Cass. civ., sez. II, sentenza 27/10/2020, n. 23554

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Sul provvedimento

Citazione :
Cass. civ., sez. II, sentenza 27/10/2020, n. 23554
Giurisdizione : Corte di Cassazione
Numero : 23554
Data del deposito : 27 ottobre 2020
Fonte ufficiale :

Testo completo

s. n. 385/1993;
b) il decreto legislativo n. 72 del 2015 è stato emanato dal Governo in attuazione della legge di delegazione 7 ottobre 2014, n. 154, che a sua volta ha recepito e attuato le disposizioni della Direttiva 2013/36/LTE del 26 giugno 2013 "Sull'accesso all'attività degli enti creditizi e sulle impresa di investimento";
c) nessuno dei 165 articoli che compongono la Direttiva si occupa della materia del rito giurisdizionale di impugnazione delle sanzioni rese dalle autorità competenti;
d) la delega, dunque, richiamando le disposizioni della Direttiva, autorizzava il Governo a rivedere la disciplina sostanziale dei presupposti di emanazione delle sanzioni della Banca d'Italia;
non aveva ad oggetto, viceversa, neppure indirettamente, la materia della tutela giurisdizionale avverso le sanzioni irrogate dall'autorità amministrative indipendenti;
e) la Corte Costituzionale, con le pronunce n. 162 del 2012 e n. 94 del 2014, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale delle disposizioni con le quali il Governo aveva proceduto ad attribuire, in difetto di delega, alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo il sistema di tutela giurisdizionale avverso le sanzioni di Consob e di Banca d'Italia. O pertanto, la nuova disciplina in materia di opposizione, applicata dalla Corte d'appello nel giudizio conclusosi con la sentenza impugnata, deve considerarsi viziata per eccesso di delega.

1.1. Il motivo è infondato. L'art. 3, comma 1, lett. i) della legge 7 ottobre 2014 n. 154 (Delega al Governo per il recepimento delle direttive europee e l'attuazione di altri atti dell'Unione europea [...]), delega al Governo, fra gli altri compiti, di «rivedere in modo organico e in coerenza con quanto previsto dalla direttiva 2013/36/UE e con le disposizioni emanate in attuazione del presente articolo, la disciplina delle sanzioni amministrative pecuniarie previste dall'art. 144 e la relativa procedura sanzionatoria. In forza della legge delega, l'art. 1, comma 53, del D.lgs. 12 maggio 2015 n. 72, ha modificato l'art. 145 del D. Lgs. 10 settembre 1993, n. 385 (TUB). La corte d'appello, nel disattendere l'eccezione di incostituzionalità della norma per difetto di delega, ha correttamente rilevato che la rubrica dell'art. 145 del TUB, sia nel testo precedente le modifiche apportate dal D. lgs. n. 72 del 2015 cit., sia nel testo modificato, è "Procedura sanzionatoria". Si legge a pag. 11 del provvedimento impugnato che l'art.145 del d. lgs. n. 385 del 1993 contiene «sia la disciplina dei procedimenti amministrativi che possono sfociare nell'adozione di sanzioni amministrative, sia la disciplina della tutela giurisdizionale (originariamente reclamo in Corte d'appello con giudizi in camera di consiglio). Non si apprezza dunque il segnalato eccesso di delega, il cui rilievo d'altronde andrebbe contro gli interessi dell'incolpato, posto che la disciplina introdotta e ritenuta incostituzionale è di maggior favore per gli incolpati». Tali rilievi sono in linea con la giurisprudenza della Corte, la quale, posta dinanzi a identica questione di costituzionalità, ne ha riconosciuto la manifesta infondatezza, rilevando che «il riferimento del legislatore delegante alla revisione della procedura sanzionatoria va doverosamente interpretato (in senso costituzionalmente conforme: Corte cost. n. 356 del 1996) in riferimento all'art. 145 TUB, che da sempre disciplina sia il procedimento amministrativo che la tutela giurisdizionale contro le sanzioni bancarie. Né le sentenze (Corte cost. n. 162 del 2012 e n. 94 del 2014), richiamate dal ricorrente, hanno dato rimedio ad un riscontrato caso di difetto assoluto di delegazione, bensì alla accertata violazione, da parte del D. Lgs. n. 104/2010 (recante il codice del processo amministrativo), di principi e criteri direttivi contenuti nella legge di delegazione. Laddove, d'altronde, tali pronunce hanno dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'attribuzione al G.A., da parte del D.lgs. n. 104/2010, della giurisdizione sui giudizi di opposizione alle sanzioni irrogate dalla Consob e dalla Banca d'Italia, proprio sul presupposto che tale attribuzione non fosse coerente con il consolidato orientamento della Corte regolatrice, secondo cui la giurisdizione spettava al G.O., in quanto le sanzioni vanno applicate sulla base della gravità della violazione e tenuto conto della recidiva, criteri che non possono ritenersi espressione di discrezionalità amministrativa (Corte cost. n. 162 del 2012)» (Cass. n. 32135 del 2018). Non ci sono ragioni per una considerazione della questione di legittimità costituzionale diversa da quella che emerge dal precedente di legittimità di cui sopra. Si segnala che, in tale precedente, la tesi proposta dal ricorrente trova puntuale confutazione anche nella parte in cui egli ritiene di poter trarre argomento, a sostegno del dubbio di costituzionalità, da Corte cost. n. 162 del 2012 e n. 94 del 2014. 2. Con il secondo motivo («violazione degli artt. 6 della Convenzione EDU e 111 Costituzione, in combinato disposto con gli artt. 115, 187 e 202 ss. c.p.c., in relazione all'art. 360, comma 1, n. 4 c.p.c. Questione di legittimità costituzionale dell'art. 1, comma 53, d. lgs. 12 maggio 2015, n. 72 per la violazione degli artt. 6 della Convenzione EDU, 24 e 111 Costituzione, in relazione all'art. 145 d. lgs. n. 385/1993, come modificato dall'art. 1, comma 53, lett. e-1, d. lgs. n. 72/2015»), il ricorrente si duole perché la corte d'appello, pur essendosi riservata la decisione sulle istanze istruttorie al momento della decisione, ha poi omesso ogni decisione sul punto, senza spendere una parola sulle stesse istanze, «neanche per qualificarle come istanze inammissibili o irrilevanti ai fini della definizione del giudizio» (pag. 11 del ricorso). Così facendo la corte d'appello ha dimostrato di intendere il processo di opposizione non come il luogo nel quale si accertano i fatti posti a fondamento della sanzione, sulla base delle prove offerte, bensì come un giudizio che, incentrandosi sull'atto, non richiede lo svolgimento di una fase istruttoria. L'interpretazione esatta della norma implica invece la ammissibilità di tutte le prove secondo le norme ordinarie del codice di rito. Un modello procedimentale, che non garantisse la pienezza del diritto di difesa, si porrebbe in palese contrasto con la Costituzione e con le norme e i principi di derivazione comunitaria, avuto riguardo alla natura particolarmente afflittiva e sostanzialmente penale delle sanzioni. D'altronde, se fosse esatta l'interpretazione accreditata dalla corte d'appello, e cioè che la natura sommaria del rito implichi il potere del giudice di decidere senza acquisire le prove, sarebbe ampiamente giustificato il dubbio di incostituzionalità della disciplina.

