Cass. pen., sez. VI, sentenza 30/03/2023, n. 13461
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Testo completo
a seguente SENTENZA sui ricorsi proposti da C P, nato a Reggio Calabria il 15/12/1979 D S P R, nato a Melito Porto Salvo il 21/12/1976 G A, nato a Reggio Calabria il 01/09/1972 P G, nato a Reggio Calabria il 10/11/1965 avverso la sentenza del 11/11/2021 della Corte di appello di Reggio Calabria visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;udita la relazione svolta dal consigliere A C;udite le richieste del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale P L, che ha concluso chiedendo il rigetto dei ricorsi;uditi i difensori, avv. N P per P C, avv. F C per P R D S e A G, avv. F C e avv. G B A per G P, che hanno concluso per l'accoglimento dei rispettivi ricorsi. RITENUTO IN FATTO 1. Con la sentenza indicata in epigrafe la Corte di appello di Reggio Calabria ha parzialmente riformato quella emessa in data 27 novembre 2018 all'esito di giudizio abbreviato dal G.u.p. del locale Tribunale nei confronti di P C, P R D S, A G e G P, rideterminando la pena applicata al C in -12 anni e 8 mesi di reclusione ed euro 2.200 di multa, al D S in anni 14 di reclusione e 2.400 euro di multa, al G in anni 8 e mesi 8 di reclusione e 1.600 euro di multa ed al P in anni 9 e mesi 4 di reclusione ed euro 1.400 di multa, confermando nel resto la sentenza appellata. In entrambi i giudizi è stata riconosciuta la perdurante attività della cosca D S (capo A), la cui esistenza quale articolazione di vertice del locale di Archi di Reggio Calabria e della struttura unitaria denominata 'ndrangheta era stata già riconosciuta in sentenze passate in giudicato, in base alle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Roberto L e Salvatore A, entrambi operanti nel settore della gestione dei rifiuti e vittime di estorsioni mafiose, i quali avevano attribuito il ruolo apicale al D S, organizzatore, ideatore e protagonista, insieme agli altri due sodali C e P ed a G A, dell'estorsione, contestata al capo B), risultata sistemica e concretamente espressiva dell'interesse della 'ndrangheta nel settore della gestione dei rifiuti, particolarmente appetibile per gli elevati margini di guadagno ricavabili anche dagli ingenti investimenti pubblici. Era stata, infatti, ricostruita la pianificazione dell'intervento della cosca in detto settore, realizzato, nell'ambito della spartizione concordata a livello di vertice della 'ndrangheta, mediante l'infiltrazione nelle società che gestivano il servizio e, in particolare nella Fata Morgana spa, società a capitale misto, partecipata dal Comune di Reggio Calabria, di cui l'A era direttore tecnico, in modo da assumerne il controllo e pilotare ogni attività collaterale, imponendo i fornitori, il personale da assumere e la tangente da corrispondere, minacciando l'A, poi divenuto collaboratore, e offrendogli protezione per l'esercizio dell'attività a Reggio Calabria e negli altri 18 comuni, ove la società operava, senza interferenze, minacce o pretese di altre cosche. L'assunzione di sodali aveva garantito la presenza costante della cosca nella società e il controllo continuo, al punto da risultare che la società era dei D S, come rivendicato dallo stesso D S quando aveva offerto protezione all'A ("quando vengono digli che è roba dei D S, che ci sono i D S").Risultavano delineati i ruoli degli imputati, essendo il C delegato dal D S a riscuotere il provento delle estorsioni al pari del G, assunto come dipendente della società e uomo di fiducia del D S, in grado di intervenire per tacitare le pretese dei B e dirimere controversie con politici o appartenenti ad altre cosche;il P, zio del C, assunto in Fata Morgana, era esecutore delle disposizioni del nipote specie durante la detenzione dello stesso ed era intervenuto sui Nasone di Scilla, ponendo fine alle intimidazioni e alle pretese nei confronti della società. Avverso la sentenza hanno proposto ricorso i difensori degli imputati. 