Corte Cost., sentenza 01/06/2004, n. 161
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E' inammissibile, in relazione all'art. 3 Cost., la questione di legittimita' costituzionale dei nuovi artt. 2621 e 2622 cc nella parte in cui a giudizio del giudice rimettente vi e' una irragionevole disparita' di trattamento tra fattispecie contravvenzionale e fattispecie delittuosa quando vi e' un identico "dolo specifico", poiche' la motivazione posta a base dell'assunto e' insufficiente, implausibile e contraddittoria in ordine alla sua rilevanza nel giudizio sospeso.
E' inammissibile, in relazione agli artt. 27, terzo comma, e 3 Cost., la questione di legittimita' costituzionale del nuovo art. 2621 cc, nella parte in cui secondo il rimettente il modulo contravvenzionale, per le caratteristiche oggettive e soggettive del reato, e' trattato meno severamente rispetto ad altri reati di frode anche con riguardo a fatti commessi all'estero che vengono ad avere rilevanza in Italia, in quanto la motivazione dell'ordinanza e' implausibile, insufficiente e contraddittoria.
E' inammissibile, in relazione all'art. 3 Cost., la questione di legittimita' costituzionale del DLG n. 61/2002 e della sua legge delega n. 366/2001, nella parte in cui ai fini della prescrizione dell'illecito penale troppo esigua per il tipo di reato economico contabile secondo la valutazione del giudice a quo, poiche' si esorbita dal contenuto possibile del sindacato costituzionale.
E' inammissibile, in relazione agli artt. 25, secondo comma, 76, 3 e 117, primo comma, Cost., la questione di legittimita' costituzionale del nuovo art. 2621 cc con riguardo alla sua legge delega n. 366/2001, nella parte in cui per il giudice remittente sono previste soglie di punibilita' a carattere "percentuale" in contrasto al principio di riserva assoluta della legge in materia penale anche con riguardo ai principi e criteri direttivi della legge delega, poiche' la possibilita' prospettata dal giudice in ordine all'oblazione della norma con il riespandersi della vecchia disciplina non e' un'attivita' esercitabile dal giudice ad quem.
E' inammissibile, in relazione agli artt. 25 e 3 Cost., la questione di legittimita' costituzionale del nuovo art. 2621, nella parte in cui secondo la prospettazione del giudice il requisito dell'alterazione sensibile della situazione contabile prevista dalla normativa lederebbe il principio di determinatezza del reato, poiche' tale prospettazione inviata con ordinanza non ha alcuna rilevanza nel giudizio sospeso.
Sul provvedimento
Testo completo
Ritenuto in fatto
1.1. - Con l'ordinanza indicata in epigrafe il Giudice per le indagini
preliminari del Tribunale di Forli' ha sollevato questione di legittimita'
costituzionale, in riferimento agli artt. 3, 24, primo comma, e 27, terzo
comma, della Costituzione, degli artt. 2621 e 2622 del codice civile, come
sostituiti dall'art. 1 del decreto legislativo 11 aprile 2002, n. 61
(Disciplina degli illeciti penali e amministrativi riguardanti le societa'
commerciali, a norma dell'articolo 11 della legge 3 ottobre 2001, n. 366).
Il giudice a quo premette, in punto di fatto, che il 4 maggio 2001 l'erede
legittimo del socio di una societa' in nome collettivo, deceduto ab
intestato, aveva sporto "denuncia-querela" nei confronti del fratello -
coerede e "gestore" della predetta societa' - lamentando che questi,
investito della richiesta di liquidazione della propria quota, gli aveva
offerto una somma del tutto inadeguata rispetto al reale valore dell'azienda
sociale. Il denunciante aveva dedotto, altresi', che la "situazione
patrimoniale societaria" presentata dal denunciato "alla Confartigianato di
Cesenatico, per la redazione del bilancio al 31 dicembre 1999", esponeva
dati assai diversi da quelli risultanti dalla dichiarazione di successione
presentata dal medesimo ad un notaio.
Instaurato un procedimento penale nei confronti del denunciato per i reati
di tentata truffa (artt. 56 e 640 cod. pen.) e false comunicazioni sociali
(art. 2621 cod. civ.), il pubblico ministero, all'esito delle indagini,
aveva formulato richiesta di archiviazione, non accolta tuttavia dal giudice
rimettente, che aveva conseguentemente fissato udienza in camera in
consiglio.
