Cass. civ., sez. IV lav., sentenza 05/03/2015, n. 4461

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Al contratto di agenzia non può applicarsi in via analogica l'art. 1736 cod. civ., in tema di contratto di commissione, poiché la responsabilità dell'agente per lo "star del credere" è disciplinata in modo specifico dall'accordo economico collettivo 20 giugno 1956, reso obbligatorio "erga omnes" dal d.P.R. 16 gennaio 1961, n. 145 (che limita la responsabilità dell'agente senza ulteriore compenso al venti per cento della perdita subita dal preponente), ovvero dalla più favorevole disciplina posta nei successivi accordi collettivi del settore qualora le parti vi abbiano aderito.

Sul provvedimento

Citazione :
Cass. civ., sez. IV lav., sentenza 05/03/2015, n. 4461
Giurisdizione : Corte di Cassazione
Numero : 4461
Data del deposito : 5 marzo 2015
Fonte ufficiale :

Testo completo

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. L A - Presidente -
Dott. N V - Consigliere -
Dott. D A - Consigliere -
Dott. L M - rel. Consigliere -
Dott. T I - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:

S
sul ricorso 18775/2013 proposto da:
SEGAFREDO ZANETTI S.P.A. C.F. 00895860377, in persona del legale rappresentante pro tempore elettivamente domiciliata in ROMA, CORSO VITTORIO EMANUELE II N. 269, presso lo studio dell'avvocato V R, che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati ANNA MARIA MINNUCCI, P C, giusta delega in atti;



- ricorrente -


contro
MRIGI LUIGI C.F. MRGLGU53R20H199E, elettivamente domiciliato in ROMA, VIAQ, B.

BUOZZI

99, presso lo studio dell'avvocato D'ALESSIO ANTONIO, che lo rappresenta e difende unitamente all'avvocato N A, giusta delega in atti;



- controricorrente -


avverso la sentenza n. 985/2011 della CORTE D'APPELLO di BOLOGNA, depositata il 02/08/2012 R.G.N. 749/2005;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 27/11/2014 dal Consigliere Dott. M L;

udito l'Avvocato V R;

udito l'Avvocato ALESSANDRI NICOLA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

