Cass. civ., SS.UU., sentenza 04/05/2004, n. 8436

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Sul provvedimento

Citazione :
Cass. civ., SS.UU., sentenza 04/05/2004, n. 8436
Giurisdizione : Corte di Cassazione
Numero : 8436
Data del deposito : 4 maggio 2004
Fonte ufficiale :

Testo completo

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. G A - Primo Presidente f.f. -
Dott. P G - Consigliere -
Dott. M A - Consigliere -
Dott. P R - Consigliere -
Dott. N G - rel. Consigliere -
Dott. DI N L F - Consigliere -
Dott. G G - Consigliere -
Dott. R F - Consigliere -
Dott. E S - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:

SENTENZA
sul ricorso proposto da:
DE S R, elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE G.

MAZZINI

11, presso lo studio dell'avvocato R T, che lo rappresenta e difende, giusta delega in calce al ricorso;



- ricorrente -


contro
CONSIGLIO NAZIONALE FORENSE, CONSIGLIO DELL'ORDINE DEGLI AVVOCATI DI ROMA, PROCURATORE GENERALE PRESSO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE;



- intimati -


avverso la decisione n. 253/03 del Consiglio nazionale forense di ROMA, depositata il 17/09/03;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica Udienza del 19/02/04 dal Consigliere Dott. G N;

