Cass. civ., sez. V trib., sentenza 14/01/2022, n. 00999
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l. 28 ottobre 2020, n. 137, la seguente SENTENZA sul ricorso iscritto al n. 14221/2015 R.G. proposto da JOB ART S.R.L. IN LIQUIDAZIONE, in persona del liquidatore giudiziale, D GIOVANNI, VANZETTO GIANNI, CHINELLO ROSANNA, PANTANO DANIELA, tutti rappresentati e difesi, in forza di mandati a margine del ricorso, dagli avv.ti L T e G M ed elettivamente domiciliati presso lo studio del secondo, in Roma, via Monti Parioli, n. 48 - ricorrenti -contro AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, alla via Portoghesi, n. 12, presso l'Avvocatura Generale dello Stato che la rappresenta e difende come per legge - resistente - avverso la sentenza n. 1876/24/14 della Commissione tributaria regionale del Veneto depositata il 24 novembre 2014 udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 23 novembre 2021 dal Consigliere Pasqualina A P C;lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale, dott. F T, che ha chiesto il rigetto del ricorso FATTI DI CAUSA 1. L'Agenzia delle entrate notificò alla Job Art s.r.l. in liquidazione ed ai soci G D, G V, R C e D P avviso di accertamento, in relazione all'anno d'imposta 2003, ai fini del recupero a tassazione di Irap, Irpeg e I.V.A., contestando l'omessa contabilizzazione di ricavi e di una plusvalenza derivante dalla cessione di immobile. Secondo quanto emerge dalla sentenza impugnata, la ripresa fiscale traeva origine da una nota informativa inviata all'Ufficio finanziario dal liquidatore giudiziale della società contribuente, M A, con la quale era stato segnalato che, a seguito di contrasti insorti tra i soci Vanzetto e Donatello, già amministratori della società, per la ripartizione dei ricavi della vendita dei beni sociali, sulla base di una consulenza tecnica d'ufficio era stato redatto un lodo arbitrale che aveva accertato l'avvenuta ripartizione tra i soci di tutti i proventi realizzati con la vendita dei beni strumentali della società e delle merci prodotte e l'omessa registrazione di dette poste attive in contabilità e in bilancio. 2. Contro gli avvisi di accertamento la società ed i soci proposero ricorso, eccependo la decadenza dell'Amministrazione dal potere impositivo per decorso del termine, stante l'inapplicabilità del raddoppio dei termini di cui all'art. 43, comma 3, d.P.R. n. 600 del 1973, la violazione dell'art. 12, comma 7, legge n. 212 del 2000, l'illegittimità dell'avviso di accertamento perché sottoscritto da funzionario non avente la qualifica dirigenziale e l'illegittimità dell'avviso emesso a carico dei soci ai sensi dell'art. 36 del d.P.R. n. 602 del 1973. La Commissione tributaria provinciale di Padova, previa riunione dei ricorsi, confermò l'accertamento a carico della società, annullando la ripresa a tassazione a carico dei soci per inapplicabilità del raddoppio dei termini di accertamento. 3. Avverso la suddetta decisione proposero appello sia le parti contribuenti sia l'Agenzia delle entrate. La Commissione tributaria regionale, accogliendo l'appello dell'Ufficio e rigettando quello incidentale dei contribuenti, confermò gli avvisi di accertamento emessi nei confronti della società e dei soci. Rigettate le eccezioni di decadenza dal potere impositivo e di violazione del preventivo contraddittorio, nonché quella di nullità dell'atto impositivo perché sottoscritto da funzionario carente di delega, osservò che nulla impediva all'Amministrazione di condensare in un unico atto impositivo emesso nei confronti di più soggetti l'omessa contabilizzazione di ricavi, stante l'identità delle violazioni tributarie, aggiungendo che la responsabilità ex art. 36 del d.P.R. n. 602 del 1973 era in re ipsa per i soci amministratori e liquidatori, non risultando versata alcuna imposta sui ricavi non contabilizzati e considerato che il Vanzetto era anche il sottoscrittore della dichiarazione dei redditi e del bilancio;quanto alle socie Chinello e Pantano, la loro responsabilità discendeva sia dal fatto che, in ragione della loro qualità di coniugi degli altri due soci e amministratori e liquidatori, le stesse partecipavano del reddito familiare, sia dal consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui era legittima la presunzione di distribuzione degli utili extra-contabili ai soci di una società a ristretta base azionaria, presunzione