed efficiente organizzazione del lavoro, l'azienda e le organizzazioni sindacali, con accordo in data 22.6.1983, avevano introdotto il diverso istituto dell'orario di servizio, stabilendolo in 37 ore e di fatto attribuendo ai dipendenti due ore di riposo retribuite come se fossero lavorate, "fermo restando l'attuale orario di lavoro ai fini retributivi", escludendo così che la pattuizione di maggior favore potesse avere rilevanza ai fini degli istituti retributivi indiretti.
Osservava al riguardo il giudice di appello che con il citato accordo del giugno 1983 le parti collettive, al di là della terminologia usata, avevano concordato la riduzione dell'orario normale effettivo da 39 a 37 ore settimanali. Di tale volontà era conferma il fatto che l'azienda aveva pacificamente retribuito con la maggiorazione propria del lavoro straordinario il lavoro eventualmente svolto nella 38^ e nella 39^ ora. In tale situazione, la frase "fermo restando l'attuale orario di lavoro ai fini retributivi" esprimeva e chiariva la invarianza della retribuzione spettante nonostante il minore orario prestato. Nulla, invece, era disposto a proposito della struttura del compenso per lavoro straordinario, ne' il riferimento di natura volutamente generica operato "ai fini retributivi" autorizzava, in difetto di espliciti riferimenti contrari, esclusioni di alcun genere.
D'altra parte, la diversa interpretazione del disposto contrattuale, sostenuta dall'azienda, per cui vi sarebbe stata la volontà delle parti di mantenere la fittizia base di calcolo delle 39 ore settimanali al fine del computo degli istituti retributivi indiretti, porterebbe alla declaratoria di nullità della clausola per contrasto con la norma imperativa di legge. Infatti - rilevava la Corte d'appello - l'art. 5 del r.d.l. n. 692/1923 stabilisce la maggiorazione minima del 10% della retribuzione del lavoro straordinario, rispetto alla paga oraria ordinaria. Quest'ultima era da identificare all'epoca sulla base del divisore 48, in relazione alla durata settimanale massima del lavoro effettivo, e successivamente in base al divisore di maggior favore costituito dal minore orario settimanale, ovviamente effettivo, introdotto dalla contrattazione collettiva. Nella specie, se le parti avessero convenzionalmente previsto l'applicabilità di un fittizio divisore 39, invece del divisore 37 (in relazione all'effettivo orario di lavoro osservato in azienda, ancorché denominato "di servizio"), avrebbero individuato una minore base di calcolo e quindi assicurato una maggiorazione dello straordinario minore della percentuale del 10% ribadita anche dalla contrattazione collettiva nazionale. D'altronde l'art, 1367 c.c. impone nell'esegesi contrattuale l'interpretazione conservativa piuttosto che quella demolitiva, ove sussista concreta possibilità di opzione.
Contro questa sentenza la Met.Ro. s.p.a., già Metroferro s.p.a., propone ricorso per Cassazione, articolato in quattro motivi. L'intimato resiste con controricorso, illustrato da memoria ex art. 378 c.p.c. MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo la ricorrente denuncia violazione degli artt. 1362 e segg. c.c., degli artt. 1322-1326 e segg. c.c., nonché degli
artt. 1419 e 1339 e segg. c.c, unitamente a vizi di motivazione su un punto decisivo della controversia.
