Cass. civ., sez. I, sentenza 13/07/2004, n. 12969
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In tema di liquidazione dell'attivo fallimentare, il verificarsi, prima della emissione del decreto di trasferimento in favore dell'aggiudicatario, delle condizioni previste dall'art. 118, primo comma, numero 2), legge fall. per la chiusura del fallimento, non priva il giudice delegato del potere - dovere di emettere detto decreto, giacché (salvo il potere di sospensione del giudice delegato, ai sensi dell'art. 108, terzo comma, legge fall., ma solo in caso di avvenuta aggiudicazione ad un prezzo notevolmente inferiore a quello giusto) una volta che l'aggiudicatario abbia versato il prezzo, per esso si consolida il diritto al trasferimento coattivo, secondo un principio ricavabile dall'art. 632, secondo comma, cod. proc. civ., applicabile alla vendita fallimentare in virtù del rinvio alle disposizioni del codice di procedura civile dettato dall'art. 105 legge fall.
Il nuovo testo dell'art. 111 Cost., novellato dalla legge costituzionale 23 novembre 1999, n. 2, non impone alcuna interpretazione correttiva della disciplina del reclamo fallimentare tale da richiedere, in nome del principio di imparzialità del giudice posto a garanzia del giusto processo, l'esclusione della partecipazione del giudice delegato al collegio chiamato a decidere del reclamo stesso.
Il vizio di costituzione del giudice "ex" art. 158 cod. proc. civ. è ravvisabile soltanto quando gli atti giudiziali siano posti in essere da persona estranea all'ufficio del giudice, non investita della funzione esercitata dall'ufficio.
La garanzia posta dall'art. 25 Cost., secondo cui nessuno può essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge, va riferita alla competenza dell'organo giudiziario nel suo complesso, impersonalmente considerato, e non incide sulla concreta composizione dell'organo giudicante. (Principio espresso in fattispecie nella quale il giudice delegato al fallimento aveva fatto parte del collegio chiamato a decidere del reclamo proposto avverso un decreto del medesimo giudice delegato; nel proporre tale mezzo, il reclamante, senza proporre una formale istanza di ricusazione del giudice delegato, aveva sollecitato il tribunale ad anticipare, nei limiti della possibile discrezionalità, l'applicazione dei principi ispiratori di una riforma "de iure condendo", la quale esclude che il giudice delegato possa comporre il collegio chiamato a decidere del reclamo).
Sul provvedimento
Testo completo
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. G A - Presidente -
Dott. M G - Consigliere -
Dott. G G - Consigliere -
Dott. D A S - rel. Consigliere -
Dott. D C C - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
COMPANY STELVIO SPA, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA via ANAPO 29, presso l'avvocato D D G, che lo rappresenta e difende unitamente agli avvocati CLAUDIO M e GIOVANNI M, giusta procura in calce al ricorso;
- ricorrente -
contro
FALLIMENTO 56681 STELVIO COMPANY SPA, CIESSECI IMMOBILIARE SRL;
- intimati -
avverso il decreto del Tribunale di ROMA, depositato il 10/10/02;
udita la relaziona dalla causa svolta nella pubblica udienza dal 05/04/2004 dal Consigliare Dott. S D A;
udito per il ricorrente l'Avvocato M, che ha chiesto l'accoglimento del ricorso;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. D C che ha concluso per il rigetto del ricorso. SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