2. Il difensore di Paolo C P ha formulato i seguenti motivi: 2.1 violazione dell'art. 606, comma 1 lett. b) e c) cod. proc. pen. in relazione all'art. 391 bis cod. proc. pen. da cui deriverebbe la nullità dell'avviso di fissazione dell'udienza preliminare e di tutti gli atti successivi per essere stato impedito alla difesa di sentire in sede di indagini difensive i collaboratori di giustizia A e L, rigettando anche la richiesta di incidente probatorio. Nell'atto di appello si contestava la motivazione dell'ordinanza del 2 ottobre 2018 con la quale il G.u.p. aveva dichiarato inammissibile l'eccezione di nullità in base al principio di tassatività e ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 12, comma 2 lett. d) del d.l.n. 8/91 conv. in I. n. 82/91 e degli art. 392, 393, 398 cod. proc. pen. in relazione agli artt. 3, 24 e 111 Cost., atteso che gli argomenti utilizzati risultano in contrasto con il principio del giusto processo e con la parità delle parti processuali poiché le uniche eccezioni all'esercizio dell'attività di indagine difensiva sono quelle previste dal primo comma dell'art. 391 bis cod. proc. pen., sicché l'estensione del divieto di audizione anche alle persone sottoposte a speciali misure di protezione contrasta con la norma e viola il diritto di difesa. Si era evidenziato che la circolare della Direzione Nazionale Antimafia e Antiterrorismo (n.13229/2016 del 18 aprile 2016), richiamata nel provvedimento di rigetto della richiesta di assunzione di informazione dai collaboratori L e A, emesso dalla Direzione Centrale della Polizia Criminale- Servizio di Protezione- non può prevalere sulla norma né violare il principio di legalità dell'azione amministrativa, sancito dall'art. 97 Cost. sicché detta circolare è illegittima. Si sosteneva che anche la disposizione dell'art. 12, comma 2, d.l. n. 8 del 91 che impone al collaboratore che sottoscrive le misure di protezione, pena la revoca delle stesse, di non rilasciare dichiarazioni a soggetti diversi dal P.m., dalle forze di polizia e dal proprio difensore, è illegittima, in quanto, limitando l'attività di indagine difensiva, si risolve nel creare una categoria di soggetti al di sopra della legge e il mancato coordinamento di tale disciplina con la legge n. 397 del 2000 lede i principi costituzionali di cui agli artt. 3, 24 e 111 Cost.;la lesione dei diritti della difesa è resa evidente anche dall'impossibilità di impugnare il rigetto della richiesta di incidente probatorio, non ritenuto atto abnorme. A tali censure la Corte di appello ha risposto in modo semplicistico ed erroneo, richiamando il quarto comma dell'art. 391 bis cod. proc. pen., che vieta di fare domande sui fatti e le notizie riferite alla persona sentita dal P.m., ma non è dato sapere come la Corte potesse conoscere in anticipo il contenuto delle domande che la difesa avrebbe inteso rivolgere al collaboratore. Si segnala che i collaboratori sono stati sentiti in appello su richiesta del P.m. appellante, ma ai difensori non è stato consentito di rivolgere domande su temi diversi dalla posizione degli imputati assolti per i quali vi era appello del P.m., tant'è che il ricorrente è stato costretto a rendere ripetute dichiarazioni spontanee per smentire i collaboratori;è stata, inoltre, rigettata la richiesta di confronto, che avrebbe consentito di verificare l'attendibilità dei collaboratori, in particolare del L, legato da un risalente rapporto di amicizia con il C. 2.2 Violazione dell'art. 606, lett. d) ed e) cod. proc. pen. in relazione agli artt.416 bis cod. pen., 628-629, 416 bis.1 cod. pen. nonché 187 e 192 cod. pen. La motivazione è illogica e congetturale in ordine alla valutazione delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia. La Corte ha ignorato le censure difensive sulla non affidabilità dei dichiaranti;non ha tenuto conto delle dichiarazioni rese dal C in sede di interrogatorio né della mancanza di prova della continuità dei rapporti con il sodalizio anche nel periodo di detenzione dal 2005 al 2009 e del ruolo esecutivo delle disposizioni del D S svolto anche dal carcere. La Corte di appello ha fondato la protrazione della partecipazione del C, già condannato in via definitiva per appartenenza alla medesima associazione sino al 6 aprile 2007, su due