CGARS, sez. I, sentenza 2016-04-14, n. 201600089

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Sul provvedimento

Citazione :
CGARS, sez. I, sentenza 2016-04-14, n. 201600089
Giurisdizione : Consiglio Di Giustizia Amministrativa per la Regione siciliana
Numero : 201600089
Data del deposito : 14 aprile 2016
Fonte ufficiale :

Testo completo

N. 00920/2015 REG.RIC.

N. 00089/2016REG.PROV.COLL.

N. 00920/2015 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il CONSIGLIO DI GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA PER LA REGIONE SICILIANA

in sede giurisdizionale

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 920 del 2015, proposto da:
Ministero dell'Istruzione dell'Universita' e della Ricerca, Universita' degli Studi di Palermo, Ministero dell'Economia e delle Finanze, rappresentati e difesi per legge dall'Avvocatura Distrettuale dello Stato, domiciliata in Palermo, Via De Gasperi n. 81;

contro

prof. M S, rappresentato e difeso dagli avv. M B M e M S, con domicilio eletto presso M B M in Palermo, V. Nunzio Morello n. 40;

per la riforma

della sentenza breve del T.A.R. SICILIA - PALERMO: SEZIONE III n. 00744/2015, resa tra le parti, concernente lavoro - adeguamento trattamento giuridico ed economico

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visto l'atto di costituzione in giudizio del prof. M S;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 24 febbraio 2016 il Cons. Giuseppe Barone e uditi per le parti l’avvocato dello Stato Tutino e l’avv. M. S;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO

Il Ministero dell’Istruzione ha proposto appello avverso la sentenza indicata in epigrafe, con cui il TAR per la Sicilia ha accolto il ricorso proposto dall’attuale appellato prof. M S per l’annullamento del decreto del Rettore dell’Università di Palermo del 1.12.2014, con il quale era stato rideterminato, a decorrere dal 1.2.2014, il trattamento giuridico ed economico di quest’ultimo. In particolare era stato disposto che all’appellante non competesse più l’assegno ad persona, del E. 62.570,00 annui, a lui spettante quale ex membro del C.S.M. per il quadriennio 31 luglio 1998-31 luglio 2002.

Lo stesso Tribunale aveva accolto la domanda di annullamento, proposta dal prof. S nei confronti del provvedimento dirigenziale n. 1735 del 9.1.12015, con il quale era stata disposta una trattenuta, fino alla concorrenza del debito scaturito dalle somme percepite a titolo di assegno ad personam del 1 gennaio al 31 dicembre 2014, in quanto asseritamene non dovute.

Il ricorso è stato affidato a tre motivi.

Ha resistito l’amministrazione.

Il TAR, provvedendo con sentenza semplificata, ha accolto il ricorso ritenendo fondato il motivo con cui il prof. S deduceva la violazione dell’art. 3 della L.

3.5.1971 n. 312. Tale norma in quanto ritenuta dal TAR come norma di ordine speciale, non potrebbe essere abrogata o derogata da una norma di carattere generale, qual è l’art. 1, comma 458 della L. 27.12.2013 n. 147, che ha abrogato l’art. 202 del T.U. degli impiegati civili dello Stato.

Avverso la sentenza che così aveva deciso hanno proposto appello il Ministero dell’Istruzione e…. e l’Università degli Studi di Palermo, che l’hanno criticata sulla base del seguente unico articolato motivo: violazione dell’art. 1, commi 458 e 459 L. 147/13 (legge di stabilità del 2014) in combinato disposto con l’art. 8, comma 5, L. 19.10.1999 n. 370.

Ha resistito all’appello il prof. S con un’ampia memoria difensiva, cui hanno fatto seguito ulteriori memorie depositate in data 25.1.2016 e 2.2.2016.

Hanno depositato memoria di replica le amministrazioni appellanti.

All’udienza del 24.2.2016 il ricorso è stato trattenuto per la decisione.

DIRITTO

Il Collegio, ai fini del decidere, muove dal rilievo contenuto a pag. 9 della sentenza impugnata secondo il quale l’appellato, avendo goduto per più di 10 anni della retribuzione complessiva di E. 5.183,00 mensili ha fatto legittimo affidamento sulla stabilità di tale trattamento economico stabilendo un programma di vita, con relativi impegni, giustificato proprio dall’affidamento di potere continuare a percepire la retribuzione predetta.

È fin troppo evidente che una drastica riduzione delle entrate economiche determina nel soggetto che ne è colpito un vero e proprio trauma, che tanto più va guardato con sfavore quanto più esso si determina in un momento di grande fragilità della vita, qual è il periodo successivo al pensionamento e quando i bisogni di ogni tipo sono diventati più pressanti.

Come giustamente osserva il primo Giudice può considerarsi consentito al legislatore un intervento riduttivo del trattamento economico, che si produca tramite la cancellazione di voci che lo compongono, ma proprio per le considerazioni sopra esposte e per il tendenziale principio di tutela dell’affidamento, che è connaturato allo stato di diritto e determina limitazioni anche per il legislatore (Corte Cost. 12.12.2012 n. 277), tale intervento del legislatore deve essere espresso e chiaro, così da non lasciare dubbi sull’interpretazione delle norme e dare certezza che l’interprete vi attribuisca l’unico significato possibile e soprattutto non lasciare che si stia procedendo ad un’interpretazione estensiva delle medesime.