che da sola valeva a giustificare la responsabilità di cui all'art. 36 citato. In mancanza di diversa specificazione e stante la prova della ristretta base sociale, ritenne dunque legittima la ripartizione in parti uguali tra tutti i soci del reddito presunto ed operante anche nei confronti dei soci il raddoppio dei termini di cui all'art. 43 del d.P.R. n. 600 del 1973. Quanto, poi, all'ulteriore eccezione di doppia imposizione per violazione dell'art. 47 del t.u.i.r., affermò che la disposizione atteneva agli utili ritualmente contabilizzati e distribuiti a seguito di delibera sociale e non agli utili extra-bilancio per i quali la società non aveva versato imposte. Infine, con riferimento all'applicazione dei contributi previdenziali sugli utili distribuiti ai soci, precisò che ogni contestazione relativa alla loro debenza, esulando dalla giurisdizione delle Commissioni tributarie, doveva essere proposta dinanzi al giudice ordinario. 4. Ricorrono per la cassazione della decisione d'appello la .lob Art s.r.l. in liquidazione ed i soci, con undici motivi, ulteriormente illustrati con memoria ex art. 378 cod. proc. civ.. L'Agenzia delle entrate ha depositato atto di costituzione. RAGIONI DELLA DECISIONE 1. Con il primo motivo i contribuenti denunciano, in relazione all'art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ., la nullità della sentenza per violazione degli artt. 36 del d.lgs. n. 546 del 1992 e 112 cod. proc. civ. e si dolgono che la motivazione della sentenza è del tutto insufficiente e carente sotto il profilo logico, poiché non consente di comprendere le ragioni che abbiano condotto a rigettare l'appello della società e ad accogliere l'appello dell'Ufficio finanziario. 1.1. Il motivo è infondato. 1.2. Ai sensi dell'art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ. — nel testo novellato dall'art. 54, comma 1, lett. b), d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n. 134 (applicabile ratione temporis al presente giudizio) — il sindacato di legittimità sulla motivazione della sentenza può operare solo entro il «minimo costituzionale» (Cass., sez. U, 7/4/2014, n. 8053, nonché, tra le altre, Cass., sez. 3, 20/11/2015, n. 23828;Cass., sez. 3, 5/7/2017, n. 16502), investendo esclusivamente le ipotesi di motivazione «meramente apparente», configurabile, oltre che nel caso di «carenza grafica» della motivazione, quando questa, «benché graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perché recante argomentazioni obbiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento» (Cass., sez. U, 3/11/2016, n. 22232), in quanto affetta da «irriducibile contraddittorietà» (Cass., sez. 3, 12/10/2017, n. 23940), ovvero connotata da «affermazioni inconciliabili», mentre resta irrilevante il semplice difetto di «sufficienza» della motivazione (Cass., sez. 2, 13/08/2018, n. 20721). 1.3. Nessuna delle suddette anomalie argomentative è ravvisabile nel caso di specie. L'esposizione delle ragioni poste a fondamento della decisione, considerata nel suo complesso, ossia nella totalità delle sue componenti testuali, risulta, invero, idonea a rendere conoscibile il percorso logico-giuridico seguito dalla Commissione tributaria regionale. Difatti, una considerazione complessiva dell'ordito motivazionale della pronuncia gravata consente di enucleare la ratio decidendi, la quale, a prescindere da ogni considerazione sulla validità del fondamento giuridico ad essa sotteso, è chiaramente identificabile, risultando adeguatamente illustrate, in relazione ai plurimi profili di censura fatti valere dalle parti contribuenti, le ragioni che i giudici di appello hanno posto a base del decisum. 2. Con il secondo motivo i ricorrenti censurano la decisione gravata, in relazione all'art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., per violazione dell'art. 43, comma 3, del d.P.R. n. 600 del 1973 per avere i giudici di secondo grado ritenuto legittimo il raddoppio dei termini operato dall'Amministrazione. Evidenziano a sostegno di tale censura che nel giudizio di merito la società aveva fatto rilevare che non era stata allegata all'atto accertativo la denuncia penale presentata alla Procura della Repubblica e che l'atto impositivo era stato emesso e notificato oltre il termine previsto a pena di decadenza, poiché la violazione che comportava obbligo di denuncia penale era stata constatata nel 2011 quando i termini per accertare l'annualità 2003 erano già abbondantemente scaduti. Richiamando la sentenza della Corte Costituzionale del 25 luglio 2011, n. 247, soggiungono i ricorrenti che il raddoppio dei termini non trova applicazione qualora risulti che l'Amministrazione finanziaria non abbia agito in modo imparziale ed abbia fatto un uso pretestuoso e strumentale delle disposizioni al fine di fruire ingiustamente di un più ampio termine di accertamento. 