La fallita s.p.a. Stelvio Company proponeva reclamo, in data 27 maggio 2002, avverso i provvedimenti resi dal giudice delegato nella procedura di vendita immobiliare del compendio acquisito all'attivo, chiedendo l'annullamento e la sospensione dell'ordinanza di aggiudicazione, del decreto di trasferimento e di tutti gli altri atti della liquidazione fallimentare con i quali il giudice delegato aveva dapprima aggiudicato e poi trasferito alla Ciesseci Immobiliare s.r.l. uno stabilimento industriale sito in Roma, in particolare, oltre ai decreti di aggiudicazione e di trasferimento, la reclamante indicava espressamente, quale oggetto dell'impugnazione, il provvedimento del 22 maggio 2002 con cui era stata rigettata la quarta istanza di sospensione della vendita, il provvedimento del 16 maggio 2002 con cui era stata autorizzata la trascrizione del decreto di trasferimento, ed i provvedimenti resi sulle istanze presentate dalla reclamante nelle date del 14 febbraio e del 24 marzo 2002. Con decreto del 10 ottobre 2002 il Tribunale di Roma rigettava il reclamo, osservando, per quanto qui ancora interessa, che: 1) la reclamante non aveva tempestivamente impugnato l'ordinanza ex art. 576 c.p.c., con la quale era stata disposta la vendita, ne' le
successive ordinanze ex art. 591 c.p.c. con le quali, per diserzione delle aste, erano stati ordinati nuovi incanti;pertanto, ogni contestazione al riguardo doveva ritenersi preclusa;2) le condizioni per la chiusura della procedura ai sensi dell'art. 118 n. 2 l. fall. non si erano realizzate ne' al momento dell'aggiudicazione disposta all'udienza del 19 febbraio 2002, ne' al momento del trasferimento disposto con decreto del successivo 7 maggio;infatti, la desistenza della s.p.a. S.G.A., cessionaria del credito dell'ISVEIMER ammesso al passivo per lire 12.631.991.909, era pervenuta soltanto il 21 marzo 2002, e perciò dopo l'aggiudicazione, proveniva da un soggetto diverso dal creditore ammesso e non enunciava l'avvenuta estinzione del credito;inoltre, le spese di procedura ed il compenso del curatore non erano stati ancora pagati ed il soggetto che aveva tramesto la desistenza della S.G.A. aveva soltanto manifestato l'intenzione di procedere al pagamento non appena ne fosse stato liquidato l'importo;infine, la chiusura della procedura era impedita dalla ammissione al passivo, in data 15 maggio 2002, di un credito di lire 91.426.236 insinuato tardivamente con domanda proposta in data anteriore all'incanto;3) in ogni caso, con la definitività dell'aggiudicazione, "l'aggiudicatario acquista un ius ad ram sospensivamente condizionato al versamento del prezzo ... il che implica che, una volta versato il prezzo nel termine, il giudice deve emettere il decreto di trasferimento, ancorché si sia, prima del versamento, ma dopo l'aggiudicazione definitiva, verificata l'estinzione del processo";tale principio, desumibile dall'art. 632, 2^ co. c.p.c. ed applicabile al fallimento in virtù del generale richiamo ex art. 105 l. fall., comportava che l'efficacia dell'aggiudicazione definitiva non sarebbe venuta meno neppure con il verificarsi delle condizioni di chiusura del fallimento;4) quanto al mancato esercizio da parte del giudice delegato del potere di sospendere la vendita ai sensi dell'art. 108 l. fall., non erano risultati elementi tali da fare ritenere che il prezzo offerto fosse notevolmente inferiore a quello giusto;in senso contrario, assumevano rilievo i numerosi esperimenti di vendita andati deserti prima dell'aggiudicazione;5) Quanto al mancato esercizio del potere discrezionale di sospensione ai sensi dell'art. 125, 3^ co., l. fall., e in conseguenza della presentazione di una domanda di concordato fallimentare, non solo ogni doglianza era preclusa dalla mancata impugnazione dell'ordinanza di vendita, ma la decisione del giudice delegato era giustificata dall'esito di una precedente proposta, respinta dal Tribunale per la mancata costituzione delle garanzie promesse;6) quanto all'ultima istanza di sospensione, depositata il 16 maggio 2002, si doveva escludere la possibilità di revocare il decreto di trasferimento.