MATERA

Marcello, che ha concluso per l'accoglimento del ricorso per quanto di ragione.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
La Corte d'Appello di Bologna, con sentenza depositata il 2 agosto 2012, in parziale riforma della pronuncia del Tribunale di Forlì in data 22 novembre 2004, determinava il diritto di M Luigi nei confronti della Segafredo Zanetti s.p.a. alle ulteriori provvigioni maturate in relazione al rapporto di agenzia inter partes di cui ai contratti 16/10/82 ed 1/1/87 per il periodo maggio-giugno 2000 ed al pagamento della somma di Euro 15.000,00 a titolo di corrispettivo per lo star del credere. La Corte territoriale respingeva altresì le ulteriori doglianze spiegate dal M in via incidentale nonché l'appello principale interposto dalla società, inteso a conseguire l'accertamento della violazione da parte dell'agente, del patto di non concorrenza e la condanna alla restituzione degli importi erogati in corrispettivo del patto medesimo.
Nel pervenire a tali conclusioni la Corte di merito osservava essenzialmente, quanto al gravame spiegato in via principale dalla Segafredo Zanetti s.p.a., che alla luce delle acquisizioni probatorie in atti, non era emersa una violazione del patto di non concorrenza da parte del M il quale non aveva operato nella medesima zona e nei confronti della medesima clientela della committente. Quanto al ricorso proposto in via incidentale, poneva in rilievo che la clausola dello star del credere era stata pattuita contrattualmente e non si erano palesate ragioni ostative alla sua applicazione, laddove gli accertamenti peritali di natura contabile, avevano evidenziato la debenza in favore dell'agente, dell'ulteriore importo di Euro 3.946,57 rispetto a quanto liquidato al giudice di prima istanza. Per la cassazione di tale decisione ha proposto ricorso la società Segafredo Zanetti formulando sette motivi illustrati da memoria ex art. 378 c.p.c., e resistiti con controricorso dal M. MTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo si denuncia violazione o falsa applicazione dell'art. 1746 c.c., nonché delle disposizioni di cui agli A.E.C. 1956-1979 rispettivamente artt. 7 e 8.
La ricorrente, per quel che qui interessa, si duole della statuizione di condanna emessa dalla Corte territoriale in ordine al pagamento del compenso dello star del credere, sull'essenziale rilievo che alla luce delle disposizioni oggetto di richiamo, in assenza di una esplicita pattuizione in proposito e della prova di una volontà delle parti in tal senso, non poteva essere liquidato in favore dell'agente, alcuna somma.
Con il secondo mezzo di impugnazione, in via di subordine, si denuncia omessa o insufficiente motivazione sempre in relazione alla decisione in tema di compenso relativo allo star del credere, per avere la Corte distrettuale omesso di indicare gli elementi dai quali aveva tratto il proprio convincimento circa l'esistenza di una esplicita previsione contrattuale della clausola. Fondato è il primo motivo di ricorso.
Esigenze di un ordinato iter motivazionale, inducono a delineare, preliminarmente, taluni cenni in ordine allo star del credere, istituto storicamente peculiare del rapporto di commissione cui originariamente ineriva. Si trattava, invero, di una forma di garanzia data al committente dal commissionario cui solo erano note la persona e la solvibilità del terzo contraente.
Lo star del credere, già previsto come ipotesi pattizia dal codice di commercio, ha trovato ingresso nel codice civile del 1942 che, all'art. 1736 c.c., fa ad esso espresso riferimento configurandolo come ipotesi pattizia e statuendo che il commissionario risponde nei confronti del committente dell'esecuzione dell'affare, avendo nel contempo un diritto ad uno speciale compenso o ad una maggiore commissione.
In tale prospettiva il commissionario, in quanto mandatario del committente, per conto del quale agisce, si fa garante nei suoi confronti della "bonitas" del terzo contraente. Di qui, la natura fidejussoria che la prevalente dottrina conferisce all'istituto dello star del credere in relazione al contratto di commissione. Nel contratto di agenzia, al quale l'istituto dello star del credere è stato esteso, invece, esso non è disciplinato specificamente e direttamente dal codice civile, essendo regolato come istituto eventuale e pattizio dagli Accordi Economici Collettivi che ne limitano specificamente la misura;
ciò diversamente dal contratto di commissione, in cui lo star del credere, per quanto innanzi detto, inerisce normalmente al rapporto in virtù di usi o di accordi contrattuali, costituendo una garanzia totale per l'adempimento delle obbligazioni del terzo.
Autorevole dottrina non manca, poi, di rilevare, quale ulteriore motivo di discrimine in ordine alla funzione dell'istituto in parola nell'ambito dei diversi contesti negoziali ai quali si è fatto riferimento, come nel contratto di agenzia, lo star del credere si atteggi quale penale per il comportamento negligente dell'agente che ha procurato affari con terzi risultati inadempienti, con cui viene definito il risarcimento del danno sofferto per l'inadempimento da parte del terzo.
