Corte Cost., sentenza 30/06/2022, n. 162

Sintesi tramite sistema IA Doctrine

L'intelligenza artificiale può commettere errori. Verifica sempre i contenuti generati.

Segnala un errore nella sintesi

Massime1

Cumulo massimo tra pensione di reversibilità e redditi aggiuntivi - Limiti alla decurtazione - Divieto che la decurtazione effettiva della pensione ai superstiti possa eccedere l'ammontare complessivo dei redditi dei redditi aggiuntivi - Omessa previsione - Irragionevolezza - Illegittimità costituzionale in parte qua. - Legge 8 agosto 1995, n. 335, art. 1, comma 41, terzo e quarto periodo, e allegata Tabella F. - Costituzione, art. 3.

Massima redatta a cura del Ce.R.D.E.F.

Sul provvedimento

Citazione :
Corte Cost., sentenza 30/06/2022, n. 162
Giurisdizione : Corte Costituzionale
Numero : 162
Data del deposito : 30 giugno 2022
Fonte ufficiale :

Testo completo

Ritenuto in fatto

1.- Con ordinanza iscritta al n. 63 del registro ordinanze 2021, la Corte dei conti, sezione giurisdizionale per il Lazio, ha sollevato, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale del combinato disposto del terzo e quarto periodo del comma 41 dell'art. 1 della legge 8 agosto 1995, n. 335 (Riforma del sistema pensionistico obbligatorio e complementare), e della connessa Tabella F, «nella parte in cui prevede che la decurtazione effettiva della pensione ai superstiti il cui beneficiario possieda redditi aggiuntivi possa eccedere l'ammontare complessivo di tali redditi».

In punto di fatto, il giudice rimettente riferisce di aver depositato, contestualmente all'ordinanza di rimessione, una sentenza non definitiva che ha parzialmente rigettato i capi della domanda proposta, nel giudizio a quo, da A.P. Quest'ultima - titolare, dal 1° febbraio 2015, di una pensione di reversibilità - aveva censurato la legittimità delle decurtazioni che, sulla pensione, erano state effettuate dall'Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS) ai sensi dell'art. 1, comma 41, della legge n. 335 del 1995. La ricorrente aveva lamentato che, «almeno per l'annualità 2015», le fossero state applicate decurtazioni in eccesso rispetto ai «redditi aggiuntivi» di riferimento (ossia, rispetto ai redditi da lei conseguiti nel 2014). Con la menzionata sentenza non definitiva, il rimettente «ha disatteso le doglianze attoree fino a rispettiva concorrenza dei redditi aggiuntivi», dovendo per il resto dar corso al giudizio onde rimettere la presente questione di legittimità costituzionale.

In diritto, l'ordinanza di rimessione richiama la norma di cui all'art. 1, comma 41, terzo periodo, della legge n. 335 del 1995, che stabilisce il principio del cumulo tra il trattamento pensionistico ai superstiti e i redditi del beneficiario, con la precisazione, tuttavia, che detto cumulo non può eccedere i limiti indicati dalla Tabella F allegata alla legge. Quest'ultima indica tre fasce di reddito calcolate come triplo, quadruplo e quintuplo del trattamento minimo annuo previsto dal Fondo pensioni lavoratori dipendenti (FPLD) e, con riferimento a ciascuna delle tre fasce, indica la percentuale di cumulabilità del trattamento di reversibilità (rispettivamente, del 75 per cento, del 60 per cento e del 50 per cento).

Nel caso di specie - riferisce il rimettente - l'operato dell'INPS risulta rispettoso di tali prescrizioni, essendo stata applicata, in favore della ricorrente, anche la clausola di salvaguardia di cui al quarto periodo del comma 41 dell'art. 1 della legge n. 335 del 1995 (secondo cui «[i]l trattamento derivante dal cumulo dei redditi di cui al presente comma con la pensione ai superstiti ridotta non può essere comunque inferiore a quello che spetterebbe allo stesso soggetto qualora il reddito risultasse pari al limite massimo delle fasce immediatamente precedenti quella nella quale il reddito posseduto si colloca»). Tuttavia, la pedissequa applicazione delle norme ha comportato che, per le annualità 2015 e 2016, la ricorrente abbia subìto «decurtazioni quantitativamente superiori rispetto ai redditi aggiuntivi il cui possesso […] costituisce la causa efficiente delle decurtazioni stesse». E infatti, per l'annualità 2015, a fronte di un reddito aggiuntivo pari a euro 30.106, sono state applicate «decurtazioni non inferiori a 43.174,43 euro», con eccedenza negativa pari ad euro 13.000 circa;
per l'annualità 2016, a fronte di un reddito aggiuntivo pari ad euro 30.646, sono state applicate «correlative decurtazioni per 47.638,02 euro», con eccedenza negativa pari ad euro 17.000 circa. Peraltro, precisa il rimettente, ogni decurtazione annuale è autonoma rispetto a quelle degli anni precedenti o successivi, non essendo possibile alcuna forma di compensazione.

