Cass. civ., SS.UU., sentenza 13/07/2005, n. 14700

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L'eccesso di potere cui fa riferimento l'art. 56 del r.d.l. 27 novembre 1933 n. 1578 (convertito con modifiche nella legge 22 gennaio 1934, n. 36) sull'ordinamento della professione forense, nel prevedere il ricorso degli interessati e del P.M. avverso le decisioni disciplinari del Consiglio Nazionale Forense, non ricalca la figura dello sviamento di potere o le cosiddetto figure sintomatiche elaborate dalla giurisprudenza amministrativa, ma è solo il cosiddetto eccesso di potere giurisdizionale, che si concreta nell'esplicazione di una potestà riservata dalla legge ad un altra autorità, sia essa legislativa o amministrativa, o nell'arrogazione di un potere non attribuito ad alcuna autorità, e non può quindi essere fatto valere per omissione di valutazioni di fatto.

Nei procedimenti disciplinari a carico di avvocati, la concreta individuazione delle condotte costituenti illecito disciplinare, definite dalla legge mediante una clausola generale (abusi o mancanze nell'esercizio della professione o comunque fatti non conformi alla dignità e al decoro professionale), è rimessa all'Ordine professionale, mentre il controllo di legittimità sull'applicazione di tali norme non consente alla Corte di cassazione di sostituirsi al Consiglio nazionale forense nell'enunciazione di ipotesi di illecito, se non nei limiti di una valutazione di ragionevolezza. (Alla stregua del principio di cui alla massima, è stata confermata la decisione del C.N.F. relativa alla irrogazione di sanzione disciplinare nei confronti dell'avvocato che: aveva notificato atto di precetto alla controparte contumace e parzialmente soccombente intimando il pagamento in proprio favore, quale anticipatario, di spese e competenze maturate per l'attività svolta dopo il deposito della sentenza ed aveva richiesto ai danni del medesimo pignoramento mobiliare, nonostante quest'ultimo avesse già riconosciuto al legale l'importo dovuto mediante assegno circolare trasmessogli con raccomandata, ponendo in essere attività ritenute dal C.N.F. passibili di essere valutate come persecutorie verso la controparte, costretta ad un esborso notevolmente superiore a quello dovuto originariamente; aveva trattenuto somme consegnategli fiduciariamente perché estinguesse un debito verso terzi, esponendo il cliente a procedura esecutiva, cui si era opposto, ad insaputa del cliente stesso, e senza il rilascio di mandato.)

Sul provvedimento

Citazione :
Cass. civ., SS.UU., sentenza 13/07/2005, n. 14700
Giurisdizione : Corte di Cassazione
Numero : 14700
Data del deposito : 13 luglio 2005
Fonte ufficiale :

Testo completo

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. N G - Primo Presidente f.f. -
Dott. C O F - Presidente di sezione -
Dott. M A - rel. Consigliere -
Dott. L E - Consigliere -
Dott. S F - Consigliere -
Dott. V U - Consigliere -
Dott. M M R - Consigliere -
Dott. R F - Consigliere -
Dott. V G - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:

SENTENZA
sul ricorso per proposto da:
C B, domiciliata in ROMA,

VIALE GIULIO CESARE

6, presso lo studio dell'avvocato G A, rappresentata e difesa dall'avvocato C M R, giusta delega a margine del ricorso;



- ricorrente -


contro
CONSIGLIO DELL'ORDINE DEGLI AVVOCATI DI BARI, PROCURATORE GENERALE PRESSO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE;



- intimati -


avverso la decisione n. 217/04 del Consiglio nazionale forense, depositata il 13/10/04;

udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del 16/06/05 dal Consigliere Dott. A M;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. M A che ha concluso per il rigetto del ricorso. SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Il Consiglio dell'Ordine degli Avvocati di Bari, per quanto ancora interessa in questa sede, con decisione del 25 settembre 2002, notificata all'avv.to Barbara C il 26.2.2003, dopo averla prosciolta dalla incolpazione di cui al procedimento n. 115/99, ha inflitto alla predetta la sanzione della sospensione dall'esercizio della professione per mesi quattro, ritenendola responsabile dei seguenti addebiti: Procedimento n. 25/2001 "per aver notificato il 15.11.2000 al Dr. Pietro B, quale controparte contumace e parzialmente soccombente nel giudizio dinanzi al Giudice di pace di Bari, atto di precetto intimando il pagamento in proprio favore, quale anticipataria, di spese e competenze maturate per l'attività svolta dopo il deposito della sentenza n. 2135/99 ed aver richiesto il 13.2.2001 ai danni del medesimo pignoramento mobiliare, nonostante quest'ultimo avesse già riconosciuto alla legale l'importo dovuto in forza della predetta sentenza mediante assegno circolare trasmessole con racc. ricevuta il 13.11.2000, così contravvenendo ai principi di correttezza, probità e lealtà. In Bari il 15.11. 2000-13.2.2001. Procedimento n. 76/2001:1. "Per aver indebitamente trattenuto l'importo di L. 295.812 versatole dalla cliente sig.ra Beatrice De Bartolo e destinati al geom. Elio Gismondi a titolo di competenze in forza di precetto dallo stesso intimato il giorno 1.7.99/per competenze spettanti per una CTU svolta nel giudizio De Bartolo c. D'Ambrosio-Toro Assic. e regolarmente liquidate con ordinanza del V. Pretore;