In definitiva, l'agente è tenuto allo star del credere, esclusivamente per patto, ed in ottemperanza alle norme degli Accordi Economici Collettivi aventi efficacia erga omnes (art. 7 A.E.C. 20 giugno 1956) secondo cui l'onere pattuito a carico dell'agente non può superare il 20% della perdita subita dal preponente, misura ridotta dagli accordi economici collettivi aventi validità di convenzione privatistica (9 giugno 1988 settore commercio e 16 novembre 1988 settore industria) nella misura del 15%. Nell'ottica descritta, mette conto considerare che non assume rilievo ai fini della tesi accreditata dall'agente in ordine alla applicabilità alla fattispecie dell'art. 1736 c.c., (e recepita, con apodittica motivazione, dai giudici del gravame), il richiamo contenuto nell'art. 1746 c.c., comma 2, secondo il quale l'agente "deve osservare altresì gli obblighi che incombono al commissionario, in quanto non siano esclusi dalla natura del contratto di agenzia" (nel testo anteriore alla novella di cui all'art.28 1.526 del 1999).
Premesso che nello specifico, rinviene applicazione il testo della disposizione codicistica qui richiamato, atteso che la rinnovata disciplina introdotta dalla L. n. 526 del 2009 - la quale vieta la stipula di un patto che ponga a carico dell'agente una responsabilità anche solo parziale per l'inadempimento del terzo, consentendo eccezionalmente e a precise condizioni, la concessione di apposita garanzia da parte dell'agente per singoli affari - sì applica unicamente ai patti stipulati successivamente alla sua entrata in vigore (vedi Cass. 16 maggio 2012 n. 7644, Cass. n. 15062 del 2008), non possono che riaffermarsi i concetti sinora esposti in ordine alla differenza ontologica dei principi che disciplinano gli istituti del contratto di commissione e di agenzia, ed alla insussistenza dei presupposti per una applicazione in via analogica, delle garanzie approntate dall'art. 1736 c.c.. Si tratta di principi, per quanto innanzi detto, che avvalorati dalla più autorevole dottrina, sono stati ribaditi dalla giurisprudenza prevalente di questa Corte secondo cui (vedi Cass. 19 novembre 1999 n. 12879, 27 novembre 1986 n. 7002, Cass. 18 maggio 1973 n. 1448) "al contratto di agenzia non può applicarsi in via analogica l'art. 1736 c.c., in tema di contratto di commissione, poiché la responsabilità dell'agente per lo "star del credere" è disciplinata in modo specifico dall'accordo economico collettivo 20 giugno 1956, reso obbligatorio "erga omnes" dal D.P.R. 16 gennaio 1961, n. 1450, (che limita la responsabilità dell'agente senza ulteriore compenso al 20% della perdita subita dal preponente), ovvero dalla più favorevole disciplina posta nei successivi accordi collettivi del settore (qualora le parti vi abbiano aderito), che adottano il più ristretto limite del 15% (Cass. 20 aprile 1999 n. 3902). Entro questi limiti risultava contenuta la responsabilità per lo "star del credere" posta a carico del M in entrambi i contratti del 16 ottobre 1982 e del 1 gennaio 1987, in cui su tutti gli affari non andati a buon fine restava convenuto uno star del credere nella misura del 10%.
In mancanza di alcuna esplicita pattuizione del compenso, ed in assenza di prova di una volontà delle parti in tal senso, nessun compenso aggiuntivo è dunque dovuto all'agente per il titolo descritto.
Il primo motivo va pertanto accolto, rimanendo assorbito il secondo e la pronuncia impugnata, incorrendo in vizio di violazione di legge, deve essere riformata con reiezione della domanda proposta dal M, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto ai sensi dell'art. 384 c.p.c.. Con il terzo motivo, si stigmatizza la pronuncia della Corte di merito sotto il profilo della violazione di legge (artt. 99-112 c.p.c. e 2907 c.c.), per avere la Corte distrettuale pronunciato,
senza espressa domanda del M, la riforma della sentenza di primo grado in punto di violazione del patto di non concorrenza, laddove invece il predetto aveva chiesto, in sede di appello incidentale, esclusivamente la riduzione della penale ad equità ex art. 1384 c.c.. Il motivo è infondato ove si consideri, alla stregua del sia pur sintetico iter motivazionale sotteso alla decisione, che la Corte territoriale ha partitamente considerato le censure formulate con ricorso incidentale dal M, e concernenti la reductio ad equitatem della penale per violazione del patto di non concorrenza, respingendole per insufficienza di allegazione (vedi pag. 5 sentenza impugnata), e quelle proposte in via principale dalla società, oggetto, parimenti, di reiezione, non essendo emerso dalle acquisizioni probatorie, che l'agente avesse operato nella medesima zona e nei confronti della medesima clientela.
Con il quarto motivo si censura l'impugnata sentenza, sotto il profilo di violazione di legge ex art. 1751 bis c.c., per aver denegato la violazione del patto di non concorrenza da parte del M ritenendo necessaria la prova di uno sviamento di clientela, ovvero di una trasmigrazione di clientela da una preponente all'altra, laddove, per realizzare la violazione del patto, è sufficiente la dimostrazione che l'agente abbia operato per conto nella nuova mandante, nella stessa zona in cui aveva operato in precedenza.
Con il quinto motivo si denuncia, in via di subordine, vizio di omessa o insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio concernente la prova della violazione del patto di non concorrenza, per non avere la Corte di merito esaminato le risultanze delle prove testimoniali, oggetto di specifica disamina da parte del giudice di prima istanza, alla luce delle quali si imponeva l'evidenza della violazione del patto di non concorrenza stipulato fra le parti. Con il sesto motivo si deduce violazione di legge in relazione all'art. 112 c.p.c., in ordine alla statuizione con la quale si è affermata l'irrilevanza delle statuizioni in ordine alla presunta autonomia del patto di non concorrenza rispetto al contratto fonte del rapporto lavorativo.
