Cass. civ., sez. I, sentenza 27/08/2004, n. 17123

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Sul provvedimento

Citazione :
Cass. civ., sez. I, sentenza 27/08/2004, n. 17123
Giurisdizione : Corte di Cassazione
Numero : 17123
Data del deposito : 27 agosto 2004
Fonte ufficiale :

Testo completo

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. D M R - Presidente -
Dott. C W - Consigliere -
Dott. S S - Consigliere -
Dott. F F - Consigliere -
Dott. G P - rel. Consigliere -
ha pronunciato la seguente:

SENTENZA
sul ricorso proposto da:
M della G, legalmente domiciliato in Roma, Via dei Portoghesi n. 12, presso gli uffici dell'Avvocatura Generale dello Stato che lo rappresenta e difende ex lege;



- ricorrente -


contro
M P, elettivamente domiciliato in Roma, Via Saluzzo n. 8, presso lo studio dell'Avv. F N, rappresentato e difeso dall'Avv. S F in forza di procura speciale a margine del controricorso;



- controricorrente -


avverso il decreto della Corte di Appello di Roma, pubblicato il 28.2.2002, emesso il 28.1.2002 nel procedimento iscritto al n. 4400 del ruolo affari diversi per l'anno 2001;

Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 10.3.2004 dal Consigliere Dott. P G;

Udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. C R, il quale ha concluso per il rigetto del ricorso. SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con ricorso alla Corte di Appello di Roma, M P, premesso che nel 1986 era iniziato nei confronti suoi e di altri un giudizio penale davanti al Tribunale di Benevento, che nel 1994 era intervenuta sentenza di condanna con trasmissione degli atti al pubblico ministero per fatti diversi da quelli ascritti, che il primo processo si era concluso presso la Corte di Cassazione nel 1998, mentre il secondo, in cui era stata ravvisata la continuazione per lo stesso reato, si era concluso presso quest'ultimo Giudice nel 2000, chiedeva che, previo accertamento della violazione dell'art. 6, paragrafo 1, della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, sotto il profilo del mancato rispetto del termine ragionevole di durata del processo, venisse disposta la condanna del Ministero della Giustizia al pagamento di quanto dovutogli a titolo di equa riparazione del danno, patrimoniale e non, subito in conseguenza di una simile durata. Si costituiva in giudizio l'Amministrazione convenuta, resistendo alla pretesa avversaria.
Il Giudice adito, con decreto in data 28.1/28.2.2002, condannava il Ministero anzidetto a pagare al Pastore la somma di euro 8.400,00, oltre gli accessori, assumendo:
a) che il procedimento, pur nella complessità legata all'espletamento di attività istruttoria, non sarebbe dovuto durare oltre sei anni, ivi compresa la fase relativa alla continuazione;

b) che l'eccesso di circa otto anni rispetto a tale durata non fosse riferibile al fatto che il ricorrente aveva proposto tutte le impugnative di appello e di legittimità che gli competevano;

c) che sussistesse il danno non patrimoniale, consistente nel disagio per il protrarsi eccessivo del giudizio il quale aveva interessato una rilevante situazione della vita del ricorrente, in relazione alla violazione dell'art. 6, paragrafo 1, della Convenzione europea, obiettivamente ravvisabile a causa dell'irragionevole durata del procedimento;