2. "Perché, risultata inadempiente la sig.ra De Bartolo per la causale di cui al primo capo d'incolpazione, il geom. Gismondi, nel marzo 2000, rinotificava il secondo atto di precetto e sebbene l'avv. C avesse riconosciuto l'importo dovuto oltre le spese legali, con assegno bancario personale, formulava opposizione al secondo precetto per conto della De Bartolo a sua insaputa e senza il rilascio di regolare mandato, così venendo meno ai doveri di fedeltà, lealtà e correttezza. In Bari 1.7.99-14.3.2000". La C ha impugnato la decisione del CO.A. dinanzi al CNF il quale, con pronunzia depositata il 13 ottobre 2004, ha accolto parzialmente il ricorso riducendo la sanzione alla sospensione dalla professione per la durata di mesi due.
Avverso tale decisione ha proposto ricorso per Cassazione alle Sezioni Unite di questa Suprema Corte l'avv.to C con tre motivi di censura, illustrati da memoria.
Non hanno svolto attività difensiva in questa sede gli intimati. MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo di ricorso si denunzia violazione di legge (artt. 42 e 43 R.D.L. n. 37/1934) ed eccesso di potere per contraddittorietà tra motivazione e dispositivo;perplessità;

nullità del procedimento e della sentenza.
Deduce la ricorrente che la impugnata decisione è stata adottata da un Consiglio composto di soli otto membri, in violazione della norma di cui all'art. 43 RDL n. 37 del 1934 che, invece, stabilisce in numero di nove membri il "quorum" per la validità delle deliberazioni del CNF.
Osserva, per altro verso, che, esordendo la gravata pronunzia, nella intestazione "Il Consiglio nazionale forense, riunito in seduta pubblica..." e terminando, invece, nella parte dispositiva "Il Consiglio nazionale forense, riunitosi in Camera di consiglio...", non è dato evincere con quali modalità tale Organo siasi riunito. Ne deriverebbe, nella prima ipotesi, una palese violazione di legge atteso che l'art. 42 del RDL n. 37/34 prescrive che le adunanze del Consiglio non siano pubbliche. E, in caso contrario, un eccesso di potere, ricorrendo nella specie una insanabile contraddizione tra quanto riportato nell'"incipit" della decisione assunta e quanto invece dichiarato nel dispositivo, con conseguente illegittimità della pronunzia medesima.
Il motivo è infondato con riguardo ad entrambi i dedotti profili di censura.
Quanto al primo, se è vero che l'art. 43 RDL n. 37/1934 nel suo originario testo disponeva che per la validità delle deliberazioni del CNF fosse necessario l'intervento di almeno nove membri, le successive modifiche apportate con l'art. 22 del d. lgs. Lt. 23 novembre 1944 n. 382 hanno portato il numero minimo dei componenti necessari per il funzionamento del collegio a sette (un quarto della totalità, compreso il presidente o uno dei due vicepresidenti) tenuto conto che "ex lege" (art. 1 D. Lgs. p. n. 6 del 21 giugno 1946) i componenti del Consiglio sono 26, quanti i distretti delle Corti d'appello (v. sul punto Cass. n. 39/99 e n. 15144/2001). E nella specie il Collegio (la cui formazione avviene, di volta in volta, con provvedimento interno), era appunto composto da otto consiglieri (una unità in più del numero legale). Quanto al secondo profilo, a parte la considerazione che la rilevata contraddittorietà tra l'intestazione della decisione del CNF (che fa riferimento ad una "pubblicità" della seduta) e il dispositivo, che correttamente riporta l'adunanza di tale Organo nell'ambito della "non pubblicità" prescritta dall'art. 42 del RDL n. 37/34, appare il frutto di un mero errore materiale nella stesura dell'atto, è del tutto evidente che si verterebbe in ogni caso in tema di mera irregolarità non Inficiante la validità della decisione medesima, comunque presa nel segreto della Camera di Consiglio.
