CGARS, sez. I, sentenza 2014-05-14, n. 201400282
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N. 00282/2014REG.PROV.COLL.
N. 00372/2013 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il CONSIGLIO DI GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA PER LA REGIONE SICILIANA
in sede giurisdizionale
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 372 del 2013, proposto da:
C P O S.r.l., rappresentata e difesa dagli avv. P A, R S, F S, con domicilio eletto presso F S in Palermo, via Ammiraglio Gravina n. 2/F;
contro
Ass.To Reg.Energia e Servizi Pubblica Utilita'-Dip.Energia, Ass.To Reg.Le Territorio ed Ambiente-Dip.To Ambiente, rappresentati e difesi per legge dall'Avvocatura distrettuale, domiciliata in Palermo, via De Gasperi, n. 81;
nei confronti di
Comune di Ribera, rappresentato e difeso dall'avv. G R, con domicilio eletto presso G R in Palermo, via Oberdan 5;
per la riforma
della sentenza del TAR SICILIA - PALERMO :Sezione II n. 00502/2013, resa tra le parti, concernente revoca autorizzazione a realizzazione e gestione impianto di produzione di energia rinnovabile;
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio di Ass.To Reg.Le Territorio ed Ambiente-Dip.To Ambiente e di Comune di Ribera;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 27 febbraio 2014 il Cons. A A e uditi per le parti gli avvocati F. Surdi e G. Rubino nonchè l’avv. di Stato La Spina;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
La società ha richiesto l’ autorizzazione unica per la costruzione di un impianto per produzione di energia elettrica mediante combustione di oli vegetali, da realizzarsi in zona agricola del comune di Ribera. All’esito dei lavori della Conferenza di servizi il titolo fu rilasciato dall’Assessorato in data 22.2.2010. Successivamente, avendo il comune trasmesso all’Assessorato uno studio scientifico dell’Università di Palermo volto ad evidenziare il pericolo di danneggiamento delle locali colture agricole di pregio per effetto delle emissioni provenienti da simili impianti, l’Assessorato ha sospeso l’efficacia dell’ autorizzazione e ha avviato il procedimento per “ l’eliminazione dal mondo giuridico” della stessa. Contestualmente l’Assessorato ha convocato le parti ad un tavolo tecnico per lo studio della problematica, al quale la Ditta ha ritenuto di non dover partecipare.
Alla fine del procedimento l’Assessorato – senza riconvocare la Conferenza – ha annullato d’ufficio l’ autorizzazione con provvedimento in data 23.3.2012.
A motivazione dell’atto di autotutela venivano addotte – in sintesi – la mancata indicazione da parte della Ditta del tipo di oli vegetali che sarebbero stati utilizzati nella combustione e la mancata indicazione della provenienza geografica degli stessi.
La società ha impugnato l’atto di annullamento deducendo sul piano procedimentale che l’Assessorato in base al principio del contrarius actus avrebbe dovuto riconvocare la Conferenza e sul piano sostanziale che le indicazioni fornite circa la natura degli oli vegetali impiegati erano esaustive.
La ricorrente ha quindi chiesto il risarcimento dei danni ingiustamente patiti.
Il TAR con la sentenza impugnata ha qualificato il provvedimento di autotutela come revoca per motivi di opportunità, che l’Assessorato in quanto titolare dei poteri costitutivi poteva adottare senza riconvocare la Conferenza.
Di conseguenza ha attribuito alla Ditta un indennizzo ai sensi dell’art. 21 quinquies legge n. 241 del 1990 parametrato al danno emergente, ponendolo a carico del comune e della Regione in parti uguali.
La sentenza è stata impugnata in via principale dalla società la quale ne chiede la riforma nei capi ad essa sfavorevoli, con integrale risarcimento dei danni patiti.
La sentenza è stata impugnata in via incidentale dal comune di Ribera il quale contesta l’addebito nei suoi confronti di quota parte dell’indennizzo.
La sentenza è stata altresì impugnata in via incidentale dalla Regione la quale ne contesta il capo relativo alla concessione dell’indennizzo, in realtà non richiesto dalla ricorrente.
Le Parti hanno depositato memorie e repliche insistendo nelle già rappresentate conclusioni.
All’udienza del 27 febbraio 2014 gli appelli sono stati posti in decisione.
DIRITTO
Come risulta dalle premesse, la sentenza di primo grado ha espressamente qualificato il provvedimento regionale del 22.3.2012, ivi impugnato dalla Società, come revoca ai sensi dell’art. 21 quinquies della legge n. 241 del 1990.