Essendo nelle more sopravvenuto il d.lgs. n. 61 del 2002, modificativo delle
disposizioni penali in materia di societa', il denunciante aveva proposto,
in base alla disposizione transitoria di cui all'art. 5 del medesimo decreto
legislativo, querela in ordine al reato di cui al nuovo art. 2622 cod. civ.:
querela che il rimettente ritiene tuttavia priva di ogni effetto per mancata
osservanza delle forme prescritte a pena di nullita' dagli artt. 333 e 337
cod. proc. pen., ed in particolare perche' presentata - sia quanto al testo
che quanto alla sottoscrizione del querelante e del suo difensore - in copia
fotostatica. Irregolarita', questa, che ad avviso del giudice a quo non
potrebbe considerarsi sanata dal successivo "atto di ratifica", redatto in
calce e sottoscritto da un ufficiale di polizia giudiziaria e dal
querelante, nel quale pure si conferma il contenuto della querela: e cio'
sia perche' tale conferma esulerebbe dai poteri accertativi del pubblico
ufficiale che riceve la querela, il quale sarebbe chiamato unicamente a
stabilire l'identita' del querelante;
sia perche' la sottoscrizione del
verbale di ratifica da parte di quest'ultimo non potrebbe essere riferita al
contenuto della querela, in quanto posta in calce ad altro atto;
sia,
infine, perche' la ratifica potrebbe sanare un atto viziato, ma non un atto
inesistente, quale sarebbe quello mancante di sottoscrizione.
Posto, quindi, che il fatto di false comunicazioni sociali ascritto alla
persona sottoposta alle indagini, di cui all'originario art. 2621 cod. civ.,
risulterebbe attualmente riconducibile alle due distinte ipotesi criminose -
di natura rispettivamente contravvenzionale e delittuosa - previste dai
nuovi artt. 2621 e 2622 dello stesso codice (come sostituiti dall'art. 1 del
d.lgs. n. 61 del 2002), il giudice a quo conclude che in ordine all'ipotesi
delittuosa di cui all'art. 2622 cod. civ. dovrebbe essere disposta, allo
stato, l'archiviazione per difetto di querela;
mentre la fattispecie di cui
all'art. 2621 cod. civ. (perseguibile d'ufficio), anche in caso di rigetto
della richiesta di archiviazione e di "imputazione coatta", dovrebbe essere
"considerata secondo la sua nuova natura contravvenzionale", con ogni
conseguenza anche in ordine ai termini di prescrizione.
Ad avviso del rimettente, peraltro, i citati artt. 2621 e 2622 cod. civ.
dovrebbero considerarsi costituzionalmente illegittimi sotto plurimi profili.
Premesso che le ipotesi criminose previste dalle norme denunciate
integrerebbero una "fattispecie a formazione progressiva" - venendo punita,
nell'un caso, la "dichiarazione infedele", e nell'altro "la dichiarazione
infedele a cui consegua un danno specifico e concreto per singoli soci e
creditori" - il giudice a quo assume, anzitutto, che il "combinato disposto"
delle due norme violerebbe l'art. 3 Cost., in rapporto alla diversita' delle
"risposte repressive" da esse rispettivamente contemplate: una diversita'
tale da implicare addirittura il passaggio da un illecito contravvenzionale
ad altro di natura delittuosa, con conseguente esclusione della punibilita'
della forma tentata del reato di cui all'art. 2621 cod. civ. L'identita' del
dolo specifico che caratterizza le due fattispecie - costituito
dall'intenzione di ingannare i soci o il pubblico e dal fine di conseguire
per se' o per altri un ingiusto profitto - renderebbe infatti irragionevole
tale sperequazione;
ne' varrebbe, in contrario, il rilievo che l'evento di
danno, costitutivo dell'ipotesi delittuosa, deve riflettersi nella relativa
componente psicologica, dato che l'elemento differenziale si esaurirebbe
nella rappresentazione - anche in termini di mera accettazione del rischio,
ossia di dolo eventuale - di un danno causato a terzi (soci e creditori)
quale conseguenza di una "primaria e diversa volonta' di base", comune alle
due ipotesi (la frode in danno dei soci o del pubblico).