L'esorbitanza quantitativa delle decurtazioni sofferte, in paragone ai redditi aggiuntivi che le hanno determinate, ridonderebbe - a giudizio del rimettente - in violazione del «principio di ragionevolezza a cui è informato il secondo comma dell'art. 3 della Costituzione».

La rilevanza della questione discenderebbe da quanto fin qui considerato, essendosi in presenza, nel caso di specie, di «decurtazioni in misura (largamente) superiore rispetto a quella dei correlativi redditi aggiuntivi posseduti» dalla ricorrente del giudizio principale. L'accoglimento della questione comporterebbe la riconduzione delle decurtazioni, già operate dall'INPS per entrambe le annualità 2015 e 2016, «entro il limite di cui ai rispettivi redditi aggiuntivi».

Quanto alla non manifesta infondatezza, il rimettente sottolinea come «decurtazioni ultra vires esulino palesemente dalla ratio della normativa qui censurata: ratio che consiste nell'escludere il diritto alla pensione di reversibilità nella misura in cui, a quest'ultima, il relativo titolare cumuli ulteriori redditi la cui entità sia tale da controbilanciare la parallela decurtazione di quella medesima pensione». Del resto, qualora il reddito aggiuntivo posseduto dal titolare della pensione sia tale da iscriverlo nella fascia più alta di cui alla Tabella F (situazione che corrisponde alla «eventualità meno favorevole per il pensionato»), la legge prevede la cumulabilità del 50 per cento del trattamento di reversibilità: ciò, sottolinea il rimettente, «a prescindere da quanto cospicuo possa rivelarsi l'ammontare dei redditi aggiuntivi».

In definitiva, sussisterebbe una reciproca autonomia tra il parametro del reddito aggiuntivo, che determina l'ammontare della decurtazione, e il trattamento di reversibilità. La menzionata clausola di salvaguardia, di cui all'art. 1, comma 41, quarto periodo, della legge n. 335 del 1995 riuscirebbe «soltanto a temperare le conseguenze concrete di quell'autonomia», senza tuttavia eliminare «l'assurda eventualità che le decurtazioni possano travalicare i correlativi redditi aggiuntivi di riferimento».

L'esorbitanza così censurata si risolverebbe in «un totale stravolgimento dell'istituto delle decurtazioni» le quali, da indice di bilanciamento atto a far valere la sussistenza di ulteriori risorse con cui far fronte alle esigenze di vita richiamate dall'art. 38, secondo comma, Cost., «si trasformerebbero in mero pretesto per un'espropriazione della pensione di reversibilità». In simile evenienza - chiosa il rimettente - «assurdamente risulterebbe preferibile che il pensionato non avesse conseguito affatto quei redditi aggiuntivi o, almeno, che essi non avessero travalicato la soglia di rilevanza di cui alla tabella F».

2.- È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, concludendo per l'inammissibilità o la manifesta infondatezza della questione.

Nel ricordare che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, la pensione di reversibilità risponde alla ratio di «tutelare le esigenze di vita della famiglia, cui il defunto contribuiva» (sono citate le sentenze n. 495 del 1993 e n. 926 del 1988), la difesa erariale sostiene la ragionevolezza della scelta legislativa «di ancorare il parametro, in base al quale va stabilita l'entità delle decurtazioni, all'ammontare dei redditi aggiuntivi posseduti dal beneficiario». Il contesto normativo in cui fu approvata la norma cosiddetta "anticumulo", del resto, era «volto ad una radicale revisione della materia pensionistica, allo specifico fine di ridurne la spesa»: come messo in luce dal «diritto vivente», frutto di elaborazione della giurisprudenza della Corte di cassazione, l'obiettivo era quello di ridurre la spesa pensionistica nei

Iscriviti per avere accesso a tutti i nostri contenuti, è gratuito!
Hai già un account ? Accedi