Al riguardo, condividendo i contrari rilievi svolti sul punto dall’appellante principale nel contesto del secondo motivo di impugnazione, il Collegio osserva quanto segue.
Indubbiamente, la nuova disciplina positiva data all'istituto della revoca del provvedimento amministrativo dal Legislatore con la introduzione del ridetto art. 21-quinquies, ne ha in qualche modo dilatato la preesistente nozione elaborata dall'insegnamento dottrinario e giurisprudenziale.
In sostanza oggi la revoca ricomprende ( oltre al tradizionale ius poenitendi che consente alla P.A. di ritirare i provvedimenti ad efficacia durevole sulla base di sopravvenuti motivi di interesse pubblico ovvero di mutamenti della situazione di fatto ) anche il potere di rivedere il proprio operato in corso di svolgimento e di modificarlo, perché evidentemente ritenuto affetto da inopportunità, in virtù di una rinnovata diversa valutazione dell'interesse pubblico originario (ad es. V Sez. n. 4028 del 2011).
Ed è vero altresì che per insegnamento ricevuto l'esatta qualificazione di un provvedimento amministrativo va individuata tenendo conto del suo effettivo contenuto e della sua causa reale, anche a prescindere dal nomen iuris formalmente attribuito dall'Amministrazione, tenendo presente che l'apparenza derivante da una terminologia, eventualmente imprecisa o impropria, utilizzata nella formulazione testuale dell'atto stesso non è vincolante, né può prevalere sulla sostanza e neppure determina di per sé un vizio di legittimità dell'atto, purché ovviamente sussistano i presupposti formali e sostanziali corrispondenti al potere effettivamente esercitato. ( ad es. VI Sez. n. 4942 del 2012).
E tuttavia dall’esame del provvedimento di che trattasi – il quale comunque si autoqualifica quale annullamento d’ufficio ai sensi degli artt. 21 octies e nonies della legge n. 241/1990 – risulta evidente che lo stesso è stato adottato sul presupposto di carenze istruttorie ( mancata indicazione tipologia oli vegetali da utilizzare per la combustione/ mancata indicazione provenienza infra-regionale degli stessi) riverberantesi sulla legittimità del provvedimento finale, appunto oggetto di autotutela.
Quindi, al fondo viene in rilievo per la Regione l’invalidità dell’autorizzazione e non l’inopportunità del rilascio della stessa.
Parimenti, le ragioni di interesse pubblico ( il potenziale danno all’ambiente circostante) sono ivi richiamate non in quanto oggetto di rinnovata e diversa valutazione rispetto a quella originaria ( art. 21 quinquies) ma in quanto
elemento necessario per addivenire ad una pronuncia costitutiva non esclusivamente finalizzata al mero ripristino della legalità ( art. 21 nonies).
Tanto chiarito, in continuità con quanto rilevato da questo Consiglio nell’ord.za n. 533 del 2012, ritiene il Collegio che l’appello principale vada disatteso.
Con il primo e articolato motivo l’appellante deduce che l’Assessorato non poteva autonomamente intervenire in autotutela rispetto al deliberato della Conferenza ex art. 12 D. L. vo 387/2003 e che, sulla scorta del principio del contrarius actus, solo la Conferenza stessa avrebbe semmai potuto annullare il titolo già rilasciato.
Il rilievo – che ovviamente riveste importanza centrale ai fini della decisione – non è condiviso da questo Collegio.
L’art. 12 del D. L. vo n. 387 del 2003 subordina la costruzione e l’esercizio di impianti di produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili ad una autorizzazione unica rilasciata dalla regione ( comma 3) a seguito di un procedimento unico, al quale partecipano tutte le Amministrazioni interessate, svolto nel rispetto dei princìpi di semplificazione e con le modalità stabilite dalla legge 7 agosto 1990, n. 241, e successive modificazioni e integrazioni ( comma 4).
In tale contesto procedimentale sostanzialmente strutturato in chiave dicotomica, si tratta di stabilire se il titolo espresso ( che deve comunque sussistere) ha valenza meramente riproduttiva del deliberato della Conferenza decisoria o se, invece, lo stesso esibisca contenuti autonomamente costitutivi e provvedimentali.
