Cass. pen., sez. II, sentenza 21/10/2020, n. 29186

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Il provvedimento analizzato è una sentenza emessa dalla Corte di Cassazione, che ha dichiarato inammissibile il ricorso presentato da un imputato avverso una precedente sentenza della Corte d'Appello di Venezia. Le parti in causa erano l'imputato, che contestava la condanna per estorsione, e la persona offesa, che aveva subito la condotta illecita. L'imputato sosteneva che la sua condotta non integrasse gli estremi del reato di estorsione, ma piuttosto quelli di turbativa d'asta o truffa, argomentando che la minaccia fosse legittima e non ingiusta.

Il giudice ha respinto tali argomentazioni, affermando che la richiesta di denaro come condizione per astenersi dall'esercizio di un diritto legittimo integra gli estremi dell'estorsione, poiché la minaccia, anche se derivante dall'esercizio di un diritto, è finalizzata a ottenere un profitto ingiusto. La Corte ha ribadito che la minaccia non deve necessariamente consistere in un male irreparabile, ma deve essere percepita dalla vittima come tale. Inoltre, ha ritenuto infondate le censure relative alla consumazione del reato e alla mancata applicazione di circostanze attenuanti, evidenziando la gravità della condotta e il danno subito dalla persona offesa.

Sul provvedimento

Citazione :
Cass. pen., sez. II, sentenza 21/10/2020, n. 29186
Giurisdizione : Corte di Cassazione
Numero : 29186
Data del deposito : 21 ottobre 2020
Fonte ufficiale :

Testo completo

o la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da: POLESE CESARE GIOVANNI nato a VILLAFRANCA PADOVANA il 24/12/1960 avverso la sentenza del 29/09/2017 della CORTE APPELLO di VENEZIAvisti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere M M M;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore F Z che ha concluso per l'inammissibilità del ricorso;
udito l'avv. P L che, in difesa di P C G, chiede l'accoglimento del ricorso e, in subordine, il rigetto in luogo dell'inammissibilità.

RITENUTO IN FATTO

La CORTE d'APPELLO di VENEZIA, con sentenza del 29/9/2017 ha confermato la sentenza pronunciata dal TRIBUNALE di PADOVA in data 17/1/2008 nei confronti di POLESE CESARE per il reato di cui all'art. 629 cod. proc. pen.

1. C P è stato rinviato a giudizio per il reato di estorsione per essersi procurato un ingiusto profitto costringendo mediante minaccia D L a versargli la somma di 10.000,00 euro (parte in contanti e parte con una cambiale). In specifico all'imputato è contestato di avere richiesto e ottenuto tale somma dalla persona offesa quale condizione per astenersi -dopo che entrambi avevano partecipato all'asta pubblica di vendita degli immobili pertinenti al fallimento della VE.SMA di L L & c., all'esito della quale la persona offesa era risultata aggiudicataria- dall'effettuare, nei termini di cui all'art. 584 c.p.c. un'offerta di acquisto superiore di un sesto a quella determinata nell'incanto. All'esito del processo di primo grado l'imputato è stato condannato. Avverso la sentenza la difesa ha proposto appello che la Corte ha ritenuto infondato, confermando così la pronuncia di primo grado. La difesa, sia in primo grado che nell'atto e nel giudizio di appello, ha sostenuto il difetto degli elementi costitutivi del reato di estorsione, che sarebbe stato consumato minacciando di esercitare una facoltà legittima, e la qualificazione giuridica dei fatti. Ad avviso della difesa, infatti, la condotta del Polese, piuttosto che il reato di estorsione, configurerebbe il diverso reato di cui agli artt. 353 o 354 cod. pen., turbata libertà degli incanti, o, piuttosto, l'induzione ex art. 115 cod. pen. a commetterlo. Sotto altro profilo, d'altro canto, non essendo mai stato accertato se in effetti il Polese aveva o meno la possibilità e il diritto di fare l'offerta di acquisto, i fatti sarebbero da qualificarsi quale truffa. In ultimo, poi, il reato si sarebbe arrestato allo stato del tentativo, ciò considerato che all'atto della consegna della somma era presenta la polizia giudiziaria, immediatamente intervenuta.

2. Avverso la sentenza della Corte territoriale ha proposto ricorso l'imputato che, a mezzo dei difensori, ha proposto i seguenti motivi.

1.1. Violazione di legge e vizio di motivazione in ordine alla sussistenza degli elementi costitutivi del reato di estorsione. La difesa nel primo motivo rileva che la condotta non sarebbe qualificabile nei termini della minaccia e, quindi, non sarebbe configurabile il reato di estorsione contestato. In specifico si evidenzia che il ricorrente avrebbe prospettato di esercitare una propria legittima facoltà, anche se sgradita alla controparte. Circostanza questa che impedirebbe di ritenere che il male prospettato possa considerarsi ingiusto. Sotto altro profilo, d'altro canto, il reato in concreto configurabile sarebbe quello di cui all'art. 353 o, in caso, 354 cod. pen., fattispecie con le quali i giudici di merito, limitandosi a rilevare la possibilità che i due reati concorrano, non si sarebbero in concreto confrontati. Da ultimo, poi, l'estorsione non sarebbe neanche configurabile nei termini della c.d. estorsione contrattuale in quanto tra le parti non esisteva alcun pregresso rapporto sinallagmatico che, piuttosto, il Polese, con la sua "proposta", voleva costituire ex novo.