Va detto anzi che proprio la mancata pubblicità delle sedute è stata talora ritenuta in contrasto con i principi costituzionali in relazione al difforme trattamento rispetto al procedimento penale, anche se le relative questioni sono state ritenute infondate trattandosi di scelta del legislatore obiettivamente giustificata dalle esigenze di tutela della categoria professionale (v. Cass. S.U. n. 6187/82 e n. 3374/86 con riguardo ai parametri costituzionali di cui agli artt. 3 e 101, ed altresì, in tema di trattazione dei ricorsi dinanzi al Consiglio nazionale dei geometri, Cass. S.U. sent. n. 13170/91, secondo la quale la non pubblicità delle sedute non vanifica o comprime l'effettività del diritto di difesa garantito dall'art. 24 Cost., attesa la non assolutezza del principio della pubblicità dell'udienza e la sua derogabilità per la salvaguardia della riservatezza o per ragioni di ordine pubblico o di buon costume o per le speciali caratteristiche del procedimento e della materia trattata - Corte Costit. N. 50/89). Con il secondo motivo si deduce violazione di legge (artt. 91 e 93 c.p.c. in relazione agli artt. 287 e 288 stesso codice), eccesso di potere per omesso esame delle doglianze espresse in ricorso di impugnazione, travisamento dei fatti/motivazione inesistente o apparente e comunque contraddittoria. Osserva la ricorrente:
a) Il CNF aveva dato conto del procedimento n. 115/99, che ormai era stato archiviato con il proscioglimento dell'incolpata, quasi a volerne fare un "precedente" alla stregua di un'informativa di polizia, una sorta di certificazione sui carichi pendenti, che certamente aveva avuto il suo peso, al fine del mantenimento della sanzione della sospensione, impedendo l'irrogazione di una sanzione meno severa.
b)Quanto al procedimento disciplinare n. 25/2001:
1) erronea in diritto era l'affermazione del CNF secondo cui 11 B, non essendo parte del procedimento di correzione della sentenza, non era tenuto al pagamento degli oneri consequenziali. 2) con la notifica del precetto erano state richieste le somme legittimamente spettanti alla C non avendo il B corrisposto gli interessi legali sugli importi liquidati in sentenza e le spese maturate a seguito della ulteriore attività successiva all'emanazione della medesima.
3) il pignoramento non era stato richiesto "solo 24 o 48 ore dopo la notifica del precetto o comunque dopo la ricezione della raccomandata del B con la somma allegata", come affermato dal CNF, ma ben oltre ottantasei giorni dalla notifica del precetto, tal che il giudicante aveva confuso termini e date di notifica della sentenza e dei successivi atti (precetto e pignoramento).
c) Quanto al procedimento n. 76/2001) il CNF aveva sposato acriticamente le tesi del geom. Gismondi secondo il quale la C avrebbe trattenuto indebitamente la somma corrisposta dalla sua cliente De Bartolo Beatrice destinata al pagamento del suindicato ctu, mentre la diversa dinamica dei fatti dimostrava che la ricorrente non aveva mai agito scorrettamente ed in violazione dei principi deontologici.
L'esame di tale motivo rende necessaria .l'esposizione di alcuni principi regolatori della responsabilità disciplinare degli esercenti la professione forense e del controllo delle Sezioni Unite sulla motivazione delle decisioni rese dal Consiglio Nazionale Forense in tale materia. Vi è da premettere che, come affermato dalla costante giurisprudenza della Sezioni Unite (fra le numerose conformi, le sentenza n. 2411 del 1984 e la n. 15607 del 2001, in motivazione), l'art. 38 del r.d.l. 27 novembre 1933, n. 1578, il quale prevede che siano sottoposti a procedimento disciplinare gli avvocati "che si rendano colpevoli di abusi o di mancanze nell'esercizio della loro professione o comunque di fatti non conformi alla dignità e al decoro professionale", non contiene una specifica tipizzazione di ipotesi d'illecito. La ragione di tale scelta di formulazione normativa, al pari di quanto avviene per altre categorie (si pensi all'art. 18 del r.d.l. n. 511 del 1946 in materia di illecito disciplinare dei magistrati ordinari) viene generalmente ravvisata nel fine di evitare che violazioni dei doveri anche gravi possano sfuggire alla sanzione disciplinare. Pertanto, per un'esatta ricostruzione del controllo di legittimità sull'interpretazione ed applicazione di tale norma, occorre prendere le mosse dalla premessa che la stessa descrive fattispecie d'illecito disciplinare, non mediante un catalogo di ipotesi tipiche, ma mediante clausole generali o concetti giuridici indeterminati.
