Cass. civ., sez. I, ordinanza 15/01/2018, n. 00758
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ORDINANZA sul ricorso 10632/2013 proposto da: e _l B S, elettivamente domiciliata in Roma, via Cola di Rienzo, n. 180, presso lo studio dell'avvocato F P, che la rappresenta e difende unitamente all'avvocato B R, giusta procura a margine del ricorso;- ricorrente -contro Comune di Padova, in persona del Vice Sindaco pro tempore, elettivamente domiciliato in Roma, via Nomentana, n. 257, presso lo studio dell'avvocato C A, che lo rappresenta e difende 1 cc»,a_b CAG 4 unitamente agli avvocati L M, M V, M A, giusta procura a margine del controricorso;-controricorrente - avverso la sentenza n. 590/2012 della CORTE D'APPELLO di VENEZIA, depositata il 14/03/2012;udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 27/06/2017 dal cons. DE MARZO GIUSEPPE. FATTI DI CAUSA 1. Per quanto ancora rileva, la Corte d'appello di Venezia, con sentenza depositata in data 14 marzo 2012, accogliendo parzialmente l'appello proposto dal Comune di Padova, ha respinto la domanda risarcitoria proposta nei confronti dell'Amministrazione da S B, G B e G B, quali eredi di C B, e fondata sul rilievo che alcuni fondi (in catasto, al foglio 10, mappali 531 e 535) erano stati occupati in forza di provvedimento dichiarativo della pubblica utilità privo di cenno alcuno ai termini di cui all'art. 13 della I. 25 giugno 1865, n. 2359. 2. La sola S B ha proposto ricorso per cassazione, affidato a tre motivi. Resiste con controricorso il Comune di Padova. La ricorrente ha depositato memoria ai sensi dell'art. 380-bis.1, cod. proc. civ. RAGIONI DELLA DECISIONE 1. Con il primo motivo si lamenta, ai sensi dell'art. 360, comma primo, n. 3, cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione dell'art. 13 della I. 25 giugno 1865, n. 2359, dell'art. 9 della I. 18 aprile 1962, n. 167 e successive modificazioni, nonché dell'art. 1 del Protocollo Addizionale della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, degli artt. 117, 42 e 3 Cost. e dell'art. 6 del Trattato sull'Unione europea.Rileva il ricorrente che una lettura dell'art. 9 della I. n. 167 del 1962, che consentisse alla P.A., così come ritenuto dalla Corte d'appello, di non apporre i termini previsti dall'art. 13 della I. n. 2359 del 1865 nel contesto di un procedimento espropriativo avente ad oggetto aree interne ai P.E.E.P., contrasterebbe con l'art. 1 del citato Protocollo addizionale, imponendo un lettura della disciplina interna coerente con la fonte sopranazionale o la disapplicazione dell'art. 9 della I. n. 167 'del 1962 o, infine, la necessità di investire la Corte costituzionale della questione di legittimità di quest'ultima previsione, per contrasto con gli artt. 117, 42 e 3 Cost. 2. La doglianza è infondata. Come anche di recente ribadito da Cass. 7 gennaio 2011, n. 278, ai sensi dell'art. 9 della I. n. 167 del 1962, l'approvazione dei piani attuativi o di zona dei P.E.E.P. comporta la dichiarazione di pubblica utilità delle opere da realizzare previste in tali piani, per tutta la durata di vigenza di essi - fissata nella legge originariamente in dieci anni e poi elevata a diciotto anni -, entro i quali devono concludersi le procedure ablative e completarsi i lavori, non essendo necessaria, secondo la giurisprudenza nella materia, una espressa ulteriore previsione di tali termini, in ragione della deroga normativa alla regola generale dell'art. 13 della L. n. 2359 del 1865, a cui nessun cenno fa la L. n. 167 del 1962 (v. anche Cass. 19 luglio 1985 n. 4264). Una volta accertato che l'approvazione dei piani di attuazione del P.E.E.P. vale per legge come dichiarazione di pubblica utilità delle opere in esse previste per diciotto anni, tale dichiarazione è valida e legittima, indipendentemente da una espressa previsione dei quattro termini di cui all'art. 13 della I. n. 2359 del 1865, che scadono tutti con la cessazione del periodo di efficacia del piano attuativo e del vincolo per l'esproprio in esso previsto (Cass. 19 febbraio 2009 n. 4027).Siffatto orientamento non si pone in contrasto con le indicazioni della Corte costituzionale, una volta che si inquadri con precisione la portata della decisione richiamata dalla ricorrente. Corte cost. 30 marzo 1992, n. 141, infatti, si occupava della legittimità costituzionale dell'art.
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