Avverso detto decreto la s.p.a. Stelvio Company propone ricorso per Cassazione, deducendo sette motivi illustrati anche con memoria. Il fallimento e la s.r.l. Ciesseci immobiliare non hanno svolto attività difensiva.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo la ricorrente deduce la violazione degli artt. 23, 25 n. 1 e 26 l. fall., degli artt. 112, 737, 52 e 669 sexies c.p.c. nonché l'omesso esame di una domanda ed il vizio di
motivazione, in particolare, la ricorrente, premesso che con il reclamo avverso i provvedimenti dal giudice delegato aveva chiesto che lo stesso non facesse parte del collegio chiamato a decidere e premesso che tale richiesta doveva intendersi come una formale istanza di astensione o ricusazione del giudice, lamenta la mancata pronunzia del collegio sulla sua richiesta, l'illegittima composizione del collegio, anche alla stregua del nuovo testo dell'art. 111 Cost., e l'illegittima costituzione del collegio ad iniziativa del giudice delegato, assolutamente carente del potere di occuparsi del reclamo prescindendo dalla preventiva costituzione del collegio, con conseguente violazione anche dei principi sul giudice naturale precostituito.
Il motivo è infondato. L'odierno ricorrente, lungi dal presentare una formale istanza di ricusazione del giudice delegato si era limitato a chiedere che del collegio, chiamato a decidere sul reclamo, non facesse parte il giudice delegato e ciò alla stregua dei principi ispiratori della riforma della legge fallimentare. Orbene, poiché questa riforma era ed è soltanto progettata, la richiesta della odierna ricorrente rappresentava una sollecitazione al Tribunale ad anticipare, nei limiti della possibile discrezionalità, l'applicazione dei principi ispiratori di una riforma de iure condendo. Non esisteva, quindi, una domanda di ricusazione in senso proprio sulla quale il collegio dovesse pronunziarsi.
Si deve, poi, escludere la pretesa violazione del principio del giudice naturale, poiché la garanzia posta dall'art. 25 Cost., secondo cui nessuno può essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge, va riferita alla competenza dell'organo giudiziario nel suo complesso, impersonalmente considerato, e non incide sulla concreta composizione dell'organo giudicante (v. Cass. 15 luglio 2002, n. 10219;Cass. 22 aprile 1992, n. 4839;Cass. 3
novembre 1982, 3755). Anche la nullità derivante da vizi relativi alla costituzione del giudice, ai sensi dell'art. 158 cod. proc. civ. si deve escludere;
infatti, secondo la giurisprudenza di questa Corte il vizio di costituzione del giudice ex art. 158 cod. proc. civ. e ravvisabile soltanto quando gli atti giudiziali siano posti in essere da persona estranea all'ufficio del giudice, non investita della funzione esercitata dall'ufficio (v. da ultimo Cass. 20 agosto 2003, n. 12207 e Cass. 27 giugno 2000, n. 8737). Da ciò consegue che, anche annettendo in via di pura ipotesi che debba considerarsi irregolare la partecipazione al collegio, chiamato a decidere sul reclamo, del giudice delegato che ha emesso il provvedimento impugnato, si deve comunque escludere la sussistenza di un vizio di costituzione del giudice per la sicura appartenenza all'ufficio del detto giudice. Con il secondo motivo la ricorrente deduce la violazione degli artt. 23, 25 n. 1, 26 l. fall., e degli artt. 51 n. 4, 52 e 669 terdecies c.p.c. e solleva, in subordine, eccezione di incostituzionalità degli artt. 23, 25 n. 1, 26 l. fall. e dell'art. 51 n. 4 in relazione, oltre che agli artt. 3 e 24 cost., anche all'art. 111 Cost.. In particolare, la ricorrente, richiamando un orientamento
della dottrina, assume che la natura semplificata del procedimento di reclamo, privo di regole processuali precise e predeterminate ne giustifica "una lettura in chiave additiva ... mediante il prelievo proprio dal testo dell'art. 111 Cost. degli elementi che debbono connotare il giusto processo" con conseguente osservanza dei "principi della domanda, del contraddittorio, della parità delle armi, della imparzialità del giudice, dell'obbligo di motivazione e del diritto alla impugnazione", in subordine, la ricorrente eccepisce l'illegittimità costituzionale delle indicate disposizioni, assumendo che proprio la giustificazione normalmente addotta a sostegno della presenza nel collegio del giudice delegato, e cioè l'opportunità di far refluire nella decisione le sue conoscenze non mediate da dati acquisiti nel procedimento, dimostrerebbe la lesione del diritto al contraddittorio ad alla parità delle armi. Il motivo è infondato nella parte in cui ipotizza una nuova disciplina del procedimento applicabile al reclamo avverso i provvedimenti del giudice delegato e ciò in conseguenza della nuova formulazione dell'art. 111 Cost. dettata dalla legge costituzionale n. 2 del 1999. In proposito, è sufficiente rilevare che la Corte