3. Con il terzo motivo, coordinato al motivo precedente («violazione degli artt. 6 della Convenzione EDU e dell'art 48 della Carta dei Diritti Fondamentali dell'Unione Europea in relazione all'art. 360, comma 1, n. 4 c.p.c. Obbligo di sollevare dinnanzi alla Corte di Giustizia dell'Unione Europea, ex art. 276 TFUE, la questione pregiudiziale di interpretazione dell'art 145 del d. lgs. n. 385/1993, in relazione all'art. 48 della Carta dei Diritti Fondamentali dell'Unione Europea»), si sostiene che i principi di derivazione comunitaria non tollerano un sistema normativo tale da attribuire al giudice un potere discrezionale che gli permetta di non dare ingresso ai mezzi istruttori. Se la Corte dovesse condividere la soluzione fatta propria dalla Corte d'appello di Roma unica via d'uscita sarebbe il rinvio pregiudiziale.

3.1. I motivi, da esaminare congiuntamente, sono infondati. Si rileva in primo luogo che la questione della natura penale delle sanzioni previste dall'art. 144 del TUB, negata con giurisprudenza costante dalla Suprema Corte (Cass. n. 16313/2016;
n. 463/2917), non ha la minima incidenza nella valutazione della questione proposta con i motivi in esame. La questione si correla a una fattispecie estremamente semplice da descrivere: la corte d'appello non ha ammesso le prove richieste dall'opponente, pur essendosene riservata la valutazione al momento della decisione della causa, senza dire nulla in merito alle stesse prove richieste. Ebbene, in tale supposta duplice omissione della sentenza (mancata ammissione e assenza di motivazione), è del tutto fuori misura ravvisare il riflesso di una presa di posizione teorica del giudice d'appello sulla natura della fase giurisdizionale del procedimento sanzionatorio, che sarebbe stato concepito quale giudizio sull'atto e non sul rapporto. È altrettanto fuori misura ravvisare nella stessa omissione il riflesso di una opzione interpretativa della norma nel senso che sarebbe preclusa la facoltà delle parti di chiedere mezzi di prova o, correlativamente, che il giudice avrebbe il potere di denegarne l'ammissione in base ad una valutazione discrezionale disancorata dai requisiti di ammissibilità dei mezzi istruttori previsti dal codice di rito. A fugare ogni dubbio su quale sia stata la concezione del giudice d'appello in ordine alla fase giurisdizionale del procedimento sanzionatorio è sufficiente trascrivere quanto si legge a pag. 12 del provvedimento impugnato: «[...] non si è mai dubitato, pur in assenza di una specifica previsione dell'art. 145 TUB, della facoltà della Corte d'appello di disporre e ammettere mezzi istruttori». Insomma, la fattispecie è assai più semplice di quanto i motivi di ricorso vorrebbero accreditare. È successo che la decisione è stata assunta dalla corte d'appello senza ammissione dei mezzi di prova e senza una pronuncia esplicita sulla relativa richiesta. Il solo problema che si pone in casi del genere è se ciò costituisca un vizio della decisione censurabile in cassazione.

4. Il profilo è oggetto di censura con il quarto motivo («violazione di legge e nullità della sentenza impugnata ai sensi dei nn. 3 e 4 del comma 1 dell'art. 360 c.p.c. per violazione del comma 7 dell'art. 183, del comma 6 dell'art. 111 Cost., dell'art. 132, comma 1, n. 4, c.p.c. e del comma 1 dell'art. 118 delle disp. att c.p.c., in relazione alla circostanza che, non contenendo la sentenza impugnata alcuna pronuncia in ordine alle istanze istruttorie del ricorrente, si configura sul punto un difetto assoluto di motivazione e/o una motivazione inesistente anche sotto il profilo materiale e grafico»), con il quale la mancata ammissione dei pezzi di prova è censurata sotto il profilo del difetto di motivazione quale causa di nullità della sentenza.
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