Come evidenziato dalla più attenta giurisprudenza ( cfr. in particolare VI Sez. n. 7570 del 2009) il dibattito circa i rapporti sistematici intercorrenti fra la determinazione conclusiva della Conferenza c.d. decisoria ed il provvedimento finale, così come il dubbio circa la valenza lesiva per la sfera dell'interessato da riconnettere al primo ovvero al secondo di tali atti, sono questioni che hanno interessato la dottrina e la giurisprudenza sin dalla riforma dell'istituto della Conferenza di servizi operata dalla legge n. 340 del 2000 ed il cui esame ha ricevuto ulteriori spunti di interesse all'indomani dell'entrata in vigore della legge n. 15 del 2005, la quale ha in parte modificato il quadro normativo di riferimento.
Nella vigenza del sistema delineato dalla legge n. 340 del 2000 la giurisprudenza ha prevalentemente opinato nel senso del carattere immediatamente lesivo e quindi costitutivo della determinazione conclusiva della Conferenza di servizi, mentre al provvedimento conclusivo si riconosceva una valenza essenzialmente ricognitiva.
A conclusioni diverse è invece approdata la giurisprudenza maggioritaria dopo l’entrata in vigore della nuova disciplina in materia di Conferenza di servizi introdotta dalla legge n. 15 del 2005, in base alla quale lo iato sistematico sussistente tra la deliberazione conclusiva della Conferenza decisoria ed il successivo provvedimento finale impone di riconoscere solo al secondo di tali atti una valenza effettivamente determinativa della fattispecie, mentre alla deliberazione collegiale conclusiva deve essere riconosciuto un carattere meramente endoprocedimentale. ( così VI Sez. 7570/2009 citata).
In tal senso depongono vari elementi sostanziali, tra i quali in particolare rilevano l’eliminazione del carattere immediatamente esecutivo della determinazione della conferenza ( già art. 14 quater comma 2) e l’eliminazione della immediata impugnabilità della deliberazione stessa da parte delle amministrazioni dissenzienti ( già art. 14 ter comma 7).
In sostanza, secondo l’orientamento citato al quale questo Collegio intende dare continuità, il procedimento de quo è oggi strutturato in guisa che il provvedimento finale non rappresenta una sorta di momento meramente dichiarativo delle determinazioni assunte in sede di Conferenza, ma si qualifica come vero e proprio atto costitutivo delle determinazioni conclusive del procedimento.
In termini piani, come è stato chiaramente precisato, la determinazione decisoria assunta dalla Conferenza di servizi costituisce solo un passaggio della procedura destinata a concludersi con l'atto adottato dall'organo monocratico dell'Amministrazione procedente. ( cfr. anche VI Sez. 4575 del 2010).
D’altra parte la giurisprudenza ha chiarito - sia sulla base di elementi testuali ( cfr. art. 14 c. 6 del D.M. 10.9.2010 recante le c.d. Linee Guida il quale dispone che la conferenza di servizi "si svolge con le modalità di cui agli articoli 14 e seguenti della legge 241 del 1990 e successive modificazioni ed integrazioni") sia sulla scorta di considerazioni sistematiche – che la conferenza ex art. 12 D. L.vo n. 387/2003 ha carattere appunto decisorio, con conseguente inammissibilità dell’impugnazione rivolta direttamente contro le deliberazioni della conferenza stessa. ( cfr. VI Sez. n. 5921 del 2011).
Così ricostruito il sistema, ne consegue che – come posto in luce dalla sentenza gravata – l’Amministrazione procedente in quanto titolare del potere di adottare la determinazione provvedimentale conclusiva era altresì competente ad intervenire su di essa in autotutela, posto che nel vigente ordinamento amministrativo il potere di autotutela spetta ontologicamente alla stessa Autorità che ha emanato il provvedimento da annullare o revocare ( oltre che in determinati casi a quella gerarchicamente sovraordinata).
Quanto alla omessa riconvocazione della Conferenza, lamentata dall’appellante, il Collegio ritiene che essa non abbia viziato il provvedimento finale, in primo luogo perchè lo stesso si concretizza, come si è visto, in un annullamento per motivi di legittimità pronunciato dalla stessa Autorità amministrativa che aveva adottato l’atto originario.
In secondo luogo, il principio del contrarius actus, che impone all’Amministrazione di ripercorrere il procedimento seguito per l'atto che si intende ritirare opera allorché nel successivo provvedimento essa faccia uso di potestà discrezionale e non anche quando sia tenuta ad emanarlo in osservanza di obblighi di legge ( ad es. IV Sez. n. 3236 del 2000).