La Corte d'appello ha trascurato che gli accordi aziendali in questione non avrebbero potuto individuare un diverso orario di lavoro, derogando al c.c.n.l. 23.7. 1976, in quanto la materia dell'orario di lavoro è esclusa dalla competenza del loro livello di contrattazione e riservata all'area nazionale, come specificato negli artt. 2 del citato c.c.n.l. e dell'accordo nazionale 12.7. 1985: un rinvio agli accordi aziendali era compiuto, invece, solo per aspetti particolari. Da un lato, per il passato, l'art. 4/A del c.c.n.l. del 1976, al comma 4/A5, aveva previsto la conservazione delle condizioni di miglior favore già fissate complessivamente per ciascuna categoria di personale, e dall'altro, per il futuro, il comma 4/A1 (così come l'art. 3 dell'Accordo nazionale del 1985) aveva demandato agli accordi aziendali la determinazione di aspetti particolari relativi all'orario di servizio. Gli accordi aziendali Acotral del 22.6.1983 e del 28.7.1987 si collocavano in questo limitato ambito di competenza del livello contrattuale dell'area aziendale. Inoltre le parti dell'accordo hanno tenuto presente sia tale riserva, sia il fatto che le varie clausole del c.c.n.l. relative alla determinazione della retribuzione giornaliera e oraria fanno riferimento all'orario di lavoro. Per tali ragioni hanno premesso espressamente alle pattuizioni dell'accordo del 1983 la previsione, che funziona anche da clausola interpretativa, che sarebbe rimasto fermo l'orario contrattuale di lavoro ai fini retributivi. Tale clausola, che evidentemente si correla al complesso della richiamata normativa nazionale, è stata chiaramente travisata nel suo significato e nei suoi collegamenti, mentre la scarna motivazione è chiaramente inidonea a ricostruire un iter logico adeguato. Con il secondo motivo denuncia violazione delle medesime norme di legge, unitamente a vizi di motivazione su punti decisivi. Deduce l'erroneità, contraddittorietà e l'illegittimità dei rilievi della Corte d'appello in merito alla affermata illegittimità della contrattazione aziendale ove interpretata nel senso sostenuto dall'azienda. Richiama la specialità della disciplina legale del rapporto di lavoro dei dipendenti da aziende di trasporto pubblico in concessione, anche riguardo all'orario di lavoro e ai riposi e al rinvio alla contrattazione collettiva per la determinazione di ogni spettanza retribuiva. Sulla base di tale disciplina, la contrattazione collettiva (art. 15 del c.c.n.l. del 1976), da un lato, ha legittimamente fatto riferimento, con disposizione di maggior favore, ai fini della determinazione della retribuzione, anche ai giorni festivi e in particolare alle domeniche, correlativamente prevedendo che l'importo giornaliero della retribuzione mensile sia calcolato mediante il divisore 30, e, dall'altro, ha previsto la determinazione della quota oraria della retribuzione, mediante divisione della retribuzione giornaliera per l'orario medio giornaliero, stabilito dalle norme di legge, o di contratto nazionale o aziendale (e ottenuto dividendo per 6 l'orario eventualmente individuato per settimana lavorativa). In definitiva, le quote orarie su cui calcolare la maggiorazione per lavoro straordinario non sono correlate alle prestazioni effettive, ma sono ottenute, con procedimento inverso, dividendo la retribuzione normale giornaliera per l'orario medio giornaliero stabilito dalle norme di legge o di contratto nazionale, cui spetta di determinare l'orario di lavoro.
Inoltre non vi poteva essere dubbio che le parti stipulanti, nel dire che, mentre l'orario di servizio era ridotto, rimaneva fermo l'orario di lavoro ai fini retributivi, avevano inteso precisare che l'orario di lavoro, fin ad allora definito solo dal c.c.n.l,, conservava vigore ai fini retributivi, nel senso che, ai fini della determinazione della quota oraria (che appartiene alla sfera dei "fini retributivi") continuava a rilevare l'orario di lavoro normale contrattuale nazionale, anche se ineffettivo (perché la prestazione normale effettiva era di 37 ore).
Ribadita la specialità della disciplina del rapporto di lavoro degli autoferrotranvieri, osserva che, in questo quadro, il rinvio alla contrattazione collettiva compiuto dall'art. 1, 2^ comma, del r.d. n. 148/1931 viene a conferire ai contratti collettivi lo stesso
carattere di autonomia e specialità che compete alla disciplina legale del settore. Sono inapplicabili in genere le disposizioni in materia di lavoro del codice civile e, in particolare, l'art. 2108 c.c. sul lavoro straordinario;
per il computo del compenso per lavoro
straordinario deve quindi farsi riferimento alle clausole contenute nei contratti collettivi. Ricorda al riguardo anche le precisazioni giurisprudenziali circa il carattere ampiamente e liberamente convenzionale dei criteri di individuazione della quota giornaliera della retribuzione nei rapporti dove la retribuzione non è determinata su base oraria ma su base fissa mensile, poiché sono rimesse all'autonomia collettiva e individuale le scelte circa la forma e la struttura della retribuzione, e, d'altra parte, in materia di lavoro subordinato opera una nozione lata di corrispettività. Ricorda che, in base all'art. 17 del c.c.n.l. del 1976 e all'art. 11 del c.c.n.l. del 1980, lavoro straordinario è quello che eccede
l'orario normale di lavoro stabilito dalle vigenti leggi applicabili al settore e dai contratti e accordi di categoria. Inoltre si fa riferimento alle quote orarie della "retribuzione normale", per la base di calcolo delle quote orarie cui applicare la maggiorazione. Ne consegue il necessario riferimento al divisore stabilito in sede nazionale anche da parte delle pattuizioni aziendali, anche perché la determinazione dell'aliquota oraria retributiva è demandata alla contrattazione nazionale di categoria del settore e sarebbero nulle clausole che comportassero una modifica dell'orario di lavoro, e non solo di quello di servizio, trattandosi di materia indisponibile a livello aziendale.