L'applicazione di norme di tale specie può dar luogo a valutazioni che - pur rimanendo distinte dal campo della discrezionalità, intesa come ponderazione comparativa d'interessi - finiscono con l'attribuire all'organo decidente un margine di apprezzamento non controllabile in cassazione. Il sindacato del giudice di legittimità sull'applicazione di un concetto giuridico indeterminato deve essere, quindi, rispettoso dei limiti che il legislatore gli ha posto, utilizzando una simile tecnica di formulazione normativa, che attribuisce al giudice del merito uno spazio di libera valutazione ed apprezzamento. Il controllo della Corte di Cassazione sulla corretta interpretazione ed applicazione del citato art. 38 non può prescindere dal fatto che detta norma contiene, per la definizione delle condotte sanzionabili, concetti giuridici indeterminati. Non fornendo la norma, per sua intrinseca natura, elementi tassativi per la definizione delle condotte disciplinarmente illecite, il sindacato di legittimità non può non tener conto del fatto che la categoria normativa impiegata finisce con l'attribuire agli organi disciplinari forensi un compito di individuazione delle condotte sanzionabili, nel quale non può ammettersi una sostituzione da parte dal giudice di legittimità, consistente nella riformulazione o ridefinizione di tali condotte.
Il dibattito sul controllo di legittimità dell'applicazione di concetti giuridici indeterminati effettuata dal giudice di merito non è certo recente, ne' esclusivo della tradizione giuridica italiana, ma risale ad oltre un secolo e mezzo fa.
Limitando l'esame all'esperienza applicativa della Corte, è certo che, almeno nella sua teorica enunciazione, quando il giudice del merito è chiamato ad applicare concetti giuridici indeterminati, il compito del controllo di legittimità, tanto più quando lo stesso ha limiti più stretti di quelli segnati dall'art. 360 cod. proc. civ., può essere soltanto quello di verificare - soprattutto attraverso la motivazione - la ragionevolezza della sussunzione del fatto. La Corte non può, pertanto, sostituirsi al giudice di merito nell'attività di riempimento dei concetti indeterminati contenuti nel citato art. 38. Tale è la linea che si ricava dalla costante giurisprudenza della Corte e, in particolare, dalle pronunce delle Sezioni Unite in tema di sindacato di legittimità sulle decisioni del Consiglio Nazionale Forense.
Il fatto che talvolta la Corte di Cassazione abbia enucleato delle fattispecie, considerandole come oggetto di applicazione sotto un concetto giuridico indeterminato, non significa che essa abbia inteso derogare alla regola predetta, ma soltanto che, talvolta, essa ha ritenuto utile, nell'esercizio della sua funzione di nomofilachia, fornire indicazioni utili ai giudici di merito per future applicazioni.
Pertanto, anche nell'individuazione di condotte costituenti illecito disciplinare degli esercenti la professione forense, essendo le stesse definite dalla legge mediante una clausola generale, il controllo di legittimità sull'applicazione di tale norma non consente alla Corte di Cassazione di sostituirsi agli organi forensi nell'enunciazione di ipotesi d'illecito, se non nei limiti di una valutazione di ragionevolezza.
Il secondo aspetto concerne i limiti del sindacato sulla motivazione propri dello speciale giudizio di legittimità previsto in materia disciplinare per gli esercenti la professione forense. Si deve premettere che le decisioni del Consiglio Nazionale Forense sono impugnabili soltanto per i motivi previsti dagli articoli 56, terzo comma, del r.d.l. 27 novembre 1933, n. 1578 e 68, primo comma, del r.d. 22 gennaio 1934, n. 37 (incompetenza, eccesso di potere e violazione di legge). Deve, quindi, escludersi un sindacato della Corte di Cassazione secondo il canone di cui all'art. 360, comma primo, n. 5, cod. proc. civ., e cioè esteso alla sufficienza della
motivazione, limitandosi il controllo di legittimità ai casi in cui il vizio si traduca in violazione di legge (art. 111 Cost.) e cioè la motivazione sia totalmente carente, apparente o contraddittoria, ovvero in contrasto col dispositivo, sì da non consentire la ricostruzione della "ratio" che sorregge la decisione. La giurisprudenza delle Sezioni Unite ha, inoltre, costantemente affermato che, oltre all'accertamento dei fatti, l'apprezzamento della loro rilevanza rispetto alle incolpazioni appartiene all'esclusiva competenza degli organi disciplinari forensi (si vedano, tra le numerose conformi, le sentenze 19 gennaio 1993, n. 634;
14 aprile 1993, n. 4405;
18 ottobre 1994, n. 8482 10 febbraio 1998, n. 1342;
6 aprile 2001, n. 150
). Fatte queste premesse, le Sezioni Unite ritengono che la decisione impugnata sia immune da censure, sotto i vari profili denunciati nel secondo motivo. In particolare si osserva:

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