udito l'Avvocato R T;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

PMIERI

Raffaele che ha concluso per l'inammissibilità del ricorso in subordine il rigetto.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Il Consiglio dell'Ordine degli Avvocati di Roma, a seguito di nota in data 16 marzo 1999, con la quale il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Roma lo informava di avere richiesto il rinvio a giudizio, per il reato di associazione per delinquere, nei confronti dell'Avv. Roberto D S, procede disciplinarmente a carico del predetto avvocato per gli stessi fatti oggetto del procedimento penale, in quanto, ai sensi dell'art. 38 R.D.L. 27 novembre 1933, n. 1578, lesivi delle prerogative e delle funzioni di
un appartenente all'ordine forense e non conformi alla dignità e al decoro professionale.
Si contestava all'Avv. D S di essersi associato ad altri, allo scopo di compiere più delitti contro la fede pubblica e il patrimonio ed, in particolare, di falso e di truffa o tentata truffa, attraverso la creazione di un'inesistente Cassa di Mutualità Artigiani, nell'ambito della quale l'incolpato fungeva da presunto legale della Cassa e che provvedeva ad emettere falsi certificati di deposito al portatore di importi elevati nonché ad attestare la genuinità degli stessi certificati di deposito attraverso la formazione di falsa documentazione, apparentemente proveniente dalla Banca di Roma, che asseverava l'esistenza dei depositi, al fine di ottenere da istituti di credito italiani ed esteri linee di credito, anticipazioni o creazioni di liquidità sulla base delle indicate inesistenti garanzie di disponibilità economiche. Il procedimento, sospeso in attesa dell'esito del giudizio penale, fu ripreso dopo la definizione in primo grado del giudizio penale, in esito al quale l'Avv. D S, con sentenza da lui impugnata, era stato riconosciuto responsabile del delitto contestatogli e condannato alla pena di anni tre di reclusione.
Con deliberazione del 6 giugno 2002 il C.O.A. di Roma affermò anche la responsabilità disciplinare dell'incolpato, infliggendogli la sanzione della cancellazione dall'albo.
L'Avv. D S propose ricorso ed il Consiglio Nazionale Forense, con sentenza in data 29 maggio - 17 settembre 2003 lo ha rigettato. Nel confutare la tesi difensiva sostenuta dall'incolpato, il quale al rapporto avuto con l'inesistente Cassa di Mutualità Artigiani ed al fatto che la stessa avesse avuto sede presso il suo studio attribuiva la giustificazione di un contratto di consulenza legale con la Cassa, il giudice disciplinare ha rilevato che la tesi era risultata priva di alcun conforto probatorio, poiché ne' l'Avv. D S era stato in grado di fornire elementi che provassero sia il preteso rapporto di consulenza sia il preteso rapporto locativo ne' elementi in tal senso erano stati reperiti nel corso della perquisizione di P.G. operata nel suo studio, in sede di indagini penali.
Tale rilievo, ha rimarcato il C.N.F., ancor più decisivo risultava se si considerava che lo stesso incolpato riconosceva che il suo studio era servito alla Cassa come base logistica dei propri affari ed a terzi come punto di riferimento per lo svolgimento di attività rivelatesi illecite.
L'esser venuto meno a tale onere probatorio, ad avviso del C.N.F., finiva col corroborare l'ipotesi della consapevolezza, da parte del D S, di far parte di un sodalizio criminoso, ipotesi che, peraltro, trovava conforto in dichiarazioni rese dall'incolpato in sede di sommarie informazioni nel giudizio innanzi al C.O.A. nonché in documenti e testimonianze acquisiti nel corso dell'indagine penale, oltre che in fase dibattimentale, sicché, in esito ad una valutazione di tali risultanze operata in modo autonomo rispetto alla valutazione compiuta dal giudice penale, era consentito di escludere che il D S avesse agito con leggerezza, senza rendersi conto di quanto di delittuoso veniva perpetrato nel suo studio. Al contrario, il giudice disciplinare ha tratto dal complessivo quadro probatorio, composto anche da significative ammissioni fatte dall'incolpato, il convincimento che questi fosse "consapevolmente e attivamente partecipe dell'attività - in seguito riconosciuta come truffaldina - architettata dalla Cassa di Mutualità Artigiana che egli ospitava gratuitamente nel proprio studio professionale, attività dal medesimo ampiamente agevolata quando non addirittura fatta propria".
Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso l'Avv. D S, affidandosi ad un unico motivo.
Gli intimati non hanno svolto attività difensive.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Il ricorrente censura la sentenza impugnata per eccesso di potere e violazione di legge nonché per difetto di motivazione, adducendo, in primo luogo, che il C.N.F. ha aprioristicamente condiviso le argomentazioni svolte dal giudice penale in primo grado, senza neppur considerare l'esistenza di un formale appello proposto avverso la sentenza del Tribunale, al cui contenuto esso ricorrente si richiama, ritenendo che i relativi motivi, al pari dei motivi del ricorso proposto avverso la decisione del C.O.A., facciano parte integrante del presente ricorso.
In particolare, il ricorrente si duole di carenza della motivazione della decisione impugnata, nella parte in cui, disattendendo la tesi difensiva di una condotta improntata a leggerezza, perviene all'affermazione secondo cui egli sarebbe stato addirittura l'organizzatore ed il punto di riferimento dell'associazione a delinquere, trascurando di considerare che tale reato è caratterizzato da dolo specifico e da concorso necessario. Sicché, deduce il ricorrente, se è vero che il suo studio fu utilizzato per la commissione di attività rivelatesi non lecite, non può ritenersi provato l'elemento psicologico della sua partecipazione all'associazione a delinquere contestata.
Ciò premesso, il ricorrente rileva che: non si è tenuto conto della sua trentennale attività professionale, del suo status di benestante e della sua incensuratezza, che, se tenuti presenti, avrebbero convinto dell'inverosimiglianza della tesi secondo cui tutto ciò potesse essere messo a repentaglio, senza neppure aver tentato di mascherare l'attività illecita svoltasi nel suo studio;
solo indizi sono stati utilizzati per disattendere la sua linea difensiva incentrata sul rapporto di consulenza e di locazione svolto con la Cassa;
è mancata la positiva valutazione del comportamento da lui tenuto allorquando mise a disposizione della P.G. gli originali dei titoli sequestrati il 2 settembre 1998;
nessuna prova esisteva circa la sua consapevolezza dell'apposizione nei titoli dell'indicazione del suo studio;

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