Osserva inoltre che la salvezza espressamente sancita dell'orario contrattuale "ai fini retributivi" esprimeva la comune intenzione dei contraenti di far si che la riduzione dell'orario stabilita a livello aziendale non spiegasse efficacia nei confronti delle clausole di rango nazionale o comunque di altra fonte contrattuale che all'orario di lavoro avessero direttamente o indirettamente fatto riferimento ai fini del calcolo di elementi retributivi.
Tale criterio è sicuramente legittimo, posto che i contratti aziendali possono derogare anche in peius ai contratti nazionali e, d'altra parte, la regolamentazione rappresenta al contrario un miglioramento del trattamento normativo ed economico dei dipendenti, poiché, riducendo l'orario di servizio, viene a compensare con la stessa retribuzione un più ridotto orario di servizio, rientrante nell'orario normale, e rende straordinarie le ore che precedentemente sarebbero entrate nell'orario ordinario, anche se continua ad utilizzare, per compensarle, il divisore 39, derivante dall'orario previsto in sede nazionale.
Inoltre, ove le parti avessero convenuto la riduzione dell'orario di lavoro e non dell'orario di servizio, la clausola in discussione "fermo restando l'attuale orario di lavoro ai fini retributivi" avrebbe comportato necessariamente la riduzione della retribuzione in proporzione a due ore settimanali, con gli ulteriori riflessi sulla quota oraria della retribuzione.
Con il terzo motivo denuncia violazione degli artt. 3 e 5 del r.d.l. 19 ottobre 1923 n. 2338 e successive modificazioni, anche in rapporto
agli artt. 4, 15 e 17 del c.c.n.l. 23 luglio 1976;
insufficiente motivazione su un punto decisivo.
Premesso che la normativa legale applicabile nella specie è quella di cui al r.d.l. 19 ottobre 1923 n. 2328, il quale (per il personale dei servizi di trasporto in concessione) prevede i limiti di orario giornaliero (otto ore) e settimanale (48 ore), e, per l'eventuale lavoro straordinario (non più di due ore al giorno), un aumento di paga non inferiore al 10%, osserva che tale disciplina rappresenta il perimetro esterno invalicabile di origine legale, entro cui l'autonomia collettiva può muoversi prevedendo condizioni di miglior favore, anche in base al r.d. n. 148/1931. Alle stesse conclusioni deve pervenirsi con riferimento all'art. 5 del r.d.l. n. 692/1923, ritenuto applicabile dalla Corte d'appello.
Infatti la garanzia, posta dalla legge, di una maggiorazione minima del 10% del compenso per il lavoro straordinario in riferimento ad una base omnicomprensiva di computo, deve essere considerata nel quadro della complessiva e unitaria disciplina normativa e quindi deve intendersi riferita alla indicazione di un orario massimo ordinario di lavoro di otto ore giornaliere e 48 settimanali, con la facoltà invece per l'autonomia collettiva di stabilire una diversa entità retributiva del lavoro straordinario quando essa stabilisca riduzioni dell'orario ordinario di lavoro rispetto a quello sancito dall'art. 1 del r.d.l. cit..
E, in effetti, il confronto tra normativa legale e quella contrattuale deve essere fatto sui singoli istituti globalmente considerati.