d) che il danno sopra indicato dovesse essere liquidato nella misura di euro 1.050,00 per ciascuno degli otto anni di siffatta irragionevole durata.
Avverso tale decreto, ricorre per Cassazione il Ministero della Giustizia, deducendo un solo motivo di gravame al quale resiste il Pastore con controricorso illustrato da memoria.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Deve, innanzi tutto, essere disattesa la pregiudiziale eccezione di inammissibilità del ricorso sollevata dal controricorrente in relazione al fatto che il ricorso medesimo gli sarebbe stato notificato fuori termine, ovvero in data 14.11.2002, mentre l'impugnato decreto risulta notificato all'Amministrazione ricorrente in data 12/13.8.2002.
Al riguardo, premessa la corretta prospettazione, in sè, dei due elementi da ultimo indicati, relativi, cioè, alle rispettive date delle notificazioni anzidette, si osserva come al procedimento di cui alla legge 24 marzo 2001, n. 89, concernente l'equa riparazione del danno da irragionevole durata del processo, trovi applicazione la sospensione dei termini processuali nel periodo feriale contemplata dagli artt. 1 e 3 della legge 7 ottobre 1969, n. 742, i quali dispongono, l'uno, che il decorso dei termini processuali relativi alle giurisdizioni ordinarie ed a quelle amministrative è sospeso di diritto dal 1^ agosto al 15 settembre di ciascun anno e riprende a decorrere dalla fine del periodo di sospensione (con l'ulteriore precisazione che, ove il decorso abbia inizio durante il periodo di sospensione, come nella specie, l'inizio stesso è differito alla fine di detto periodo, onde la tempestività dell'odierno ricorso) e l'altro che, in materia civile, l'art. 1 non si applica alle cause ed ai procedimenti indicati nell'art. 92 dell'ordinamento giudiziario 30 gennaio 1941, n. 12, nonché alle controversie previste dagli artt. 409 e 459 ss. (ora artt. 409 e 442) del c.p.c., laddove il primo comma del citato art. 92, come modificato dall'art. 4 della legge 4 aprile 2001, n. 154, elenca le cause relative ad alimenti, ai
procedimenti cautelari, per l'adozione di ordine di protezione contro gli abusi familiari, di sfratto e di opposizione all'esecuzione, nonché quelle relative alla dichiarazione e alla revoca dei fallimenti ed in genere quelle rispetto alle quali la ritardata trattazione potrebbe produrre grave pregiudizio alle parti. La norma, infatti, contenuta nel sopra richiamato art. 3 della legge n. 742 del 1969 costituisce una disposizione di natura eccezionale,
insuscettibile di applicazione analogica (Cass. 9 maggio 2003, n. 7077), onde, per un verso, non può evidentemente venire in considerazione nei procedimenti in camera di consiglio di carattere contenzioso (Cass. 16 settembre 2002, n. 13487;
Cass. 7077/2003, cit.), del genere di quello per il quale è causa (art. 3, quarto comma, della legge n. 89 del 2001) e di quello, ad esempio, in tema
di espulsione amministrativa dello straniero (art. 13-bis del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, aggiunto dall'art. 4, comma primo, del decreto legislativo 13 aprile 1999, n. 113), mentre, per
altro verso, resta ferma la possibilità per il danneggiato, che intenda rinunciare alla sospensione, di richiedere alla competente Corte di appello, con il deposito del ricorso, la dichiarazione di urgenza della causa ai sensi dell'art. 92, secondo comma, del regio decreto n. 12 del 1941, la quale, ancorché intervenuta in sede di
merito, deve intendersi riferita al corso dell'intero procedimento e, quindi, anche ai termini per proporre ricorso per Cassazione (Cass. 28 aprile 1990, n. 3561;
Cass. 7077/2003, cit), che, peraltro, è
appena il caso di notare, il legislatore non ha ritenuto di abbreviare (secondo quanto ad esempio prevede, anche dopo la modifica introdotta con l'art. 16 della legge 28 marzo 2001, n. 149, l'art. 17 della legge 4 maggio 1983, n. 184 in materia di adozione) là dove
risulta semplicemente stabilito, al sesto comma dell'art. 3 della legge n. 89 del 2001, che il decreto pronunciato dalla Corte di
appello è "impugnabile per cassazione".
Con l'unico motivo di impugnazione, lamenta l'Amministrazione ricorrente violazione e falsa applicazione dell'art. 2697 c.c. e dell'art. 2 della legge n. 89 del 2001, nonché omessa e/o insufficiente motivazione circa un punto decisivo della controversia, in relazione all'art. 360, nn. 3 e 5, c.p.c, deducendo:
a) che la Corte territoriale ha errato nel ritenere apoditticamente sussistente il danno morale, senza alcun adeguato riscontro probatorio in ordine alla sussistenza del danno stesso e del nesso di causalità tra la durata del processo ed il pregiudizio che si pretende subito;

b) che è da escludere la possibilità di fornire la prova del (solo) danno morale anche per presunzioni, dovendo comunque darsi la dimostrazione, una volta accertato il fatto del superamento del termine ragionevole, del pregiudizio non patrimoniale che si assume esserne derivato;

c) che, nella specie, non risulta peraltro che tale prova presuntiva sia stata fornita in qualsivoglia modo;

d) che, nel caso in esame, poi, il preteso danno non solo non è stato dedotto ne' dimostrato, ma non è neppure astrattamente configurabile, risultando l'asserita, irragionevole durata dei due connessi procedimenti penali essenzialmente dovuta alle, pur legittime, impugnative dell'odierno controricorrente;