In tal senso già la migliore ancorchè risalente dottrina aveva precisato che per l’annullamento “ Diversamente da quanto si è detto per la revoca non è però richiesto il rinnovo della medesima procedura, trattandosi di un provvedimento inerente a un potere diverso, basato su presupposti diversi e di volta in volta variabili, il quale rientra nella competenza specifica ed esclusiva delle singole autorità cui la legge la riconosce.”.
A ciò deve aggiungersi infine che la Conferenza ( diversamente dai vari soggetti, enti e commissioni cui l’ordinamento affida compiti consultivi) è un organo straordinario il quale, diversamente ragionando, verrebbe ad atteggiarsi praeter legem come stabile soggetto preposto alla gestione di competenze in campo energetico che restano invece – come si è visto – esclusivamente intestate all’Assessorato.
D’altra parte sul piano sostanziale deve anche osservarsi che, come del tutto condivisibilmente posto in luce dal TAR, l’Assessorato dopo aver sospeso l’efficacia dell’autorizzazione ha procedimentalizzato l’attività istruttoria indirizzando alla società un invito a partecipare ad un c.d. tavolo tecnico, invito al quale l’interessata ( sulla base di sue valutazioni strategiche o contingenti che ora non mette conto esaminare) ha opposto un rifiuto, così manifestando in sostanza la sua radicale opposizione a quell’ approfondimento istruttorio in sede collegiale che essa invece ora reclama come necessario.
Con il secondo motivo di impugnazione l’appellante deduce che l’autorizzazione originariamente rilasciata non era affetta da alcun profilo di illegittimità e che non sussisteva in realtà alcun interesse pubblico atto ad imporne l’annullamento.
Infatti da un lato le Amministrazioni competenti ( ed in particolare sia l’A.R.T.A. che la C.P.T.A. di Agrigento) avevano già scrutinato positivamente la compatibilità delle emissioni generabili dall’impianto con i limiti fissati dalla normativa tecnica di riferimento;dall’altro avevano già positivamente valutato la collocabilità dell’impianto stesso nel territorio agricolo prescelto.
Con il terzo motivo l’appellante deduce il difetto di istruttoria che vizia il provvedimento impugnato.
I mezzi, che saranno contestualmente esaminati attesa la reciproca interconnessione, non sono fondati.
Come risulta dalle premesse il provvedimento in autotutela trova la sua principale motivazione nella mancata precisa indicazione, in seno alla relazione tecnica originariamente presentata dall’Impresa, degli oli vegetali da avviare a combustione e della loro provenienza, con conseguenti ulteriori dubbi – manifestati dal c.d. tavolo tecnico – sull’effettiva cogenerazione di calore ed energia dell’impianto, come da autorizzazione rilasciata.
Al riguardo lo studio tecnico redatto dal Dipartimento di ingegneria dell’Università di Palermo ( sulla base del quale il comune ha richiesto l’annullamento dell’autorizzazione) rilevava che “ poichè la letteratura scientifica del settore mostra notevoli variazioni delle emissioni inquinanti prodotte da un motore turbodiesel al variare dell’olio vegetale impiegato come combustibile si ravvisa la necessità di una relazione tecnica più accurata delle emissioni inquinanti che devono essere riferite allo specifico combustibile che si intende utilizzare”.
Infatti, pur risultando il previsto livello di emissioni dell’impianto in generale contenuto entro i limiti di cui al D. L. vo n. 152/2006, il suddetto rapporto evidenziava in particolare il riflesso negativo che emissioni di ossido di azoto anche assai inferiori a quelle stimate avrebbero potuto determinare sull’ambiente ed in particolare sulle colture agricole pregiate in atto nel territorio di riferimento.
In tal senso veniva richiamato lo studio condotto ( pur in epoca risalente) presso lo Statewide Air Pollution Reasearch Center dell’Università della California, secondo il quale l’esposizione di alberi di arance navel ( e cioè per quanto sembra proprio del frutto DOP del comune di Ribera) al biossido di azoto in concentrazioni di 0,25 ppm ( quindi 40 volte inferiori alle emissioni stimate per l’impianto in controversia) provoca sia una significativa defoliazione sia un calo nella produzione dei frutti.
Altro studio redatto dall’’Istituto di Biomedicina e Immunologia molecolare dell’Università di Palermo ha paventato rischi alla salute della popolazione insediata nell’area circostante, per effetto dell’incremento degli inquinanti presenti nell’aria a seguito della messa in esercizio del motore diesel anche se alimentato con combustibili di provenienza vegetale.