In questa ottica gli accordi sindacali in questione devono essere interpretati nel loro complesso e deve individuarsi la loro ratto nell'ambito della comparazione di interessi in sede di contrattazione, e, in particolare, nella considerazione che la clausola della conservazione della retribuzione oraria precedentemente prevista in relazione ad un orario più lungo non è a disfavore del lavoratore, e tiene conto della minore penosità del lavoro straordinario a seguito della diminuzione dell'orario. Con il quarto motivo denuncia violazione degli artt. 3 e 5 del r.d.l. 19 ottobre 1923 n. 2328 e successive modificazioni, anche in rapporto
agli artt. 4 e 17 del c.c.n.l, 23 luglio 1976;
violazione degli artt. 1419 e 1339 c.c;
insufficiente motivazione su un punto decisivo. Premesso che la pronuncia di condanna al pagamento della somma di L. 4.938.427 (rectius, 4. 398.42 7) è avvenuta a titolo di riliquidazione sia dei compensi per lavoro straordinario che di quelli per lavoro festivo, e che per quest'ultimo tipo di prestazioni la contrattazione collettiva prevede una maggiorazione del 20%, osserva che, poiché nessuna norma di legge prescrive una determinata maggiorazione per il lavoro festivo, per detto capo della domanda - per cui la sentenza aveva omesso di motivare - non poteva operare il principio della sostituzione automatica della norma legale a quella contrattuale. Il collegio osserva preliminarmente che non è ravvisabile l'inammissibilità del ricorso per la mancanza del requisito della "esposizione sommaria dei fatti di causa" (art. 366, primo comma, n. 3 c.p.c.), così come eccepito dai controricorrenti nella memoria,
poiché in realtà nel ricorso è stato espressamente riferito, nella sezione "in fatto", l'oggetto della domanda proposta dagli iniziali ricorrenti e lo svolgimento della vicenda processuale (salvo l'errore materiale, facilmente riconoscibile, circa l'esito del giudizio di primo grado, indicato come favorevole al lavoratore). D'altra parte dal tenore degli ampiamente argomentati motivi di ricorso, comprensivo di taluni stralci (o parafrasi) della motivazione della sentenza d'appello, si desumono con sufficiente chiarezza la specifica causa petendi posta a base del giudizio di merito e la contestata base logico-giuridica della sentenza impugnata. I primi tre motivi del ricorso vengono esaminati congiuntamente, stante la loro connessione, dipendente anche dalla concatenazione delle argomentazioni contenute in ciascuno di essi. Osserva questa Corte che il giudice di merito ha fondato la sua decisione su una determinata interpretazione dell'accordo contrattuale collettivo aziendale del 16 giugno 1983, sia pure basando tale interpretazione anche su considerazioni relative alla ritenuta illegittimità del medesimo accordo, ove interpretato nel senso proposto dall'azienda. Hanno quindi rilevanza centrale le censure di violazione delle norme legali di interpretazione dei contratti e di vizi di motivazione formulate in riferimento alla ricostruzione della portata dell'accordo operata dal giudice a quo. In termini generali, è opportuno ricordare che, nell'interpretazione dei contratti, la comune intenzione delle parti deve essere ricercata innanzitutto prendendo in adeguata considerazione le parole e le espressioni della pattuizione, nel valore che esse assumono anche in base al collegamento logico tra le varie clausole (artt. 1362 e 1363 c.c.). In particolare, nell'interpretazione della disciplina
contrattuale collettiva dei rapporti di lavoro - la quale spesso è articolata su diversi livelli (nazionale, provinciale, aziendale ecc), regola una materia vasta e complessa in ragione della interdipendenza dei molteplici profili della posizione lavorativa, e utilizza il linguaggio delle cd. relazioni industriali, non necessariamente coincidente con quello comune - assume un rilievo particolare il criterio, dettato dall'art. 1363 c.c., dell'interpretazione complessiva delle clausole, che maggiormente garantisce il perseguimento della finalità essenziale della ricerca della concorde volontà delle parti contraenti (Cass. 26 gennaio 1999 n. 703 e Cass. 9 agosto 2000 n. 10500). In tale prospettiva, quando oggetto di interpretazione è un accordo collettivo aziendale, diventa indubbiamente potenzialmente rilevante, ai fini della individuazione dell'effettiva volontà delle parti, il significato che i termini utilizzati, e in genere la complessiva pattuizione, possono assumere sulla base del tenore e della portata