Cass. civ., SS.UU., sentenza 01/04/2004, n. 6406

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In tema di procedimento disciplinare a carico di avvocati, l'art. 45 del regio decreto - legge 27 novembre 1933, n. 1578 prevede la concessione all'incolpato - chiamato a rispondere all'udienza di discussione davanti al Consiglio dell'Ordine professionale - di un termine minimo inderogabile di almeno dieci giorni per comparire all'indicata udienza "per essere sentito sulle sue discolpe", mentre, non essendo prevista una durata minima, è lasciata alla discrezionalità dell'Organo disciplinare la determinazione del termine entro il quale l'incolpato medesimo e il suo difensore possono prendere visione dei documenti acquisiti, tale termine dipendendo dalla natura degli atti da esaminare e dal complessivo svolgimento dell' "iter" procedimentale.

Le funzioni esercitate in materia disciplinare dai Consigli locali dell'Ordine degli avvocati, e il relativo procedimento, hanno natura amministrativa e non giurisdizionale; è perciò manifestamente inammissibile, in riferimento al principio del giusto processo, sancito dall'art. 111 Cost., la questione di legittimità costituzionale dell'art. 38 del regio decreto - legge 27 novembre 1933, n. 1578 (convertito dalla legge 22 gennaio 1934, n. 36), e degli artt. 47, 50 e 51 del regio decreto 22 gennaio 1934, n. 37, nella parte in cui non prevedono la distinzione tra organo che delibera sull'incolpazione disciplinare e organo che stabilisce l'apertura del medesimo procedimento, e ciò stante la non pertinenza del parametro, attesa la riferibilità della norma costituzionale evocata alla sola attività giurisdizionale.

Sul provvedimento

Citazione :
Cass. civ., SS.UU., sentenza 01/04/2004, n. 6406
Giurisdizione : Corte di Cassazione
Numero : 6406
Data del deposito : 1 aprile 2004
Fonte ufficiale :

Testo completo

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. G A - Primo Presidente f.f. -
Dott. P G - Consigliere -
Dott. M A - rel. Consigliere -
Dott. P R - Consigliere -
Dott. N G - Consigliere -
Dott. DI N L F - Consigliere -
Dott. G G - Consigliere -
Dott. R F - Consigliere -
Dott. E S - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:

SENTENZA
sul ricorso proposto da:
E D, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA

CORNELIO TACITO

50, presso lo studio dell'avvocato B M, rappresentato e difeso dall'avvocato P P, giusta delega a margine del ricorso;



- ricorrente -


contro
CONSIGLIO DELL'ORDINE DEGLI AVOCATI DI VERONA, PROCURATORE GENERALE PRESSO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE;



- intimati -


avverso la sentenza n. 211/03 del Consiglio nazionale forense, depositata il 14/07/03;

udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del 19/02/04 dal Consigliere Dott. A M;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. P R che ha concluso per il rigetto del ricorso. SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con deliberazione del 30 marzo 1998 il Consiglio dell'Ordine degli Avvocati di Verona apriva procedimento disciplinare nei confronti dell'avv.to Domenico E addebitandogli le seguenti incolpazioni:
1) Violazione dell'art. 20 del codice deontologico forense per avere, nel corso di colloqui telefonici con la propria assistita Manuela Zn, usato espressioni offensive e comunque sconvenienti, ed in particolare per aver definito la stessa: morta di fame, drogata, pazza. In Verona il 21.10.97.
2) Violazione dell'art. 9 del Codice deontologico forense, per avere, nel contesto di una comunicazione fatta al Consiglio dell'Ordine (che gli aveva chiesto chiarimenti in relazione all'esposto presentato contro di lui dalla Zn), violato il dovere di segretezza, allegando una cartella clinica asseritamente da lui detenuta per ragioni inerenti alla tutela della cliente, al fine di documentare uno stato di deficienza mentale ed al dichiarato scopo di esercitare un diritto di difesa nei confronti della esponente, senza che in ciò potesse configurarsi allegazione di una circostanza di fatto pertinente all'argomento del contendere. In Verona il 21.1.98. 3) Violazione degli artt. 7 e 9 del codice deontologico forense per aver compiuto, consapevolmente, atto contrario all'interesse del proprio assistito e violato l'obbligo di segretezza, denunziando Giovinazzo Antonio, suo cliente, o già suo cliente, per il reato di evasione, in relazione ad una situazione di arresti domiciliari a lui nota a cagione del ministero prestato, nonché riportando nella denuncia fatti riferiti dallo stesso Giovinazzo. In Verona l'8.10.1997.
Acquisita documentazione e sentiti alcuni testi, con decisione del 4 dicembre 2000 il C.O.A., dopo aver dichiarato non luogo a provvedere sul primo capo d'incolpazione, riconosceva l'E responsabile del secondo e del terzo, infliggendogli la sanzione disciplinare della sospensione dall'esercizio dell'attività professionale per la durata di sei mesi. Avverso tale decisione proponeva gravame l'E chiedendo, in via pregiudiziale, la declaratoria di nullità del procedimento svoltosi dinanzi al C.O.A., nel merito il proscioglimento da ogni accusa e in subordine limitarsi la sanzione a quella della censura.
Il C.N.F., con sentenza del 14 luglio 2003, respinte le sollevate questioni di legittimità costituzionale e le eccezioni di rito proposte dall'E, rigettava il ricorso anche nel merito osservando, quanto alla produzione documentale attinente alla situazione patologica della Zn, che essa era stata del tutto impropria e svincolata da un ammissibile e corretto esercizio di difesa, e quanto alla condotta del professionista in ordine alla denunzia sporta nei riguardi del Giovinazzo, che la consapevolezza degli effetti pregiudizievoli di tale comportamento per il cliente inducevano a ritenere sussistenti e provate le contestate violazioni deontologiche, non vertendosi nel caso di specie nell'ambito di nessuna delle eccezioni alla regola generale della riservatezza contemplata dal codice deontologico in ordine alla divulgazione di informazioni relative alla parte assistita e neppur sussistendo lo stato di necessità in cui avrebbe agito l'incolpato colto dal timore di poter essere coinvolto nella evasione del cliente. Accoglieva, invece, il C.N.F. il motivo di ricorso relativo alla eccessiva gravita della sanzione applicata dall'Ordine territoriale, ritenendo più equa e commisurata alla reale entità delle infrazioni la sospensione dall'esercizio dell'attività professionale per la durata di mesi quattro.
Per la cassazione della suddetta sentenza, nella parte a lui sfavorevole, ha proposto ricorso alle Sezioni Unite di questa Suprema Corte l'avv.to E, sulla base di otto motivi, chiedendo, altresì, la sospensione dell'esecutività del provvedimento impugnato.
Gli intimati non hanno svolto attività difensiva.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Ha sollevato in via pregiudiziale l'E eccezione di illegittimità costituzionale:
A) Dell'art. 38 comma 2 della L.P. in relazione all'art. 111 comma 1 della Costituzione, nella parte in cui non prevede che l'Organo
Giudicante sulle sanzioni disciplinari sia diverso da quello che stabilisce l'apertura del procedimento disciplinare e che compie l'istruttoria.
B) Degli artt.: 38 comma 2 del R.D.L. 27.11.1933 n. 1578 nella parte in cui stabilisce che la competenza a giudicare sulle violazioni disciplinari appartiene al medesimo Consiglio dell'Ordine che ha aperto il procedimento disciplinare e competente sull'istruttoria;

dell'art. 47 comma 3 R.D. n. 37/34 (nella parte in cui stabilisce che il Presidente nomina un relatore tra i componenti del Consiglio);

dell'art. 50 cpv dello stesso decreto (nella parte in cui stabilisce che il relatore espone i fatti e le circostanze del procedimento);