Sulla scorta di tali rilievi l’Assessorato ha compulsato il competente Servizio II – Emissioni in atmosfera del Dipartimento regionale dell’Ambiente il quale con la nota 66516/2011 ( richiamata nel provvedimento impugnato) rappresentava come “ si deve constatare che, nell’Allegato A Relazione tecnica nelle pagine 4, 5 e 6 viene fatto un mero elenco di potenziali oli vegetali ( Jatropha, olio di Palma, Girasole, Colza, Soia) utilizzabili senza specificare quale sarà quello realmente adoperato e la sua eventuale provenienza”.
Da ciò l’Assessorato ha tratto la conclusione dell’invalidità dell’originaria autorizzazione, proprio perchè rilasciata senza previa esaustiva indicazione del combustibile che sarebbe stato impiegato e quindi senza un preventivo preciso riscontro delle emissioni pericolose derivanti dall’iniziativa industriale e della sua compatibilità con la salvaguardia delle produzioni agricole locali.
A giudizio del Collegio, quella di cui si discute è una valutazione che trova attendibile aggancio nelle risultanze dell’istruttoria tecnica e che non esibisce dunque profili di lacunosità o irragionevolezza sindacabili in questa sede di legittimità.
In particolare tale valutazione non contrasta con le coincidenti previsioni contenute nell’art. 20 delle Linee Guida e a monte nell’art. 12 comma 7 del D. l. vo n. 387 del 2003, le quali consentono l’ubicazione degli impianti di produzione energia elettrica da fonti rinnovabili anche in zone agricole, nelle quali l’insediamento di un complesso produttivo sarebbe ordinariamente precluso per ragioni urbanistiche: infatti le norme in questione condizionano la rimozione del divieto alla considerazione “ delle disposizioni in materia di sostegno nel settore agricolo, con particolare riferimento alla valorizzazione delle tradizioni agroalimentari locali, alla tutela della biodiversità, così come del patrimonio culturale e del paesaggio rurale ....”.
D’altra parte, come giustamente evidenziato dal TAR, la decisione in argomento fonda anche su una corretta declinazione del principio comunitario di precauzione e di quello di prevenzione dei danni ambientali, che impongono all’Amministrazione di attivarsi anche a fronte di un mero pericolo di danno per la salute umana e l’ambiente rurale tutelato.
Oppone sul punto l’appellante che l’originaria autorizzazione era stata rilasciata proprio sul presupposto della compatibilità ambientale delle emissioni generate da ogni tipo di combustibile indicato nella relazione tecnica di accompagnamento all’istanza.
Detto rilievo non è però conducente, in quanto la mancata considerazione del differenziato carico inquinante derivante dai vari combustibili e dei connessi diversificati effetti sulle colture e sulla salute costituisce proprio - nell’ottica ragionevolmente seguita dall’Amministrazione – il vizio di fondo dell’autorizzazione.
Oppone altresì l’appellante che dopo l’approvazione con D.M. 10.9.2010 delle Linee guida statali previste dall’art. 12 del D. l. vo n. 387 del 2003 nè il comune nè la Regione potevano individuare limiti ulteriori alla localizzazione degli impianti energetici in area agricola.
Il rilievo non merita positiva considerazione.
Infatti, come chiarito dalla Corte costituzionale, per espressa previsione derivante dall’art. 19 del D. l. vo n. 387/2003 le Linee Guida statali non si applicano direttamente alle regioni a statuto speciale che godono come la Sicilia di competenza legislativa esclusiva in materia di tutela del paesaggio ( cfr. Corte cost. n. 275 del 2011).
Con ulteriore motivo l’appellante deduce l’illegittimità del rilievo - contenuto nel provvedimento impugnato – teso a stigmatizzare la mancata apposizione nell’autorizzazione di una clausola volta ad imporre il rispetto dell’art. 28 delle Linee Guida al PEARS il quale condiziona l’autorizzazione all’approvvigionamento delle biomasse da fonti esistenti nel raggio di 70 km dall’impianto o comunque all’interno del territorio regionale.
Al riguardo l’appellante deduce in primo luogo l’illegittimità della previsione per contrasto con i principi fissati dalla normativa comunitaria.
In secondo luogo l’appellante rileva l’inapplicabilità della stessa a seguito della abrogazione in parte qua delle Linee Guida stesse disposta ad opera del