della contrattazione nazionale con cui lo specifico accordo è destinato ad interagire (cfr. Cass. 27 giugno 1998 n. 6389 e Cass. 19 dicembre 1998 n. 12719). Nella specie, considerato che la clausola in contestazione - la quale, come puntualizzato nella sentenza, recita "fermo restando l'attuale orario di lavoro ai fini retributivi" - aveva indubbiamente a che fare con problemi di rapporti tra durata della prestazione lavorativa settimanale e la disciplina retributiva, e tenuto presente anche che erano concretamente in discussione le modalità di computo del compenso delle singole ore di lavoro straordinario, l'azienda ricorrente giustificatamente lamenta che il giudice di merito, nel ricercare la comune intenzione delle parti, abbia omesso di considerare aspetti della disciplina contrattuale strettamente attinenti alla tematica in discussione, quali quelli sulla composizione e struttura della retribuzione e sulle modalità di determinazione della retribuzione oraria, rilevanti ai fini della determinazione dei compensi per lavoro straordinario. Nè certo può sostenersi che una penetrante indagine in tal senso, ai fini della ricerca della effettiva volontà delle parti, non era concretamente necessaria, perché quest'ultima era direttamente e inequivocabilmente desumibile, in senso difforme da quanto sostenuto dall'azienda, dal tenore letterale della clausola. Lo stesso giudice di merito, infatti, non ha presupposto una derivazione immediata della interpretazione prescelta dal tenore letterale della disposizione, dalla quale indubbiamente non era desumibile in via diretta ed univoca ne' l'affermazione in positivo che la complessiva retribuzione per il lavoro ordinario non doveva subire diminuzione, nè quella in negativo, secondo cui l'accordo non aveva a che fare anche con le modalità di computo del compenso per lavoro straordinario. Del resto, riguardo al primo di tali due aspetti, la ricorrente ha pertinentemente osservato che, ipotizzando che la clausola "fermo restando..." fosse finalizzata a regolare la retribuzione per il lavoro ordinario, il suo tenore letterale avrebbe potuto implicare un risultato esattamente opposto rispetto a quello affermato dal giudice di merito, e cioè che, rimanendo fermo ai fini retributivi l'orario di lavoro precedentemente in vigore (conforme a quello previsto dalla contrattazione nazionale), la retribuzione avrebbe dovuto essere diminuita per effetto della riduzione del lavoro effettivamente prestato.
Tale carenza di approfondimento risulta ancor più ingiustificata se si considera che la problematica della determinazione della retribuzione per il lavoro ordinario e della retribuzione per il lavoro straordinario si presenta in maniera del tutto diversa, e inversa, a seconda che i lavoratori siano retribuiti sulla base di una retribuzione fissa mensile oppure sulla base di una retribuzione oraria. Nel primo caso, infatti, l'elemento dato, o di partenza, è la retribuzione mensile, e la contrattazione collettiva deve offrire i criteri per la quantificazione dei compensi o delle trattenute che devono essere determinati su base oraria, in caso di prestazione di lavoro aggiuntivo o di assenze senza diritto a retribuzione. Una riduzione, nel quadro di un miglioramento delle condizioni contrattuali, del normale orario di lavoro, non crea nessun problema quanto alla determinazione della retribuzione mensile, che rimane invariata, senza bisogno di alcuna espressa precisazione in tal senso, mentre il nuovo orario potenzialmente rileva ai fini della determinazione della quota oraria della retribuzione e quindi sull'entità delle trattenute orarie e del compenso per il lavoro straordinario.
Opposta è la problematica quando i lavoratori sono retribuiti ad ora. In tal caso le tariffe retributive determinano il compenso per una singola ora di lavoro ordinario, e la retribuzione ordinaria settimanale e mensile si ottiene moltiplicando tale valore per le ore di effettiva prestazione, salvo il compenso anche di ore di non effettiva prestazione in base a disposizioni di legge o contratto (malattia, permesso retribuito, ferie, ecc.). Immediato è il dato di partenza anche per il compenso per il lavoro straordinario, salva l'applicazione della percentuale di maggiorazione. Viceversa, quando viene ridotto l'orario normale di lavoro, proprio per evitare che ciò comporti una diminuzione della retribuzione, è necessario che le parti collettive provvedano a un riproporzionamento delle retribuzioni orarie.