colloqui del 21 luglio 2009 nel corso dei quali il C, appena scarcerato, avvisava la madre e L del suo arrivo a Reggio Calabria e il P forniva al L la stessa informazione, illogicamente ricavando da tali conversazioni del tutto neutre la riassunzione del controllo delle società di gestione dei rifiuti per conto del cugino D S. Le dichiarazioni dei collaboratori sono del tutto inidonee a provare la partecipazione del ricorrente all'associazione. La dichiarazione del L circa la confidenza ricevuta dal ricorrente - di essere stato avvicinato nell'estate 2009 da soggetti di vertice della cosca che intendevano investirlo degli affari criminali della famiglia, ma egli non voleva aderire- è generica, non avendo egli indicato alcun soggetto né potendo identificarsi uno dei protagonisti nell'avv. Giorgio D S, in quanto il L ha solo riferito di aver accompagnato nel 2012-2013 il C presso lo studio legale ed è stato documentato il mandato rilasciato al figlio del D S.Anche la motivazione relativa all'incontro organizzato dal ricorrente e svoltosi presso l'abitazione in ristrutturazione del L, ritenuto decisivo ai fini della prova dell'appartenenza all'associazione, è illogica, non avendo la Corte colto le macroscopiche contraddizioni tra le dichiarazioni dei due dichiaranti. A riferisce che l'incontro era stato voluto da persone della fascia ionica per chiarire alcuni suoi comportamenti e nella circostanza il ricorrente lo avrebbe minacciato dicendo "se hai sbagliato ti taglio il collo", ma, mentre il L dichiara di aver assistito >alla scena e di avergli fatto le condoglianze per la perdita della moglie, l'A non riferisce della sua presenza. La Corte ha minimizzato il contrasto, valorizzando la convergenza sull'incontro presso una casa in costruzione, attribuendo credibilità ai collaboratori senza alcuna verifica e approfondimento. Quanto al L si è valorizzato il fatto che avesse iniziato a collaborare spontaneamente, quando era libero e non indagato, accettando le conseguenze, senza considerare che egli aveva motivo di temere di essere coinvolto dalle dichiarazioni dell'A e di essere individuato tra i favoreggiatori della latitanza del D S. La Corte ha valorizzato l'acquisto di campane porta rifiuti mai avvenuto o la costituzione del lavaggio del C all'interno della sua azienda, trascurando che ciò fu frutto di un accordo perché il L era in ritardo sul pagamento degli stipendi. Le dichiarazioni dell'A sono generiche ed interessate perché dirette ad allontanare i sospetti dalle condotte illecite tenute, attribuite agli accusati: a tal fine si era chiesta l'acquisizione del fascicolo fallimentare, negata dalla Corte con conseguente omessa valutazione di una prova decisiva. Anche in relazione al capo B) valgono analoghe censure di illogicità della motivazione. La minaccia indiretta rivolta dal ricorrente e dagli altri imputati all'A per assicurargli protezione e tranquillità non solo a Reggio Calabria ma anche negli altri 18 comuni della Provincia troverebbe origine in un incontro avvenuto tra il 2000-2004 tra P R D S e l'A nel quale il ricorrente non ebbe alcun ruolo, rimanendo estraneo agli accordi in base ai quali l'A sarebbe stato costretto a versare la somma di 1.000-2.000 euro per ogni commessa a partire dal 2002 e 15 mila mensili dal 2005 agli esponenti della cosca D S. Tuttavia, non può trascurarsi che il C è stato detenuto dal 29 novembre 2005 al 21 luglio 2009 ovvero quasi per l'intero arco temporale dell'estorsione e lo stesso A ha dichiarato che all'epoca della scarcerazione del C la società era ormai collassata, sicché non si comprende come il ricorrente possa aver commesso il reato, essendo rimasto indimostrato che avesse impartito ordini e imposto assunzioni dal carcere. Quanto alla imposizione delle assunzioni di P G, G U, R C, dei fratelli V e Z C la Corte non ha tenuto conto delle indagini difensive, del fatto che all'epoca il ricorrente era detenuto e che lo Z rientrava tra il personale riassorbito: pertanto, la tesi accolta in sentenza si scontra con il dato oggettivo della detenzione del ricorrente.
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