Corte Cost., sentenza 25/07/2024, n. 148

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Con la sentenza n. 148 del 25 luglio 2024, la Corte Costituzionale ha dichiarato l'illegittimità costituzionale, per violazione degli artt.2,3, 4, 35, 36, e 117 Costituzione, dell'articolo 230 bis de codice civile, nella parte in cui non prevede come familiare anche il «convivente di fatto» e come impresa familiare quella cui collabora anche il «convivente di fatto» e l'illegittimità costituzionale dell'art. 230-ter codice civile.

Sul provvedimento

Citazione :
Corte Cost., sentenza 25/07/2024, n. 148
Giurisdizione : Corte Costituzionale
Numero : 148
Data del deposito : 25 luglio 2024
Fonte ufficiale :

Testo completo

Ritenuto in fatto

1.- Con ordinanza del 18 gennaio 2024 (reg. ord. n. 36 del 2024) la Corte di cassazione, sezioni unite civili, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 2, 3, 4, 35 e 36 della Costituzione, all'art. 9 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea (CDFUE) ed all'art. 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 8 e 12 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo (CEDU), dell'art. 230- bis

(Impresa familiare), primo e terzo comma, del codice civile, nella parte in cui non include nel novero dei familiari il convivente

more uxorio , e, «in via derivata», dell'art. 230- ter (Diritti del convivente) cod. civ., che «applica al convivente di fatto, che presti stabilmente la propria opera nell'impresa dell'altro convivente, una tutela inferiore rispetto a quella prevista per il familiare».

1.1.- Le questioni sono sollevate nel corso di un giudizio introdotto da I. U., nei confronti dei figli e coeredi di E D, già coniugato con altra donna, di cui esponeva di essere stata stabile convivente dal 2000 sino al decesso avvenuto nel novembre 2012, dinanzi al Tribunale ordinario di Fermo, in funzione di giudice del lavoro, con domanda di accertamento dell'esistenza di una impresa familiare, relativa ad una azienda agricola, e di condanna alla liquidazione della quota spettante quale partecipante all'impresa.

La ricorrente aveva dedotto che la convivenza, iniziata in altra località, era proseguita presso il fondo rustico acquistato dal defunto - acquisto al quale erano via via susseguite altre acquisizioni, la costruzione di una cantina per la produzione del vino nonché l'avviamento di un'attività di ricezione turistica - e di aver prestato attività lavorativa in modo continuativo nell'azienda del convivente dal 2004 (anno di iscrizione del registro delle imprese) fino al 2012.

1.2.- Il Tribunale di Fermo aveva rigettato la domanda rilevando che il convivente di fatto non poteva essere considerato «familiare» ai sensi dell'art. 230- bis , terzo comma, cod. civ.

La Corte d'appello di Ancona, sezione lavoro, aveva confermato il rigetto sull'identico presupposto, escludendo, altresì, l'applicabilità dell'art. 230- ter cod. civ., in quanto il rapporto di convivenza era cessato prima dell'entrata in vigore della legge 20 maggio 2016, n. 76 (Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze), che, con l'aggiunta del suddetto articolo, aveva in parte esteso ai conviventi la disciplina dell'impresa familiare.

1.3.- Con il ricorso per cassazione, la ricorrente ha denunciato la violazione e falsa applicazione dell'art. 230- bis cod. civ., in relazione all'art. 360, primo comma, numero 3), del codice di procedura civile, per la mancata considerazione delle mutate sensibilità sociali in materia di convivenza

more uxorio , oltre che delle aperture della giurisprudenza sia di legittimità e sia costituzionale, che avrebbero consentito di applicare la disciplina dell'impresa familiare anche in mancanza di una norma che lo preveda espressamente, in base ad una lettura costituzionalmente orientata dell'art. 230- bis cod. civ.;
ha dedotto, poi, la violazione degli artt. 230- bis

e 230- ter cod. civ. e dell'art. 11 delle preleggi, dovendosi ammettere una deroga al principio di irretroattività, non presidiato da una norma costituzionale, ove ciò risponda a un criterio di ragionevolezza e di maggior giustizia.

1.4.- La Corte di cassazione, sezione lavoro, con ordinanza interlocutoria, ha chiesto l'intervento nomofilattico delle Sezioni unite al fine di chiarire se l'art. 230- bis , comma terzo, cod. civ. potesse essere evolutivamente interpretato - in considerazione del mutamento dei costumi nonché della giurisprudenza costituzionale e della legislazione nazionale in materia di unioni civili tra persone dello stesso sesso - in chiave di esegesi orientata agli artt. 2, 3, 4 e 35 Cost., nonché all'art. 8 CEDU, nel senso di prevedere l'applicabilità della relativa disciplina anche al convivente

more uxorio , laddove la convivenza di fatto sia caratterizzata da stabilità.

1.5.- Le Sezioni unite rimettenti osservano che la rilevanza delle questioni discendeva dal fatto che solo all'esito di una dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma dubitata, nella parte in cui non include nel novero dei familiari il convivente

more uxorio, si sarebbe determinata la necessità di quell'accertamento in punto di fatto, pretermesso dai giudici di merito, circa l'effettività e la continuità dell'apporto lavorativo nell'impresa familiare determinante ai fini dell'accrescimento della produttività dell'impresa.