e) che occorre, insomma, far dipendere la ricerca presuntiva della prova del danno non patrimoniale dalle obiettive caratteristiche del giudizio valutate in rapporto alla posizione soggettiva della parte, non potendo il danno stesso considerarsi in re ipsa, ma dovendo piuttosto essere rigorosamente allegato e provato dalla parte legittimata a chiederne il ristoro, ancorché tale prova possa in concreto essere agevolata dal ricorso a presunzioni appunto, ciò che, nella specie, avrebbe portato all'opposta conclusione del rigetto delle pretese avversarie, su cui la Corte territoriale ha omesso qualsiasi adeguata motivazione.
Il motivo non è fondato.
Giova, al riguardo, premettere come questa Corte, con la recente sentenza delle Sezioni Unite n. 1338 del 26 gennaio 2004, abbia riconosciuto che, in tema di equa riparazione ai sensi dell'art. 2 della legge 24 marzo 2001, n. 89, il danno non patrimoniale è
conseguenza normale, ancorché non automatica e necessaria, della violazione del diritto alla ragionevole durata del processo di cui all'art. 6 della Convenzione europea sopra richiamata, onde, pur dovendo escludersi la configurabilità di un danno non patrimoniale in re ipsa ossia di un danno automaticamente e necessariamente insito nell'accertamento della violazione, il giudice, una volta accertata e determinata l'entità della violazione relativa alla durata ragionevole del processo secondo le norme della citata legge n. 89 del 2001, deve ritenere sussistente il danno non patrimoniale
ogniqualvolta non ricorrano, nel caso concreto, circostanze particolari che facciano positivamente escludere che tale danno sia stato subito dal ricorrente, una simile lettura della norma interna, oltre che ricavabile dalla ratio giustificativa collegata alla sua introduzione, particolarmente emergente dai lavori preparatori, essendo imposta dall'esigenza di adottare un'interpretazione conforme alla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo (alla stregua della quale il danno non patrimoniale conseguente alla durata non ragionevole del processo, una volta che sia stata dimostrata l'anzidetta violazione dell'art. 6, viene normalmente liquidato alla vittima senza bisogno che la sua sussistenza sia provata, ancorché in via presuntiva), così evitandosi i dubbi di contrasto con la Costituzione italiana, la quale, con specifica enunciazione contenuta nell'art. 111, tutela il bene della ragionevole durata del processo come diritto della persona, sulla scia di quanto previsto dalla norma convenzionale.
Tanto premesso, è da osservare come il giudice del merito, lungi dall'essere incorso nel vizio (pure denunciato) di omissione di "qualsivoglia adeguata motivazione", abbia fatto corretta applicazione dei principi, sopra riportati, enunciati da questa Corte, avendo individuato il danno non patrimoniale risentito dal Pastore nel disagio "per l'eccessiva durata del processo coinvolgente l'interesse ad una sollecita definizione della sua posizione di imputato" ed avendone ravvisato la sussistenza in ragione della stessa violazione dell'art. 6, paragrafo 1, della Convenzione europea, ovvero del "protrarsi della causa oltre il limite del ragionevole", laddove, a quest'ultimo riguardo, giova notare come la Corte territoriale, con apprezzamento di per sè incensurato, abbia dato atto che "il procedimento, pur nella complessità di dover espletare una attività istruttoria, non avrebbe dovuto durare oltre sei anni, ivi compresa la fase relativa alla continuazione" e che "il comportamento delle parti non abbia cagionato ritardi", così da escludere che "l'eccesso...di circa otto anni sia riferibile al fatto che il ricorrente abbia proposto tutte le impugnative di appello e di legittimità che gli competevano, essendo evidente che la ragionevole durata...è rapportata ai due giudizi di merito ed all'impugnazione di legittimità che erano poste a garanzia di altri fondamentali diritti dell'imputato", onde la conclusione secondo la quale "si deve ritenere che l'ampiezza dei rinvii e quindi il ritardo siano dovuti a ragioni strutturali".
Il ricorso, pertanto, deve essere rigettato.
Le stesse incertezze giurisprudenziali determinatesi riguardo alla questione affrontata, dissipate solo di recente, giustificano la compensazione tra le parti delle spese del giudizio di Cassazione.

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