dell'art. 51 comma 2 del medesimo decreto (nella parte in cui stabilisce che la decisione è redatta dal relatore) in riferimento all'art. 111 comma 1 della Costituzione, nonché degli artt. 40 e 41 del R.D.L. n. 1578/33 in relazione all'art. 24 della Costituzione, nella parte in cui non prevede che l'esercizio di un diritto escluda l'applicazione delle sanzioni disciplinari ivi previste, essendo il C.N.F. legittimato a farlo.
Osserva in proposito il ricorrente che la modifica dell'art. 111 della Costituzione, che ha introdotto la figura del giudice "terzo",
impone di ritenere che anche per il procedimento amministrativo, ma di stampo prettamente giurisdizionale, come quello del C.O.A., per l'applicazione di sanzioni nei confronti dei propri iscritti, tale normativa debba trovare effettiva applicazione, apparendo allo stato in violazione del dettato costituzionale la configurazione del procedimento dell'Organo territoriale che insieme risulta essere organo inquirente e giudicante.
Osserva il Collegio che l'eccezione di costituzionalità come sopra prospettata in relazione agli artt. 40 e 41 del R.D.L. n. 1578 del 1933 non può essere attesa in ragione della genericità della
relativa formulazione limitata alla enunciazione delle norme reputate costituzionalmente illegittime e del parametro costituzionale di riferimento.
Quanto poi alla dedotta illegittimità costituzionale delle altre norme relative ai procedimenti disciplinari che si svolgono nei confronti degli iscritti agli albi degli esercenti le professioni forensi disciplinati dal R.D.L. - n. 1578/33, conv. con modif. in L. 22.1.1934 n. 36, nonché dal R.D. 22.1.1934 n. 37, in relazione
all'art. 111 della Costituzione, come novellato dalla legge costituzionale 23 novembre 1999 n. 2, ponendosi, secondo il
ricorrente, il sistema disciplinare, come regolato dalle menzionate norme, in contrasto con il richiamato art. 111 Cost., alla stregua del quale la giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge, con necessità che ogni processo si svolga nel contraddittorio tra le parti in condizioni di parità, davanti ad un giudice terzo ed imparziale, la questione di legittimità costituzionale così sollevata è inammissibile.
È principio più volte affermato nella giurisprudenza di questa Corte che i Consigli territoriali, quando operano in materia disciplinare, esercitano funzioni amministrative e non giurisdizionali (Cass. SU n. 2095/89, n. 3056/95, n. 435/2000, n. 10956/2001, n. 1904/2002). Essi,infatti,svolgono i relativi compiti nei confronti dei professionisti che formano l'ordine forense, quindi all'interno del gruppo che essi costituiscono e per la tutela degli interessi della classe professionale.
La funzione disciplinare che a tali organi compete è, dunque, manifestazione di un potere amministrativo attribuito dalla legge per l'attuazione del rapporto che si instaura con l'appartenenza all'ordine, il quale stabilisce comportamenti conformi ai fini che intende perseguire (così Corte Cost. 12 luglio 1967 n. 112, in motivazione: v. anche, per la natura non giurisdizionale del Consiglio locale dell'ordine degli avvocati, Corte Cost. ord. 2 marzo 1990 n. 113). Nè a contrastare tale principio varrebbe opporre che il procedimento disciplinare è regolato in parte dalle norme del c.p.c. e in parte da quelle del c.p.p. e, soprattutto, che lo stesso prevede la partecipazione del P.M..
