Cass. civ., SS.UU., sentenza 10/01/2006, n. 141

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Posto che il provvedimento ordinante la liquidazione di una persona giuridica non costituisce giusta causa (ai sensi dell'art. 2119, secondo comma ,cod. civ.) e neppure, di per sé, giustificato motivo di risoluzione del rapporto di lavoro, nel caso di sottoposizione dell'impresa a liquidazione coatta amministrativa, il lavoratore dipendente deve proporre o proseguire davanti al giudice del lavoro le azioni non aventi ad oggetto la condanna al pagamento di una somma di denaro, come quelle tendenti alla dichiarazione di illegittimità del licenziamento o alla reintegrazione nel posto di lavoro, mentre divengono improponibili o improseguibili temporaneamente, ossia per la durata della procedura amministrativa di liquidazione, le azioni tese all'ottenimento di una condanna pecuniaria.

In tema di riparto dell'onere probatorio in ordine ai presupposti di applicazione della tutela reale o obbligatoria al licenziamento di cui sia accertata l'invalidità, fatti costitutivi del diritto soggettivo del lavoratore a riprendere l'attività e, sul piano processuale, dell'azione di impugnazione del licenziamento sono esclusivamente l'esistenza del rapporto di lavoro subordinato e l'illegittimità dell'atto espulsivo, mentre le dimensioni dell'impresa, inferiori ai limiti stabiliti dall'art. 18 della legge n. 300 del 1970, costituiscono, insieme al giustificato motivo del licenziamento, fatti impeditivi del suddetto diritto soggettivo del lavoratore e devono, perciò, essere provati dal datore di lavoro. Con l'assolvimento di quest'onere probatorio il datore dimostra - ai sensi della disposizione generale di cui all'art. 1218 cod. civ. - che l'inadempimento degli obblighi derivatigli dal contratto di lavoro non è a lui imputabile e che, comunque, il diritto del lavoratore a riprendere il suo posto non sussiste, con conseguente necessità di ridurre il rimedio esercitato dal lavoratore al risarcimento pecuniario. L'individuazione di siffatto onere probatorio a carico del datore di lavoro persegue, inoltre, la finalità di non rendere troppo difficile l'esercizio del diritto del lavoratore, il quale, a differenza del datore di lavoro, è privo della "disponibilità" dei fatti idonei a provare il numero dei lavoratori occupati nell'impresa.

Sul provvedimento

Citazione :
Cass. civ., SS.UU., sentenza 10/01/2006, n. 141
Giurisdizione : Corte di Cassazione
Numero : 141
Data del deposito : 10 gennaio 2006
Fonte ufficiale :

Testo completo

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CARBONE Vincenzo - Presidente aggiunto -
Dott. NICASTRO Gaetano - Presidente di sezione -
Dott. CRISTARELLA ORESTANO Francesco - Presidente di sezione -
Dott. MENSITIERI Alfredo - Consigliere -
Dott. ALTIERI NR - Consigliere -
Dott. VARRONE Michele - Consigliere -
Dott. MIANI CANEVARI Fabrizio - Consigliere -
Dott. VITRONE Ugo - Consigliere -
Dott. ROSELLI Federico - rel. Consigliere -
ha pronunciato la seguente:

SENTENZA
sul ricorso proposto da:
RI EF, nella qualità di Commissario Liquidatore dell'I.P.A.S. - ISTITUTO DI PATRONATO PER L'ASSISTENZA SOCIALE, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA PREMUDA 6, presso lo studio dell'avvocato GRAZIANI ALESSANDRO, che lo rappresenta e difende, giusta delega in calce al ricorso;

- ricorrente -

contro
AN CO;