Dato che la contrattazione collettiva per il settore cd. autoferrotranviario prevede una retribuzione fissa mensile, come ripetutamente sottolineato nel complesso del ricorso e peraltro è pacifico, risulta evidente che il giudice di merito è incorso in una grave carenza logico-giuridica per il fatto che, mentre ha preso in concreta considerazione l'ipotesi che la clausola in discussione regolasse un aspetto che, in realtà, non aveva alcun bisogno di una apposita disciplina, se non vi era l'intenzione di derogare a quanto era già conseguenza dei principi operanti in materia, non ha preso invece in adeguata considerazione la possibilità che le parti avessero avuto l'intenzione di incidere sulle modalità di calcolo della retribuzione oraria (e conseguentemente anche del lavoro straordinario), la quale, disciplinata contrattualmente in maniera correlata all'orario di lavoro, avrebbe potuto subire variazioni proprio per effetto di una riduzione dell'orario di lavoro (secondo l'art. 15 del c.c.n.l., 23 luglio 1976, trascritto nel ricorso, "gli importi orari della retribuzione di cui all'art. 6, dell'indennità di contingenza di cui all'art. 9 e dei compensi di cui all'art. 14, si determinano dividendo la retribuzione giornaliera per l'orario medio giornaliero stabilito dalle norme di legge, o di contratto nazionale o aziendale. Se l'orario contrattuale è individuato per settimana lavorativa, l'orario medio giornaliero si ottiene dividendo per 6 quello settimanale"). Del resto l'affermazione della Corte d'appello - formulata a giustificazione della tesi della rilevanza della riduzione di orario ai fini del computo della quota oraria della retribuzione e del compenso orario del lavoro straordinario - che il riferimento di natura volutamente generico operato "ai fini retributivi" non autorizzava, in mancanza di più espliciti riferimenti contrari, nessuna esclusione, non ha un fondamento logico chiaro (visto che, al contrario, la genericità dell'espressione ne poteva consentire un'ampia valenza) ed è in contrasto con i criteri ermeneutici di cui all'art. 1362, primo comma, e 1363 c.c. e con i principi sopra esposti circa le loro modalità di applicazione in caso di interpretazione di contratti collettivi di lavoro;
infatti non si è provveduto a verificare le potenzialità espressive della dizione pattizia nel quadro della disciplina contrattuale sul rapporto tra orario di lavoro e quo a oraria della retribuzione e del potenziale valore tecnico delle formule utilizzate nell'ambito della contrattazione collettiva.
Il giudice d'appello neanche ha preso in considerazione, in relazione alla ricerca dell'intenzione delle parti nel formulare la clausola in questione, la circostanza che la contrattazione del settore autoferrotranviario conosce il ricorso a criteri convenzionali ai fini della determinazione di quote della retribuzione relative a unità di tempo inferiori al mese, visto che, secondo la disposizione citata dell'art. 15 del c.c.n.l. del 1976, trascritta nel ricorso, la retribuzione giornaliera (rilevante a sua volta ai fini della determinazione della quota oraria) è calcolata sulla base del divisore 30 (al riguardo, cfr. Cass., Sez. un. 4 marzo 1988 n. 2260 e, più di recente, Cass. 15 aprile 1997 n. 3212). Il giudice a quo, come si è già visto, a conferma della
interpretazione prescelta, e con riferimento al principio di conservazione del contratto di cui all'art. 1367 c.c., ha svolto considerazioni in merito alla illegittimità di una pattuizione contrattuale che comportasse, tramite il riferimento a una base di calcolo inferiore a quella derivante dal minore orario di lavoro, una maggiorazione del compenso per il lavoro straordinario inferiore alla misura del 10% rissata dalla normativa del 1923 sull'orario di lavoro, precisando che doveva ritenersi spettante una maggiorazione nella misura minima inderogabile del 10% anche nel caso in cui l'orario normale settimanale fosse inferiore a quello di 48 ore previsto dalla legge del 1923 sui limiti dell'orario di lavoro. In realtà l'interpretazione della clausola in questione non trova adeguato e sufficiente sostegno in dette considerazioni, sia perché può ricorrersi ai criteri di interpretazione cd. oggettiva (o integrativa) dei contratti di cui agli artt. 1366-1371 c.c. solo dopo l'adeguato esperimento dei criteri di interpretazione cd. soggettiva, di cui agli artt. 1362-1365, funzionali alla individuazione della reale (o storica) volontà delle parti (Cass. 5 maggio 1984 n. 2209, 29 aprile 1994 n. 4121, 26 giugno 1996 n. 5893 13 maggio 1998 n. 4815, 23 novembre 1998 n. 11878, 28 aprile 1999 n. 4241, 11 agosto 1999 n. 8590, 2 aprile 2002 n. 4680)j sia perché devono ritenersi fondate, nei termini che si preciseranno, anche le censure mosse dalla ricorrente rispetto all'interpretazione delle relative disposizioni di legge seguita dalla Corte d'appello di Roma. Al riguardo si ritiene condivisibile l'interpretazione fornita, in materia di disciplina del lavoro straordinario e delle relative maggiorazioni di retribuzione, dalle sentenze di questa Corte 22 febbraio 2002 n. 2856 e 6 aprile 2002 n. 4953 (e di recente da Cass. 19 novembre 2003 n. 17575), emesse in relazione ad analoghe
controversie.