Codesti argomenti non appaiono, infatti, idonei ad infirmare il principio dianzi richiamato che va dunque ribadito. È vero che i consigli locali operano con la garanzia di un procedimento, ma ciò non vale ad attribuire ad esso connotato giurisdizionale.
Anche l'attività amministrativa si svolge (di regola) attraverso un procedimento;
e, nel caso di specie, esso è diretto, da un lato a consentire all'interessato idonee garanzie di difesa e, dall'altro, a verificare il rispetto degli interessi pubblici che nel procedimento medesimo pure sono implicati (di qui la presenza del P.M.). Ne deriva che il richiamo all'art. 111 della Costituzione non è pertinente per i Consigli degli ordini territoriali, perché l'attività da questi esercitata non è attività giurisdizionale (v. anche Cass. SU, n. 10688/2002). Ciò posto, con il primo motivo di ricorso (relativo al capo d'incolpazione n. 2) si denunzia, in riferimento all'art. 360 n.ri 3 e 5 c.p.c., violazione e falsa applicazione dell'art. 4 L. 689/81, anche in relazione all'art. 24 Cost., nonché mancanza di motivazione su punti decisivi della controversia prospettati dalla parte e comunque rilevabili d'ufficio.
Lamenta il ricorrente di esser stato ritenuto responsabile di aver violato il dovere di segretezza con l'allegazione della cartella clinica della propria cliente Emanuela Zn nonostante che la produzione della stessa fosse stata effettuata per ragioni di difesa, come affermato dallo stesso C.O.A., il che scriminava il proprio comportamento alla luce sia dell'art. 24 Cost., sia dell'art. 4 della l. n. 689/81, essendo il diritto di difesa in giudizio preminente
sull'esigenza della riservatezza e valendo, per analogia, la scriminante di cui all'art. 51 c.p.. Con il secondo motivo (sempre in relazione al capo d'incolpazione n. 2) si deduce violazione di legge e falsa applicazione dell'art. 132 n. 4 c.p.c., per insufficienza e comunque mera apparenza della
motivazione in relazione alla qualificazione della produzione documentale, non essendosi considerato che quest'ultima, rammostrante un fatto pertinente o quanto meno ritenuto tale, alla linea difensiva, era idonea, quanto meno nelle intenzioni del ricorrente, a porre all'attenzione del Collegio il tema della possibile inattendibilità della teste per ragioni di salute.
Le doglianze, da esaminarsi congiuntamente stante la loro stretta connessione, non possono essere accolte.
Nel disattendere le omologhe censure proposte dall'E in sede di gravame avverso la decisione del C.O.A. di Verona ha osservato il C.N.F.: - che, come esattamente rilevato dall'Organo territoriale, la produzione della documentazione attinente ad una situazione patologica della Zn non avrebbe mai, di per sè, potuto spiegare effetti di sorta in ordine all'eventuale proscioglimento dell'incolpato, posto che anche una persona malata di mente può essere utilmente sentita come testimone, salva la verifica della sua idoneità a riferire il vero, onde, nella fattispecie, l'inoltro del materiale in argomento non aveva nulla a che vedere con il corretto esercizio del diritto di difesa, a nulla rilevando che la esibizione fosse stata effettuata nei riguardi di un organo amministrativo tenuto alla segretezza, potendosi violare il segreto, anche in direzione di un soggetto a sua volta tenuto al riserbo, o che la detenzione delle cartelle cliniche fosse stata determinata da circostanze estranee al mandato defensionale;