Si ribadisce che il patto di non concorrenza, seppur contenuto all'interno del mandato di agenzia, è un accordo a se stante ricorrendo tutti i presupposti di cui all'art. 1325 c.c., di guisa che, essendo stata accertata la violazione del patto di non concorrenza, ed essendo l'unica obbligazione in capo al M, il patto stesso doveva esser dichiarato risolto con effetti ex tunc. Questi tre motivi, che possono trattarsi congiuntamente stante la connessione che li connota, sono privi di pregio.
Va premesso, per una corretta individuazione della normativa di riferimento, che con il D.Lgs. n. 303 del 1991, art. 5, (di attuazione della direttiva n. 86/653/CEE), è stato inserito nel codice civile l'art. 1751 bis, sul patto di non concorrenza, con il seguente testo: "il patto che limita la concorrenza da parte dell'agente dopo lo svolgimento del contratto deve farsi per iscritto. Esso deve riguardare la medesima zona, clientela e genere di beni o servizi per i quali era stato concluso il contratto di agenzia e la sua durata non può eccedere i due anni successivi all'estinzione del contratto";
la suddetta disposizione, in base al D.Lgs. n. 303 del 1991, art. 6 si applica anche ai contratti in corso al 1 gennaio 1990 a decorrere dal 1 gennaio 1994, sicché per i contratti come quelli di cui si tratta, stipulati negli anni 1982 e 1987, non può farsi applicazione dell'art. 2596 c.c., cui la giurisprudenza faceva riferimento in precedenza per la disciplina dei limiti dello svolgimento dell'attività dell'agente per il tempo successivo alla cessazione del contratto di agenzia, in considerazione sia del suo carattere di norma generale sui limiti contrattuali della concorrenza, sia della specialità dell'art. 2125 c.c., la cui normativa, improntata a maggior rigore rispetto a quella
dettata dall'art. 2596 c.c., era considerata non estensibile a contratti diversi da quello di lavoro subordinato, ancorché caratterizzati dalla cosiddetta parasubordinazione, come il contratto di agenzia (vedi Cass. 25 maggio 2012 n. 8295, Cass. 6 novembre 2000, n. 14454;
Cass. 8 novembre 1997, n. 11003). Le critiche formulate dalla ricorrente, che muovono dal richiamo ai dettami di cui all'art. 1751 bis c.p.c., per pervenire alla prospettazione della risoluzione della clausola contrattuale e del diritto a conseguire la restituzione delle provvigioni aggiuntive per tale patto percepite dall'agente durante lo svolgimento del rapporto, vanno disattese, in quanto prive del benché minimo riferimento agli elementi atti a definire il prospettato inadempimento contrattuale (natura del comportamento, tempi, durata, soggetti nei cui confronti sarebbero stati attuati gli atti concorrenziali da parte dell'agente). S'impone, poi, l'evidenza, nell'ambito delle sollevate censure, della omessa rituale prospettazione nel corso del giudizio di merito, del livello di gravità del contestato inadempimento rispetto alle obbligazioni scaturenti dalla clausola negoziale, integrando detto elemento condizione dell'azione di risoluzione che deve essere allegata e dimostrata dalla parte attrice secondo le regole dell'art. 2697 c.c.. Neanche può trascurarsi il rilievo, decisivo per lo scrutinio delle doglianze avanzate dalla società, del principio di non retroattività della risoluzione dei contratti ad esecuzione continuata, che, enunciato dall'art. 1458 c.c., sancisce la retroattività degli effetti risolutivi del contratto, salvo il caso di contratti ad esecuzione continuata o periodica, riguardo ai quali l'effetto della risoluzione non si estende alle prestazioni non eseguite.
Gli effetti retroattivi della risoluzione di un contratto, trovano limite nelle prestazioni già eseguite le quali, data la loro autonomia funzionale, non restano pregiudicate dalla risoluzione del rapporto negoziale, non potendo essere oggetto di alcuna pretesa restitutoria.
In definitiva, sotto tutti i profili delineati, le articolate censure si palesano destituite di fondamento.
Alla luce delle argomentazioni sinora esposte, va quindi accolto il primo motivo di ricorso, assorbiti il secondo e il settimo concernente il governo delle spese. La sentenza impugnata va cassata in relazione alle censure accolte, con reiezione della domanda relativa al compenso per la statuizione dello star del credere, ex art. 384 c.p.c., comma 2, sulla scorta del seguente principio: "al contratto di agenzia non può applicarsi in via analogica l'art. 1736 c.c., in tema di contratto di commissione, poiché la responsabilità
dell'agente per lo "star del credere" è disciplinata in modo specifico dall'accordo economico collettivo 20 giugno 1956, reso obbligatorio erga omnes dal D.P.R. 16 gennaio 1961, n. 1450, (che limita la responsabilità dell'agente senza ulteriore compenso al 20% della perdita subita dal preponente), ovvero dalla più favorevole disciplina posta nei successivi accordi li collettivi del settore qualora le parti vi abbiano aderito".
Infine, l'oscillazione nella decisione tra giudizi di merito e giudizio di legittimità, unitamente alla situazione di reciproca soccombenza delle parti in ordine alle questioni delibate, giustifica la compensazione delle spese inerenti all'intero processo.

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