La natura contravvenzionale del reato previsto dall'art. 2621 cod. civ.
risulterebbe, inoltre, in se' e per se', del tutto inadeguata rispetto alle
caratteristiche oggettive e soggettive del fatto incriminato, e percio'
contrastante con la funzione rieducativa della pena, sancita dall'art. 27,
terzo comma, Cost., la quale implica che la sanzione penale debba essere
ragionevolmente proporzionata ai fatti riconducibili allo specifico
paradigma punitivo. In via di principio, infatti, il modello della
contravvenzione e' indicativo della "parvitas materiae" e implica la
punibilita' anche a titolo di semplice colpa: donde la sua incoerenza con
una figura criminosa, quale quella delle false comunicazioni sociali, che,
sul piano oggettivo, si traduce - alla luce di una consolidata
giurisprudenza di legittimita', formatasi in rapporto al vecchio testo della
norma incriminatrice - in un fatto "altamente lesivo di un bene pubblico",
quale la "trasparenza del mercato, fattore primario e fondante di una
moderna societa' liberale";
e, sul piano soggettivo, lungi dall'essere
punibile indifferentemente a titolo di dolo o di colpa, richiede il dolo
nella sua forma piu' intensa (il dolo specifico).
La natura contravvenzionale del reato di cui all'art. 2621 cod. civ.
risulterebbe peraltro lesiva anche del principio di uguaglianza, sotto un
duplice profilo. Da un lato, infatti, essa implicherebbe una irragionevole
disparita' di trattamento delle false comunicazioni sociali rispetto ad
altri reati di frode lesivi del medesimo interesse alla trasparenza del
mercato, quali, in specie, i reati di aggiotaggio "comune" (art. 501 cod.
pen.) e "speciale" (art. 2637 cod. civ., come sostituito dal d.lgs. n. 61
del 2002), configurati come delitti e puniti con la pena della reclusione
fino ad un massimo, rispettivamente, di tre e cinque anni. Dall'altro lato,
la natura contravvenzionale dell'illecito renderebbe non piu' perseguibile,
ai sensi degli artt. 9 e 10 cod. pen., la falsita' ex art. 2621 cod. civ.
commessa all'estero: con la conseguenza che, nel caso di bilanci consolidati
di gruppi di societa' con ramificazioni internazionali, il falso consumato
in una societa' controllata avente sede all'estero - ma i cui effetti lesivi
dell'interesse pubblico alla trasparenza del mercato "si determinano,
identicamente, nel bilancio della controllante italiana", e quindi nel
territorio dello Stato - resterebbe "inopinatamente" esente da pena, a
differenza di tutti gli altri falsi in bilancio "non 'viziati' ab origine in
questo modo".
Il rimettente dubita, altresi', della legittimita' costituzionale dell'art.
2622 cod. civ., nella parte in cui prevede la perseguibilita' a querela per
il reato di "falso con danno" da esso delineato. La circostanza che tale
reato postuli la lesione di interessi patrimoniali di singoli soci o
creditori non escluderebbe, infatti, la sua natura "ontologicamente
plurioffensiva", giacche' detta lesione discenderebbe "imprescindibilmente"
dalla pregressa offesa di un interesse diffuso e indisponibile, quale quello
alla trasparenza del mercato: interesse peraltro evocato in modo esplicito
dalla norma incriminatrice, allorche' richiede l'intento dell'agente di
ingannare il pubblico.
In aggiunta a cio', i soggetti legittimati alla proposizione della querela
si troverebbero in concreto nella impossibilita' di esercitare il relativo
diritto, non disponendo di strumenti per verificare la sussistenza della
falsita' integratrice del reato. I soci potrebbero infatti prendere visione
del bilancio, unitamente ai suoi allegati, dopo che questo e' depositato, ma
senza poter conoscere le modalita' ed i passaggi della sua redazione. Non
varrebbero a tal fine strumenti come il diritto di consultazione
riconosciuto dall'originario art. 2489 cod. civ. ai soci di societa' a
responsabilita' limitata (circoscritto, per costante giurisprudenza, ai soli
libri contabili, senza estendersi alle altre scritture);
o come la facolta',
prevista dallo stesso articolo, di chiedere la revisione della gestione
(accordata - al pari di quella di denuncia al tribunale ex art. 2409 cod.
civ. - ad una minoranza qualificata, e non anche al socio uti singulus);
ovvero ancora come la presenza del collegio sindacale (organo che, quando
esiste, e' normalmente espressione della maggioranza, e non potendo comunque
ipotizzarsi, per il socio titolare del diritto di querela, un onere di
ricognizione "mediata"