1.2. Violazione di legge e vizio di motivazione in ordine possibilità di qualificare i fatti nei termini della truffa.

1.3. Violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento alla ritenuta consumazione del reato di estorsione e al mancato riconoscimento della circostanza attenuante di cui all'art. 62 n. 4 cod. pen. Nel terzo motivo la difesa, ripercorsa e criticata la giurisprudenza di legittimità in ordine alla consumazione del reato anche a seguito di attivazione e presenza della polizia giudiziaria, insiste affinché i fatti siano qualificati quale tentata estorsione. Sotto altro profilo, poi, il ricorrente rileva che la motivazione in ordine al mancato riconoscimento della circostanza attenuante del danno di speciale tenuità, a fronte del fatto che la somma sarebbe rimasta nelle mani dell'imputato per pochi secondi ed era modesta, sarebbe carente.

CONSIDERATO IN DIRITTO

Il ricorso è inammissibile.

1. Nel primo motivo la difesa deduce la violazione di legge e il vizio di motivazione in ordine alla sussistenza degli elementi costitutivi del reato di estorsione. Sotto un primo profilo il ricorrente rileva che la condotta che avrebbe posto in essere, cioè di presentare un'offerta di acquisto ai sensi dell'art. 584 cod. proc. civ., non consentirebbe di qualificare i fatti nei termini dell'estorsione. Avere prospettato di presentare una proposta di acquisto superiore di un sesto alla cifra per la quale la persona offesa si era aggiudicata l'asta, infatti, costituendo l'esercizio di una facoltà legittima, non sarebbe qualificabile come minaccia idonea a coartare la volontà della vittima e il male prospettato non potrebbe ritenersi ingiusto. Sotto altro profilo, poi, il reato in concreto configurabile sarebbe quello di cui all'art. 353 o, in caso, 354 cod. pen., fattispecie con le quali i giudici di merito non si sarebbero in concreto confrontati. In ultima analisi, infine, l'estorsione non sarebbe neanche configurabile nei termini della c.d. estorsione contrattuale in quanto tra le parti non esisteva alcun pregresso rapporto sinallagmatico che, piuttosto, il Polese, con la sua "proposta", avrebbe voluto costituire ex novo. Le doglianze, reiterative di argomenti in relazione ai quali i giudici di merito si sono già adeguatamente e correttamente pronunciati, sono manifestamente infondate.

1.1. In ordine alla qualificazione giuridica il Tribunale e il giudice dell'appello hanno correttamente applicato i principi enucleati dalla pacifica giurisprudenza di legittimità che sul punto ha in più occasioni ribadito che "integra la condotta del delitto di estorsione la richiesta, rivolta da uno dei partecipanti ad un'asta giudiziaria ad un altro concorrente, di una somma di denaro come compenso per l'astensione dalla partecipazione, in quanto la prospettazione dell'esercizio del diritto di prendere parte alla gara, siccome finalizzato al conseguimento di un ingiusto profitto, assume connotazioni minacciose" (Sez. 2, n. 4936 del 27/10/2016, dep. 2017, Stabile e altro, Rv. 268987;
Sez. 2, n. 774 del 28/11/2007, dep. 2008, Beato, Rv. 238904). In tale contesto la minaccia, quale elemento costitutivo del delitto di estorsione, infatti, non richiede necessariamente che la coartazione avvenga mediante prospettazione di un male irreparabile, tale da non lasciare al soggetto passivo alcuna libertà di scelta, essendo sufficiente la prospettazione di un male che, in relazione alle circostanze che lo accompagnano, sia tale da far sorgere nella vittima il timore di un concreto pregiudizio, nella specie consistente nel rendere maggiormente gravosa l'assegnazione del bene, peraltro già aggiudicato. Sul punto, d'altro canto, non assume rilievo la circostanza che la minaccia sia costituita dalla prospettazione di esercitare un diritto o una facoltà prevista dall'ordinamento in quanto l'esercizio del diritto, attività in sé evidentemente non ingiusta, diventa minaccia e assume i connotati dell'estorsione allorché l'esercizio dello stesso è finalizzato al conseguimento di un profitto non dovuto. Situazione questa che si verifica quando, come nel caso di specie, il soggetto, pretendendo dalla controparte un compenso per astenersi dall'esercizio di tale diritto, attribuisce alla propria condotta il significato e le connotazioni tipiche di una minaccia, volta al conseguimento di un profitto non dovuto.

1.2. La corretta soluzione cui i giudici di merito sono così pervenuti rendeva e rende del tutto superfluo l'approfondimento circa la possibilità di qualificare i fatti ai sensi dell'art. 353 o 354 cod. pen. o come induzione a commettere tale reato. Riconosciuta la sussistenza degli elementi costitutivi del reato di estorsione, infatti, ogni ulteriore considerazione circa la sussistenza o meno di un ulteriore e diverso reato, non contestato e che al limite concorrerebbe con quello correttamente ritenuto, appare del tutto irrilevante.

1.3. Il riferimento alla c.d. estorsione contrattuale contenuto nell'atto di ricorso è inconferente. Con la locuzione "abuso del diritto", infatti, il giudice dell'impugnazione non ha rinviato a situazioni o posizioni derivanti da un rapporto contrattuale esistente tra le parti ma ha inteso fare riferimento alla possibilità, pacificamente riconosciuta dalla giurisprudenza di legittimità, che la minaccia estorsiva sia costituita dalla prospettazione di esercitare un diritto o una facoltà al solo fine di ottenere un vantaggio ingiusto.
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