- che l'esibizione di quel documento era stata, pertanto, del tutto impropria e svincolata da un ammissibile e corretto esercizio del diritto di difesa, con conseguente irrilevanza della volontarietà o meno della divulgazione del segreto, appunto perché avvenuta al di fuori delle esigenze difensive.
È evidente, ad avviso del Collegio, che la congruità e logicità di tale motivazione che, contrariamente all'assunto del ricorrente, esula dai limiti di censurabilità in questa sede delle decisioni del C.N.F. sotto il profilo motivazionale (v. tra le tante Cass. SU n. 487/2002), rende del tutto inconferente il richiamo a violazioni del diritto di difesa, sia sotto il profilo costituzionale, sia con riguardo alle cause di esclusione dalla responsabilità in tema di sanzioni amministrative (art. 4 della legge n. 689/81) postulante, in mancanza di ulteriori precisazioni normative, il rinvio al modello penalistico di cui all'art. 51 cod. pen. (cfr., in relazione a tale ultimo punto, Cass. Sez. 1 n. 9254/2000). Con il terzo motivo (relativo al capo d'incolpazione n. 3) si denunzia, in riferimento agli artt. 132 n. 4, 360 n.ri 3 e 5 c.p.c., violazione e falsa applicazione dell'art. 333 c.p.c. e dell'art. 4 L. n. 689/81. Lamenta l'E che il C.N.F., nel confermare la pronuncia del C.O.A. in merito alla richiamata incolpazione, abbia ritenuto insussistenti le giustificazioni addotte di aver agito nella convinzione, da un lato, di poter essere coinvolto nella contestata evasione del Giovinazzo e, dall'altro, al fine di impedire da parte del medesimo la commissione di un reato di particolare gravita, senza tener conto della scriminante situazione di necessità in cui egli era venuto a trovarsi, che poteva costituire un elemento tale da legittimamente determinarlo alla presentazione della denuncia medesima, secondo quanto previsto dall'art. 333 c.p.p., enunciante il diritto di ogni persona a tale comportamento per reati perseguibili d'ufficio di cui venga a conoscenza, diritto prevalente sulla norma amministrativa del codice deontologico.
Con il quarto motivo di ricorso si denunzia (sempre in relazione al capo d'incolpazione n. 3) ed in riferimento agli artt. 132 n. 4 e 360 n.ri 3 e 5 c.p.c., violazione dell'art. 4 L. 689/81 con riguardo alla violazione dell'art. 9 comma 5 del codice deontologico forense, nonché insufficienza e comunque apparenza della motivazione. Deduce il ricorrente omessa motivazione e violazione di legge, in stretta connessione tra di loro, in ordine alla qualificazione come segreto della notizia data all'Autorità Giudiziaria "conoscenza da parte dell'incolpato della situazione del Giovinazzo" posto che la notizia fornita (non conosciuta dall'Autorità) era stata quella dell'evasione e non già quella della condizione di soggetto agli arresti domiciliari, condizione questa imposta già da mesi dalla medesima Autorità Giudiziaria e, quindi, perfettamente conosciuta. Le censure, da esaminarsi anch'esse congiuntamente, stante la loro stretta connessione, sono prive di pregio.
Nel disattendere le omologhe doglianze proposte dall'E in sede di gravame avverso la decisone del C.O.A. ha osservato il C.N.F.:
- che sulla illiceità della condotta del professionista in ordine alla denunzia sporta nei riguardi del Giovinazzo, nella consapevolezza di compiere un atto contrario all'interesse del proprio ex assistito, la decisione di prime cure appariva motivata in maniera appagante, essendo emersa la conoscenza da parte dell'incolpato della situazione del Giovinazzo e la sussistenza perdurante di un mandato professionale, ed essendo stata comunicata la rinunzia al mandato due giorni dopo l'incontro tra le parti, il che - unitamente alla sottolineata consapevolezza degli effetti pregiudizievoli dell'azione - induceva a ritenere sussistenti e provate le contestate violazioni deontologiche;