costituzionale, chiamata più volta a pronunziarsi sulle ricadute della nuova formulazione dell'art. 111 Cost. nella materia fallimentare, ha chiarito che, quanto alla tutela del principio di imparzialità-terzietà, da tempo inteso come connaturale alla funzione giurisdizionale, "il novellato art. 111 Cost. non introduca alcuna sostanziale innovazione o accentuazione" (Corte cost. sent. 30 giugno 2003, n. 240;ordinanze n. 75 e 168 del 2002). Se, pertanto, restano valide le considerazioni svolte in anni recenti dalla stessa Corte costituzionale (Corte cost. 6 novembre 1998, n. 363) a proposito della partecipazione del giudice delegato al collegio alla stregua del parametro formale degli artt. 3 e 24 Cost., ma con attenzione precipua al principio di imparzialità per escludere una "compressione del diritto di difesa, cagionata dalla forza della prevenzione", a maggior ragione si deve escludere che dopo la riscrittura dell'art. 111 Cost. si possa ipotizzare la proposta "Iattura in chiave additiva" della disciplina del reclamo fallimentare.
In mancanza, come si è visto nell'esame del primo motivo, di una formale istanza di ricusazione, l'eccezione di illegittimità costituzionale della disciplina che consente la partecipazione al collegio del giudice delegato che ha emesso il provvedimento impugnato è irrilevante, prima ancora che essere manifestamente infondata (in questo senso, del resto, già Cass. 16 aprile 2004, n. 6010) per le ragioni indicate nell'esame del primo profilo del motivo. Infatti, come questa Corte ha già avuto modo di chiarire, la pretesa incompatibilità del giudice delegato a far parte del collegio non potrebbe mai determinare nullità della sentenza deducibile in sede d'impugnazione, ma potrebbe dar luogo soltanto all'esercizio del potere di ricusazione, che la parte interessata ha l'onere di far valere nelle forme e nei termini di cui all'art. 52 c.p.c. (v., in materia fallimentare, Cass. 23 aprile 1998, n. 4187;Cass. 7 maggio 1999, n. 4584;Cass. 10 giugno 1999, n. 5734). Nella specie tale onere non è stato assolto, con la conseguente irrilevanza della questione prospettata.
Con il terzo motivo la ricorrente deduce la violazione dagli artt. 591 a 586 c.p.c., dagli artt. 105 ss. e 26 l. fall. nonché il vizio di motivazione, lamentando che erroneamente il Tribunale avrebbe ritenuto preclusa la doglianza relativa all'ordinanza di vendita ad a quella con la quali sono stati disposti i successivi incanti, il reclamo, infatti, secondo la ricorrente, denunciava vizi di nullità rilevabili anche d'ufficio rispetto ai quali non sussiste la preclusione.
Il motivo è inammissibile per genericità della censura poiché la ricorrente non indica quali siano i pretesi vizi rilevabili d'ufficio denuaziati con il reclamo.
Con il quarto motivo la ricorrente deduce la violazione degli artt. 118 n. 2, 119 e 105 l. fall. nonché il vizio di motivazione, lamentando che il Tribunale aveva escluso la sussistenza dei presupposti per la chiusura del fallimento e per il conseguente diniego del decreto di trasferimento in favore dell'aggiudicatario, a tal fine erroneamente affermando: 1) l'esistenza di un diritto dell'aggiudicatario definitivo al trasferimento del bene, atteso che l'attività di liquidazione era continuata malgrado le istanze per la revisione della stima e per la sospensione;2) l'insufficienza, ai fini della chiusura, della desistenza del cessionario del credito ammesso;3) l'insufficienza, agli stasai fini, dell'istanza con cui la fallita aveva chiesto al curatore di depositare il conto delle spese e degli onorari per provvedere al loro pagamento;4) l'impossibilità di chiudere il fallimento per la pendenza di una domanda di insinuazione al passivo.