- intimato -

avverso la sentenza n. 43/2002 del Tribunale di REGGIO CALABRIA, depositata il 28/03/2002;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 15/12/2005 dal Consigliere Dott. Federico ROSELLI;

udito l'Avvocato Alessandro GRAZIANI;

udito il P.M. in persona dell'Avvocato Generale Dott. IANNELLI Domenico, che ha concluso per la decisione di accoglimento del terzo motivo, rinvio per il resto ad una sezione semplice.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con ricorso del 18 ottobre 1994 al Pretore di Reggio Calabria, SO NR esponeva di essere stato licenziato per assenza ingiustificata, il 22 giugno precedente, dal datore di lavoro Istituto di patronato per l'assistenza sociale. Assumendo la mancata osservanza delle garanzie procedimentali di cui alla L. 20 maggio 1970 n. 300, art. 7, la concreta assenza di un giustificato motivo e
la violazione di alcune regole contrattuali, l'SO chiedeva che il Pretore dichiarasse l'illegittimità del licenziamento e condannasse l'Istituto alla reintegrazione nel posto di lavoro ed al risarcimento del danno.
Rimasto contumace il convenuto, il Ministero del lavoro disponeva la liquidazione dell'Istituto con D.M. 26 ottobre 1995, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 262 del 9 novembre 1995 e seguito da altro D.M. 17 gennaio 1996, in G.U. n. 26 del 1 febbraio 1996, nel cui art. 3,
era stabilita l'applicazione delle norme in materia di liquidazione coatta amministrativa.
L'SO proponeva appello e con sentenza del 28 marzo 2002 il Tribunale riteneva regolare la notifica dell'impugnazione e, nel merito, ordinava la reintegrazione dell'appellante nel posto di lavoro e dichiarava improseguibili le domande di condanna al pagamento di somme.
Esso riteneva infatti che, posta l'impresa in liquidazione coatta amministrativa, fosse pur sempre proseguibile davanti al giudice del lavoro il processo inteso a conseguire la dichiarazione di illegittimità del licenziamento nonché la reintegrazione. Nel merito il Collegio considerava credibile l'affermazione del lavoratore, resa ai fini della L. n. 300 del 1970, art. 18, comma 1, secondo cui l'Istituto occupava più di sessanta dipendenti, anche per l'assenza di prova contraria da parte del datore di lavoro, che ne era gravato per avere la disponibilità dei relativi mezzi. Contro questa sentenza ricorre per Cassazione Stefano Ribaldi, quale commissario liquidatore dell'Istituto di patronato per l'assistenza sociale.
L'intimato SO non si costituiva.
Con ordinanza del 27 gennaio 2005 la Sezione lavoro di questa Corte, ravvisato un contrasto giurisprudenziale sulla questione della distribuzione dell'onere di provare il numero dei dipendenti dell'organizzazione datrice di lavoro, rimetteva gli atti al Primo Presidente per l'eventuale assegnazione della causa alle Sezioni unite ai sensi dell'art. 374 cod. proc. civ.. Il Primo Presidente decideva in conformità.
Il ricorrente ha depositato memoria.
MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Col primo motivo il ricorrente sostiene la nullità della sentenza impugnata per violazione del R.D. 16 marzo 1942 n. 267, art. 200, essendo stati gli atti processuali, successivi al provvedimento ordinante la liquidazione dell'Istituto datore di lavoro (provvedimento pubblicato sulla Gazzetta ufficiale ai sensi del R.D. cit., art. 197), notificati allo stesso Istituto contumace nella persona del legale rappresentante invece che la commissario liquidatore, unico legittimato a stare in giudizio per tutti i rapporti patrimoniali, ai sensi del capoverso dell'art. 200 cit.. Il motivo non è fondato.
Posto che il provvedimento ordinante la liquidazione di una persona giuridica non costituisce giusta causa (art. 2119 cod. civ., comma 2) e neppure, di per sè, giustificato motivo di risoluzione del rapporto di lavoro, il Tribunale nella sentenza qui impugnata ha creduto di uniformarsi alla massima, più volte enunciata da questa Corte, secondo cui, nel caso di sottoposizione dell'impresa a liquidazione coatta amministrativa, il lavoratore dipendente deve proporre o proseguire davanti al giudice del lavoro le azioni non aventi ad oggetto la condanna al pagamento di una somma di denaro, come quelle tendenti alla dichiarazione di illegittimità del licenziamento o alla reintegrazione nel posto di lavoro, mentre divengono improponibili o improseguibili temporaneamente, ossia per la durata della procedura amministrativa di liquidazione, le azioni intese ad una condanna pecuniaria (Casa. 4 aprile 1998 n. 3522, 27 luglio 1999 n. 8136, 20 luglio 1995 n. 7907, 5 dicembre 2000 n. 15477).
Ciò premesso, il Tribunale ha emesso la sentenza nei confronti dell'Istituto di patronato "in liquidazione coatta amministrativa ed in persona del commissario liquidatore" (così nell'epigrafe) e nella parte narrativa ha espressamente constatato la regolare notifica dell'atto d'appello. Nè dai documenti depositati ora dal ricorrente ai sensi dell'art. 372 cod. proc. civ., comma 1, risulta alcun dato idoneo ad indicare la non regolare formazione del contraddittorio.