- che neppure poteva ritenersi sussistente la eccezione alla regola generale della riservatezza contemplata dal codice deontologico in ordine alla divulgazione di informazioni relative alla parte assistita laddove essa sia finalizzata ad impedire da parte del medesimo la commissione di un reato di particolare gravita, trattandosi di evento che nulla aveva a che vedere con il caso di specie;

- che non appariva condivisibile la deduzione dello stato di necessità in cui avrebbe agito l'incolpato, colto dal timore di poter essere coinvolto nella evasione del Giovinazzo, il quale avrebbe minacciato di recarsi a casa del legale, posto che non poteva certamente, nella fattispecie, rinvenirsi la dedotta causa di non punibilità, asseritamene incidente sull'elemento soggettivo dell'azione compiuta, trattandosi di condotta non necessitata da apprezzabili ragioni.
Ebbene, anche con riguardo alle doglianze in esame, a fronte della congruenza e logicità della motivazione adottata dal C.N.F., valgono gli stessi rilievi di superamento da parte del ricorrente dei limiti di censurabilità in questa sede della decisione in discorso sotto il profilo motivazionale e della conseguente ultroneità del richiamo alle norme, che si assumono violate, di cui all'art. 4 L. n. 689/81 e 333 cod. pen.. Con il quinto motivo si denunzia, in riferimento all'art. 360 n.ri 3 e 5 c.p.c., violazione o falsa applicazione dell'art. 47 del R.D. n. 37/1934, nonché mancanza e comunque apparenza di motivazione.
Osserva il ricorrente che, da un lato, il C.N.F. aveva confermato che all'incolpato deve essere assegnato un termine non minore di 10 giorni per presentare le proprie deduzioni (art. 45 del R.D.L. n. 1578/33, richiamato dall'art. 47 R.D. n. 37/34), ma poi aveva
ritenuto, nonostante la contraria evidenza (fissazione di un solo giorno) il rispetto del suindicato termine, assumendo che comunque le deduzioni difensive erano state esercitate.
La doglianza non può essere accolta giacché il C.N.F. ha disatteso l'omologa censura avanzata in sede di gravame avverso la decisione del C.O.A. sul rilievo che il termine di legge assegnato all'incolpato per presentare le proprie deduzioni intorno ai fatti, nel caso di specie risultava essere stato rispettato, con riferimento alla notifica, avvenuta il 12 ottobre 2000, del decreto di citazione a giudizio per la seduta di trattazione del 23 ottobre 2000 e che in tale seduta, peraltro, l'E aveva chiesto, tramite il difensore, che fossero sentiti i testi di cui alla lista depositata ed era stato ascoltato a difesa, senza che venissero sollevate questioni di sorta.
Tal che il professionista aveva avuto modo di spiegare ampiamente ogni sua difesa, senza rilievi. Con il sesto motivo si deduce, in riferimento all'art. 360 n. 3 c.p.c., violazione o falsa applicazione dell'art. 51 del R.D. n. 37/34, nella parte in cui dispone che la "decisione è redatta dal relatore".
Osserva il ricorrente che la redazione della decisione da parte del consigliere relatore, non risultante nella decisione del C.O.A. del 4.12.2000, è requisito di validità della stessa al pari della sottoscrizione del presidente e del segretario, identica essendo la fonte normativa, identica l'esigenza in ordine alla trasparenza dell'atto amministrativo compiuto, non potendosi per tali ragioni considerare, come aveva ritenuto il C.O.A., mera disposizione regolamentare il disposto violato.
La censura non ha pregio giacché correttamente il C.N.F. ha ritenuto pacifico, al riguardo, che per la validità della decisione è necessario, per l'espresso disposto normativo richiamato dal ricorrente, la sottoscrizione del Presidente e del segretario, mentre la indicazione del Consigliere relatore ed estensore, mera disposizione regolamentare, non può considerarsi determinante ai fini della validità della stessa.
E pare opportuno, a tal proposito, richiamare quanto statuito dalle Sezioni Unite di questa Suprema Corte nella sentenza n. 257 del 2003, secondo la quale, posto che la disciplina della sottoscrizione delle decisioni rese dal C.O.A. è dettata dall'art. 51 del R.D. n. 37/34, le decisioni di quell'Organo devono essere sottoscritte dal presidente e dal segretario come previsto dalla citata disposizione della legge professionale, che ha natura di "lex specialis", non anche dal relatore, come invece richiede l'art. 132, ultimo comma, c.p.c.. Nè questa diversità di disciplina, relativamente alla
sottoscrizione delle decisioni, rispetto al giudizio innanzi al giudice ordinario, si pone in contrasto con l'art. 3 Cost., atteso che la sottoscrizione del presidente e del segretario è in grado di assicurare la conformità del contenuto della decisione e della relativa motivazione alla deliberazione collegiale ed alle ragioni che la determinarono.