Il motivo è infondato. Secondo la tesi del ricorrente, il verificarsi, prima della emissione del decreto di trasferimento, delle condizioni previste dall'art. 118 n. 2 l. fall. per la chiusura del fallimento priverebbe il giudice delegato del potere di emettere detto decreto. L'assunto, come ha esattamente rilevato il provvedimento impugnato, è contraddetto dal disposto dell'art. 632, 2^ co., cod. proc. civ. secondo cui, "se l'estinzione del processo si verifica ... dopo l'aggiudicazione o l'assegnazione, la somma ricavata è consegnata al debitore";da ciò si desume, quindi, che alla stregua della disciplina del codice di rito gli effetti della vendita restano fermi ed il giudice dell'esecuzione è tenuto ad emettere il decreto di trasferimento in favore dell'aggiudicatario anche ipotizzando una estinzione avvenuta per rinuncia agli atti da parte dei creditori, in quanto direttamente soddisfatti dal debitore. Da tale disposizione questa Corte ha tratto il principio che l'aggiudicatario, nel momento in cui la sua offerta diviene definitiva per il decorso del termine di dieci giorni previsto dall'art. 584 cod. proc. civ. per le offerte dopo l'incanto, acquista un vero e proprio diritto al trasferimento coattivo del bene sospensivamente condizionato al versamento del prezzo (Cass. 18 gennaio 1983, n. 413 Cass. 11 giugno 1983, n. 4030;Cass. 16 giugno 1988, n. 4101 Cass. 23 luglio 1993, n. 8236). Tale principio deve ritenersi applicabile anche alle vendite fallimentari, in virtù del rinvio alle disposizioni del codice di procedura civile dettato dall'art. 105 l. fall., considerato che manca nella legge fallimentare una diversa o incompatibile disciplina. In contrario, non assume rilievo il potere, attribuito al giudice delegato dall'art. 108 l. fall., di sospendere la vendita quando ritiene che il prezzo offerto sia notevolmente inferiore a quello giusto, in proposito, va dato atto che secondo la costante giurisprudenza di questa Corte il potere di sospensione può essere esercitato anche dopo il versamento del prezzo, sino al momento della emissione del decreto di trasferimento (v. da ultimo Cass. 29 agosto 2003, n. 12701;Cass. 1^ dicembre 1998, n. 12185). È anche vero, tuttavia, che un identico potere di sospensione è stato attribuito al giudice dell'esecuzione dall'art. 586 cod. proc. civ. nel testo modificato dall'art. 19 bis del d.l. 13 maggio 1991, n. 152 e convive con il ricordato consolidamento dal diritto al trasferimento coattivo. Nè può ritmarsi contraddittoria una disciplina dall'esecuzione in base alla quale, da un lato, la vendita coattiva si conclude con il trasferimento, anche se prima di esso i creditori sono stati soddisfatti e, dall'altro, il giudice dell'esecuzione conserva sino al trasferimento il potere di sospendere la vendita, il legislatore, infatti, ha evidentemente ritenuto che il soddisfacimento dell'interesse pubblico all'efficienza del sistema delle vendite coattive debba comportare la prevalenza dell'interesse dell'aggiudicatario ad ottenere il trasferimento, dopo la partecipazione ad una valida procedura, rispetto all'interesse del debitore a mantenere la proprietà del bene aggiudicato, con il solo limite dell'aggiudicazione ad un prezzo che non sia notevolmente inferiore a quello giusto;detto limite, valutabile discrezionalmente dal giudice, opera normalmente sia in favore dei creditori che in favore del debitore (ma nel caso in esame soltanto in favore del secondo, visto che i primi sono stati soddisfatti).