2. Col secondo motivo il ricorrente lamenta la violazione degli artt. 414 e 434 cod. proc. civ., sostenendo che, al fine di accertare il
numero dei dipendenti del datore di lavoro e così di dichiarare il diritto dell'appellante alla reintegrazione della L. n. 300 del 1970, ex art. 18, il Tribunale prese in considerazione un documento, ossia
uno statuto dell'ente datore di lavoro, non ritualmente prodotto dal lavoratore-attore in giudizio.
Col terzo motivo il ricorrente deduce la violazione dell'art. 18 cit., e L. 11 luglio 1966 n. 604, art. 8, artt. 2697 e 1218 cod. civ., sostenendo il mancato assolvimento, da parte dello stesso
lavoratore, dell'onere di provare il detto numero di dipendenti, e quindi l'illegittimità dell'ordine giudiziale di reintegrazione.

3. I due motivi, da esaminare insieme perché connessi, non sono fondati.
La questione che il ricorrente sottopone a questa Corte è se la L. 20 maggio 1970 n. 300, art. 18, comma 1, modificato dalla L. 11 maggio 1990 n. 108, art. 1, nel subordinare l'ordine giudiziale di
reintegrazione del prestatore di lavoro illegittimamente licenziato a certe dimensioni dell'organizzazione produttiva datrice di lavoro, commisurate sul numero delle persone occupate (cosiddetto requisito dimensionale), imponga al detto prestatore-attore in giudizio l'onere di provare il requisito, oppure richieda al datore-convenuto in giudizio la prova negativa ossia del non raggiungimento di quelle dimensioni.
Il dato normativo di riferimento, ossia l'art. 18 cit., è il seguente: "Ferme restando l'esperibilità delle procedure previste dalla L. 15 luglio 1966 n. 604, art. 7, il giudice con la sentenza con cui dichiara inefficace il licenziamento ai sensi dell'art. 2 della predetta legge o annulla il licenziamento intimato senza giusta causa o giustificato motivo, ovvero ne dichiara la nullità a norma della legge stessa, ordina al datore di lavoro, imprenditore e non imprenditore, che in ciascuna sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo nel quale ha avuto luogo il licenziamento occupa alle sue dipendenze più di quindici prestatori di lavoro o più di cinque se trattasi di imprenditore agricolo, di reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro. Tali disposizioni si applicano altresì ai datori di lavoro, imprenditori e non imprenditori, che nell'ambito dello stesso comune occupano più di quindici dipendenti, anche se ciascuna unità produttiva, singolarmente considerata, non raggiunge tali limiti, e in ogni caso al datore di lavoro, imprenditore e non imprenditore, che occupa alle sue dipendenze più di sessanta prestatori di lavoro" (comma 1).
"Ai fini del computo del numero dei prestatori di lavoro di cui al comma 1 si tiene conto anche dei lavoratori assunti con contratto formazione e lavoro, dei lavoratori assunti con contratto a tempo indeterminato parziale, per

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