Tanto premesso, ciò che manca nel caso sottoposto all’attenzione del Collegio è proprio una norma che dia certezza in maniera chiara ed inequivocabile dell’intervenuta abrogazione del più volte richiamato art. 3 L. 312/1971.

Del resto, anche parte appellante conviene su questo punto laddove afferma che al brocardo utilizzato dal TAR “lex posterior non derogat speciali” deve essere attribuito valore non assoluto ma relativo destinato a cedere di fronte a una “precisa volutas legis” in senso contrario.

Posto quindi che per sorreggere le tesi dell’Università occorrerebbe “una precisa voluntas legis”, tale precisa voluntas legis si trarrebbe, a giudizio degli appellanti, dalle disposizioni sopravvenute contenute nella L. 147/2013, art. 1, comma 458 e 459, nei quali l’interprete potrebbe individuare una chiara volontà abrogativa delle contrastanti norme previgenti, in quanto i predetti commi 458 e 459 avrebbero ridisciplinato in modo rigoroso e restrittivo l’intera area dei trattamenti economici dei pubblici dipendenti compresi i professori universitari, rientrati nei ruoli di appartenenza, perché cessati da precedenti ruoli o incarichi.

Le considerazioni appena fatte trovano conferma nella lettura di varie norme costituzionali, dove il costituente ha usato il termine “carica” e mai “incarico” per denotare funzioni di livello costituzionale non assimilabile agli incarichi conferiti con provvedimenti delle autorità amministrative. Così il termine impiegato dall’art. 104, comma 6, Cost. (i membri elettivi durano in carica) viene utilizzato per il Presidente dalla Repubblica nell’art. 84, nei commi 4 e 5 dell’art. 135, a proposito dei giudici costituzionali, nell’art. 96 a proposito del Presidente del Consiglio dei Ministri.

Più estesamente osservano le amministrazioni appellanti che il comma 458 non si fermerebbe a disporre l’abrogazione dell’art. 202 del T.U. 3/57, ma disporrebbe che ai pubblici dipendenti, quali sono i professori universitari che abbiano ricoperto ruoli o incarichi dopo che siano cessati dal ruolo o dall’incarico, è sempre corrisposto un trattamento economico pari a quello attribuito ai colleghi di pari anzianità. Soccorrerebbe anche il comma 459 che dispone a carico delle amministrazioni l’obbligo di corrispondere ai pubblici dipendenti cessati da incarichi il trattamento uguale a quello del collega più anziano, rinviando all’art. 8, comma 5, L. 370/99 nel testo modificato dal D.L. 95/2012, il quale ha previsto che “il professore … rientrato nei ruoli dell’università in nessun caso può conservare il trattamento economico complessivo goduto nel servizio o incarico svolto precedentemente qualsiasi sia l’ente o istituzione in cui abbia svolto l’incarico”.

Il Collegio apprezza l’impegno difensivo dell’Avvocatura a difesa dell’amministrazione, ma tuttavia non ritiene di poterne condividere le tesi.

Al centro del percorso argomentativo cui non si ritiene di aderire vi è l’idea che l’elezione da parte del Parlamento di un professore a componente del Consiglio Superiore della Magistratura, prevista dal 4 comma dell’art. 104 della Costituzione, possa essere equiparata alla nomina a un incarico o a un servizio amministrativo il che sembra contrastare all’evidenza con il rango costituzionale della funzione (o del munus costituzionale) (la legge stessa 312/71 evita il termine incarico), cui il professore viene destinato non già in forza di una decisione ovvero di un provvedimento amministrativo, ma in forza di una scelta politica espressa sovranamente dal Parlamento non impugnabile, chiamato a individuare i soggetti che dovranno entrare a comporre la quota c.d. laica del C.S.M..

È proprio dunque la funzione di rango costituzionale svolta dai professori chiamati a comporre il C.S.M. ad avere indotto il legislatore a deliberare l’art. 3 comma 1 L. 312/71 a norma del quale “ai componenti (del CSM) che fruiscono del trattamento previsto dall’art. 40 comma 3 L. 24.3.58 n. 195… l’assegno mensile a carico del CSM verrà tramutato all’atto della cessazione della carica per decorso del quadriennio in assegno personale…”.

Del resto la stessa Corte Cost. nella sentenza 131 del 14.7.82 conferma la validità dell’ordine di idee cui il Collegio ritiene di aderire laddove afferma che l’assegno in questione non è assimilabile a una normale retribuzione in quanto è stato istituito a ristoro di peculiari sacrifici conseguenti alla rinunzia a vantaggi attuali o potenziali della quale il legislatore si è dato carico.

Peraltro, le chiare espressioni usate dal Giudice delle leggi potrebbero indurre a ritenere che, nel momento in cui “i peculiari sacrifici conseguenti alla rinunzia a vantaggi attuali o potenziali, dei quali il legislatore si è dato carico, sono stati di già sopportati, non è possibile privare chi ha sopportato quei sacrifici del ristoro per essi previsto”.

Ma a prescindere da questa notazione, che non è necessario approfondire in questa sede, considerato pertanto che l’art. 3 comma 1 della L. 312/71 è stato previsto espressamente per i componenti del C.S.M. ed è stato previsto per ristorare i peculiari sacrifici conseguenti alla rinunzia di svolgere altre attività (si osservi che il resistente è ed era anche avvocato) è necessario ritenere che si tratti di una norma speciale cioè di una norma che regola casi assolutamente particolari e specificamente individuati e, come tale, non può ritenersi che venga abrogata da una norma di carattere generale contenuta nell’art. 202 del

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