Esclusa la possibilità di non emettere il decreto di trasferimento al verificarsi delle condizioni previste dall'art. 118 n. 2 l. fall., restano assorbiti gli ulteriori profili del motivo. Con il quinto motivo la ricorrente deduce la violazione degli artt. 108, 3^ co., l. fall. e 586 c.p.c. nonché il vizio di motivazione, lamentando il mancato esercizio del potere di sospensione della vendita, senza tenere conto con il bene in vendita era diventato diverso da quello descritto nel bando di vara e ciò sia per il mutamento di destinazione sia per la sanatoria degli abusi edilizi. Il motivo è inammissibile. I mezzi di tutela offerti agli interessati nelle procedure fallimentari, contro i provvedimenti del giudice delegato inerenti alla vendita dei beni acquisiti alla massa, corrispondono a quelli esperibili nel processo di esecuzione singolare disciplinato dal codice di rito, salva la necessaria coordinazione, per cui in luogo dell'opposizione agli atti esecutivi, prevista dall'art. 617 c.p.c., va proposto il reclamo ex art. 26 l. fall. (v. Cass. 16 febbraio 1999, n. 1302;Cass. 2 maggio 1997, n.
3796;Cass. 3 marzo 1995). Da ciò consegue ulteriormente (Cass. 17 maggio 2000, n. 6386;Cass. 20 agosto 1997, n. 7764;Cass. 21 ottobre 1993, n. 10421;Cass. 23 aprile 1992, n. 4893) che il ricorso per Cassazione ai sensi dell'art. 111 Cost. è ammissibile, anche indipendentemente dai requisiti della definitività e decisorietà (v., comunque, ex multis, nel senso della sussistenza dei detti requisiti nella materia in esame, Cass. 10 dicembre 1991, n. 13258;Cass. 29 gennaio 1992, n. 930;Cass. 27 febbraio 1992, n. 2420;Cass. 20 giugno 1995, n. 6966;Cass. 29 agosto 1998, n. 8666;Cass. 4
agosto 2000, n. 10266), per la stessa ragione per cui nel procedimento esecutivo individuale e annesso contro la sentenza pronunciata ai sensi degli artt. 617 e 618 c.p.c., e cioè perché la pronuncia sul reclamo risolve un incidente di tipo cognitorio sulla ritualità dell'atto esecutivo del giudice delegato. Poiché, tuttavia, il ricorso straordinario ex art. 111 Cost. è ammissibile soltanto per violazione di legge, il motivo proposto è inammissibile poiché deduce una censura di fatto.
Con il sesto motivo la ricorrente deduce la violazione degli articoli 125 e 108, 3^ co., l. fall., a degli artt. 586, 1^ co. e 487, 1^ co. c.p.c. nonché il vizio di motivazione, assumendo che la discrezionalità del Tribunale in ordine alla sospensione della liquidazione, in conseguenza della presentazione di una proposta di concordato, non ha carattere assoluto, dovendo tenere conto della serietà della proposta, della offerta di garanzie, non essendo necessario che le stesse siano prestate prima dell'omologazione, e della progressiva diminuzione del passivo.
La censura resta assorbita dalla ritenuta inammissbilità del terzo motivo. Come riferito in narrativa, il decreto impugnato ha rigettato il reclamo, quanto alla mancata sospensione dalla liquidazione in relazione alla presentazione di una demanda di concordato, indicando due distinte rationes decidendi, dalla quali la prima, fondata sulla preclusione per la mancata impugnazione dell'ordinanza di vendita, non è stata adeguatamente censurata quanto all'affermato effetti preclusivo ed è da sola sufficiente a sorreggere la decisione. Con il settimo motivo la ricorrente deduce la violazione dell'art. 2029 c.c., degli artt. 487, 570 ss., 586 e 584 c.p.c. e degli artt. 105 e 108 l. fall., nonché il vizio di motivazione, lamentando che
erroneamente il Tribunale aveva ritenuto che la sospensione della liquidazione dall'attivo fosse preclusa dalla emissione del decreto di trasferimento, atteso che tale decreto era stato impugnato tanto per vizi propri quanto per vizi anteriori del procedimento. Il motivo è inammissibile per genericità della censura poiché la ricorrente neppure indica i pretesi vizi del decreto di trasferimento.