2.1. Il motivo è infondato. 2.2. Deve darsi continuità al principio secondo cui in tema di accertamento tributario, il raddoppio dei termini previsto dagli artt. 43, comma 3, del d.P.R. n. 600 del 1973 e 57, comma 3, del d.P.R. n. 633 del 1972 (come modificati dall'art. 37, comma 24 d.l. n. 223 del 2006), nei testi applicabili ratione temporis, presuppone unicamente l'obbligo di denuncia penale, ai sensi dell'art. 331 cod. proc. pen., per uno dei reati previsti dal d.lgs. n. 74 del 2000, e non anche la sua effettiva presentazione, come chiarito dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 247 del 2011 (Cass., sez. 5, 30/05/2016, n. 11171). 2.3. Secondo la lettura di tali disposizioni data dalla sentenza della Corte costituzionale sopra richiamata e dalla giurisprudenza di questa Corte di legittimità (Cass., sez. 5, 7/10/2015, n. 20043 e Cass., sez. 5, 15/05/2015, n. 9974;Cass., sez. 5, 16/12/2016, n. 26037), il raddoppio dei termini per l'accertamento si applica anche alle annualità d'imposta anteriori a quella pendente al momento dell'entrata in vigore delle disposizioni indicate (4 luglio 2006), perché queste, stabilendo il prolungamento dei termini non ancora scaduti alla data dell'entrata in vigore del decreto-legge n. 223 del 2006, incidono necessariamente (protraendoli) sui termini di accertamento delle violazioni che si assumono commesse prima di tale data. Questo effetto deriva non dalla natura retroattiva delle norme, ma dall'applicabilità ex nunc della protrazione dei termini in corso, nel rispetto del principio secondo cui, di regola, «la legge non dispone che per l'avvenire» (art. 11, prima parte, del primo comma, delle disposizioni preliminari al codice civile;analogamente, l'art. 3, comma 1, della legge n. 212 del 2000, stabilisce che «le disposizioni tributarie non hanno effetto retroattivo»). Il raddoppio deriva, quindi, dal mero riscontro di fatti comportanti l'obbligo di denuncia penale ai sensi dell'art. 331 cod. proc. pen., indipendentemente dall'effettiva presentazione della denuncia, dall'inizio dell'azione penale e dall'accertamento penale del reato, restando irrilevante, in particolare, che l'azione penale non sia proseguita o sia intervenuta una decisione penale di proscioglimento, di assoluzione o di condanna, dato il regime del cosiddetto «doppio binario» tra giudizio penale e processo tributario, evidenziato dall'art. 20 del d.lgs. n. 74 del 2000. L'obbligo di denuncia sorge quando il pubblico ufficiale sia in grado di individuare con sicurezza gli elementi di un reato previsto dal d.lgs. n. 74 del 2000 (anche se sussistano cause di non punibilità impeditive della prosecuzione delle indagini penali ed il cui accertamento, al pari dell'antigiuridicità e del dolo, resta riservato all'autorità giudiziaria), non essendo sufficiente il generico sospetto di una eventuale attività illecita. E ovviamente il pubblico ufficiale non può liberamente valutare se e quando presentare la denuncia, dovendola presentare prontamente e il giudice tributario deve controllare, se richiesto con i motivi di impugnazione dell'atto impositivo o di contestazione delle sanzioni, la sussistenza dei presupposti dell'obbligo di denuncia, compiendo al riguardo una valutazione ora per allora (cosiddetta «prognosi postuma») circa la loro ricorrenza (cioè circa la sussistenza di una notitia criminis dotata di fumus) ed accertando, quindi, se l'amministrazione finanziaria abbia fatto un uso pretestuoso e strumentale delle menzionate disposizioni al fine di fruire ingiustificatamente di un più ampio termine di accertamento. In presenza di una contestazione sollevata dal contribuente, l'onere di provare i presupposti dell'obbligo di denuncia penale (non certo l'esistenza del reato) è a carico dell'amministrazione finanziaria, dovendo questa giustificare il più ampio potere accertativo.
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