1.6.- In punto di non manifesta infondatezza, il giudice

a quo ripercorre la genesi dell'istituto dell'impresa familiare disciplinata dall'art. 230- bis cod. civ., quale superamento della comunione tacita familiare prevista per il settore agricolo dall'art. 2140 cod. civ. previgente, e la sua finalità di conferire una tutela minima a quei rapporti di lavoro comune che si svolgono nell'ambito di aggregati familiari che non possono contare su più specifiche discipline di protezione sia in ambito lavorativo che societario. Ne richiama la natura autonoma, di carattere speciale ma non eccezionale, e residuale rispetto ad ogni altro rapporto negoziale eventualmente configurabile (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 15 giugno 2020, n. 11533);
la forma individuale (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenze 18 gennaio 2005, n. 874 e 15 aprile 2004, n. 7223);
l'incompatibilità con la disciplina societaria (Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenza 6 novembre 2014, n. 23676);
il regime fiscale, con i redditi dei familiari collaboratori definiti di lavoro, e quindi non assimilabili a redditi di impresa (Corte di cassazione, sezione quinta, sentenza 2 dicembre 2008, n. 28558 e ordinanza 20 dicembre 2019, n. 34222);
i diritti che ne derivano, sia di tipo partecipativo sia di tipo economico-patrimoniale, ed i presupposti, quali: a) l'esistenza di una impresa individuale ;
b) la prestazione lavorativa svolta nell'interesse dell'impresa medesima dal familiare, con carattere di continuità, ossia con costanza e regolarità, ma non necessariamente esclusiva;
c) in alternativa, la prestazione di lavoro nella famiglia, ma senza che possa assumere rilevanza la mera attività domestica, essendo sempre necessario un collegamento causale e funzionale con l'attività di impresa.

1.7.- Il rimettente evidenzia poi che la dottrina si era a lungo interrogata sulla possibilità di applicare estensivamente l'art. 230- bis cod. civ. al convivente

more uxorio , valorizzando che l'impresa familiare rappresenta una forma generale di tutela del lavoro prestato per quello spirito di solidarietà che intercorre nei rapporti tra parenti e tra coniugi, sicché anche il convivente stabile ha titolo per partecipare all'impresa familiare in quanto la sua collaborazione lavorativa gratuita nell'ambito di uno stabile rapporto affettivo di coppia trova la sua causa nella stessa solidarietà familiare. Rileva ancora il giudice

a quo che la giurisprudenza, sia di merito che di legittimità, dopo una iniziale chiusura (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenze 29 novembre 2004, n. 22405 e 2 maggio 1994, n. 4204), aveva manifestato una certa inversione di tendenza (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 15 marzo 2006, n. 5632);
che la legge n. 76 del 2016, all'art. 1, comma 36, aveva previsto che «si intendono per "conviventi di fatto" due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un'unione civile», con l'art. 1, comma 46, aveva introdotto l'art. 230- ter cod. civ., secondo il quale: «[a]l convivente di fatto che presti stabilmente la propria opera all'interno dell'impresa dell'altro convivente spetta una partecipazione agli utili dell'impresa familiare ed ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi dell'azienda, anche in ordine all'avviamento, commisurata al lavoro prestato. Il diritto di partecipazione non spetta qualora tra i conviventi esista un rapporto di società o di lavoro subordinato», e con l'art. 1, comma 20, aveva reso applicabile l'art. 230- bis cod. civ. anche all'unione civile.

1.8.- Le Sezioni unite osservano quindi che, nell'attuale disciplina, mentre ognuna delle parti dell'unione civile rientra nell'elenco dei familiari di cui all'art. 230- bis , terzo comma, cod. civ., per il convivente stabile, ai sensi dell'art. 230- ter

cod. civ., opera una tutela minore rispetto a quella del familiare;
che per il principio d'irretroattività di cui all'art. 11 delle disposizioni preliminari al codice civile, come già avvenuto per l'art. 230- bis cod. civ., l'art. 230- ter cod. civ. non può trovare applicazione a situazioni giuridiche definitivamente compiute sotto il regime anteriore alla riforma del 2016, dovendosi poi escludere che la norma, poiché costitutiva di nuovi diritti, sia applicabile in quanto meramente ricognitiva di principi già acquisiti al panorama giuridico vigente;
che, sebbene la disposizione introdotta nel 2016 sia significativa di una estensione delle tutele in favore del convivente di fatto, i due articolati - artt. 230- bis e 230- ter cod. civ. - non risultano perfettamente coincidenti, in quanto il secondo attribuisce al convivente una serie di diritti inferiore a quella riconosciuta al coniuge.

In ogni caso, secondo il giudice

a quo , il riconoscimento del "fatto" della convivenza come una posizione giuridica meritevole di tutela in quanto tale, costituisce un vero e proprio obbligo imposto dalla lettura sistematica delle norme costituzionali (artt. 2, 3, 4, 35 e 36), unionali (art. 9 CDFUE) e convenzionali (art. 8 CEDU), rispetto al quale il legislatore nazionale rimaneva libero, nei limiti della ragionevolezza e dell'effettività, nella scelta della misura dell'intervento,

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