Queste pronunce, premesso che la disciplina sui limiti dell'orario di lavoro di cui al r.d.l. 15 marzo 1923 n. 692, e l'analoga disciplina posta per il personale addetto ai pubblici servizi di trasporto in concessione dal r.d.l. 19 ottobre 1923 n. 2328, fissano i limiti massimi dell'orario normale di lavoro al duplice fine di evitare l'eccessiva usura dei lavoratori e di incoraggiare altre assunzioni (e puntualizzato da parte di Cass. n. 4953/2002 che, prima dell'entrata in vigore dell'art. 13 della legge 24 giugno 1997 n. 196, che l'ha fissato in quaranta ore settimanali, nessuna norma di
legge determinava la durata dell'orario normale, il quale era quindi rimesso all'autonomia collettiva), osservano che, quando le stesse normative autorizzano, a determinate condizioni ed entro determinati limiti, la prestazione di lavoro straordinario, prevedendo in tal caso la corresponsione di una maggiorazione di almeno il 10% della retribuzione, esse intendono riferirsi, anche quanto all'obbligo della maggiorazione, al lavoro prestato oltre i limiti massimi dell'orario normale dalle medesime fissati.
A conferma di tale interpretazione richiamano l'elemento letterale costituito dal fatto che sia l'art. 5 del r.d.l. n. 692/1923, che l'art. 3 del r.d.l. n. 2328/1923, contenenti la disposizione su ammissibilità e limiti delle prestazioni straordinarie e sulla inerente maggiorazione retribuiva, parlano di "aggiunta alla giornata normale di lavoro di cui all'art. 1" (o "di cui all'articolo precedente"). Una simile espressione - si sottolinea -non può esprimere altro che lavoro straordinario, ai fini in esame, è solo quello espletato dopo le otto ore giornaliere o le 48 settimanali, e non quello che deriva dal superamento del diverso ed inferiore orario di lavoro determinato dall'autonomia collettiva. Nè in senso contrario rileva l'espressione "in ogni caso", che ha la funzione di rendere inderogabile la norma secondo cui il lavoro straordinario deve essere computato a parte e remunerato con un aumento di paga. Si osserva anche che i decreti legge n. 692 e n. 2328 autorizzano lo straordinario entro la misura di due ore giornaliere e dodici settimanali, il che evidenzia che esso è concepito come superamento di un orario normale gravoso, quale quello di otto ore giornaliere ovvero 48 settimanali, mentre sarebbe inutile tale delimitazione in caso di orario di molto inferiore e quindi non idoneo a determinare particolare usura;
che le due ore giornaliere di straordinario sono circondate da numerose garanzie (accordo delle parti, nullità delle pattuizioni dirette al superamento del limiti, sanzioni penali per i datori lavoro che contravvengano alle disposizioni del decreto);
che non hanno ragione d'essere per lo straordinario meramente contrattuale, aggiunto ad un lavoro ordinario di molto minore durata;

che l'esecuzione del lavoro straordinario, non meramente saltuario, era addirittura vietato nelle imprese industriali dall'art.

Iscriviti per avere accesso a tutti i nostri contenuti, è gratuito!
Hai già un account ? Accedi