Con il settimo motivo si denunzia, sempre in riferimento all'art. 360 n. 3 c.p.c., violazione o falsa applicazione dell'art. 48 del R.D. n. 37/34 per aver il C.N.F. condiviso la decisione dell'Ordine
territoriale il quale aveva concesso all'E il termine di un'ora per la difesa in relazione all'esame della documentazione pervenuta dalla Corte d'appello di Venezia, giudicando più che congruo tale termine per avere piena cognizione dei documenti acquisiti (nomina a difensore dell'avv.to A B nel procedimento contro il Giovinazzo e rinuncia al mandato da parte dell'E nel medesimo procedimento).
Secondo il ricorrente la decisione sul punto del C.N.F. si sarebbe sostanziata in una ingiusta compressione del diritto di difesa e nella violazione del principio del contraddittorio, essendo stata preclusa, senza ragionevole motivo, la possibilità di adeguata valutazione, controdeduzione ed eventuale ulteriore produzione difensiva.
La doglianza non può essere accolta.
In tema di procedimento disciplinare a carico di avvocati l'art. 45 del R.D.L. n. 1578 del 1933 prevede la concessione all'incolpato -
chiamato a rispondere all'udienza di discussione davanti al C.O.A. - di un termine minimo inderogabile di almeno 10 giorni per comparire all'indicata udienza "per essere sentito sulle sue discolpe";
mentre può essere inferiore a dieci giorni il termine entro il quale l'incolpato medesimo, il suo difensore ed il pubblico ministero potranno prender visione degli atti del procedimento, proporre deduzioni ed indicare testimoni (v. Cass. SU n. 5394/95). Non essendo stata prevista, nella seconda ipotesi, una durata minima, lasciata evidentemente alla discrezionalità dell'Organo disciplinare in relazione alla natura degli atti da esaminare e con riguardo allo svolgimento dell'"iter" procedimentale, non è di certo contestabile l'affermazione del C.N.F. secondo la quale il termine, sia pur minimo, concesso dal C.O.A. per l'esame dei documenti acquisiti (nomina a difensore e rinunzia al mandato) era più che congruo e sufficiente per averne piena cognizione, considerato lo scarno contenuto degli stessi e la deduzione delle circostanze in essi attestate, già addotte a discolpa dell'E, tal che nessuna compressione del diritto alla difesa si era nel caso di specie verificata.
Con l'ottavo ed ultimo motivo, si deduce, infine, in riferimento all'art. 360 n. 5 c.p.c., assenza di motivazione con riguardo all'esclusione di testi ritualmente indicati dalla difesa. Rileva, in particolare, il ricorrente che il C.N.F., pur dopo aver precisato che "deve ritenersi attribuito all'organo disciplinare il potere di carattere discrezionale di ridurre le liste dei testimoni sovrabbondanti e di esclusione dei testi che non possono esser sentiti per disposto di legge" abbia condiviso l'esclusione del teste prof. F P F, neuropsichiatra, non già per le ragioni indicate, ma omettendo di considerare che lo specialista era stato chiamato in qualità di consulente a riferire in ordine a problematiche specialistiche del ramo di sua competenza la cui rilevanza era stata disattesa sulla base di un giudizio che avrebbe potuto essere espresso soltanto dopo la compiuta istruttoria e non a priori, di tal che nessun dubbio di ammissibilità poteva sussistere. Anche tale ultima doglianza non si sottrae alla sorte delle precedenti.
Deve qui ribadirsi che le decisioni del C.N.F. sono suscettibili di sindacato da parte della Corte di Cassazione quanto al vizio di motivazione, in base all'art. 111 Cost. e soltanto allorché la motivazione manchi affatto o non si presenti logicamente ricostruibile o sia priva di congruenza logica rispetto ai fatti accertati dal giudice, quali risultano dalla decisione impugnata (Cass. SU n. 175/1999, n. 150/2001, n. 762/2002). Vizi questi, nella specie, insussistenti avendo il C.N.F. dato ragione del proprio convincimento affermando, previo richiamo alla attribuzione all'organo disciplinare del potere, di carattere discrezionale, di ridurre le liste dei testimoni sovrabbondanti e di esclusione dei testi che non possono essere sentiti per disposto di legge, che nel caso in esame tale potere risultava correttamente esercitato dal C.O.A. essendo stata esclusa soltanto la escussione del teste dott. Prof. F P F, neuropsichiatra, il quale avrebbe evidentemente dovuto testimoniare (con forti dubbi di ammissibilità, non potendo demandarsi a testimoni l'espressione di giudizi medico-legali) sulle condizioni di salute mentale della denunziante, per giunta del tutto inconferenti, irrilevanti ed inconcludenti ai fini del decidere.
Alla stregua delle svolte argomentazioni il proposto ricorso va respinto, con conseguente non luogo a provvedere in ordine alla richiesta sospensione dell'esecutività del provvedimento impugnato. Nulla deve disporsi, altresì, in ordine alle spese giudiziali non essendo stata svolta alcuna attività dalle parti controinteressate.

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