Corte di Giustizia di primo grado Genova, sez. I, sentenza 08/02/2024, n. 121
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Nelle vendite all'asta il rapporto tra la casa d'aste e il committente si configura come rapporto di commissione alla vendita ex art. 1731 c.c. (nelle forme del mandato senza rappresentanza) in cui la casa d'aste vende a proprio nome il bene ma per conto del committente, con la conseguenza che non acquista mai la proprietà del bene che passa direttamente dal committente all'acquirente finale. Solo ai fini Iva, il commissionario viene considerato alla stregua di un soggetto passivo autonomo che nella commissione alla vendita acquista i beni dal committente e li rivende al terzo acquirente.
Sul provvedimento
Testo completo
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con ricorso inviato a questa CGT ricorreva la A A SRL, svolgente attività di vendita all'asta di oggetti d'occasione, d'arte, d'antiquariato o da collezione, in persona del legale rappresentante G W, avverso avviso di accertamento n. TL303T204268/2022, emesso dall'Agenzia delle Entrate Direzione Provinciale di Genova, relativo a IRES, IVA, sanzioni, relativo all'anno d'imposta 2016.
La parte ricorrente eccepisce quanto segue:
-la società ricorrente opera nel mercato italiano ed internazionale mediante contratti di commissione per la vendita all'asta di beni, mediante l'acquisizione di mandati a vendere senza rappresentanza;
-l'attività della casa d'aste inizia con l'acquisizione dei mandati a vendere tramite propri "esperti" che, nel corso dell'esercizio, su incarico della casa d'aste, eseguono valutazioni gratuite dei beni ed oggetti posseduti dai mandanti-committenti, valutando preventivamente il valore stimato per l'asta ("riserva"), per poi addivenire ai mandati a vendere intestati alla società;
-in via pregiudiziale, violazione dell' art. 42 DPR n. 600/1973 per difetto di sottoscrizione da parte del Direttore e/o di funzionario munito di valida delega;
-in via subordinatamente pregiudiziale, illegittimo svolgimento da parte dell'Ufficio di una istruttoria procedimentale;
-carenza di motivazione dell'atto impugnato;
-l'Ufficio basa la propria posizione sull'erronea applicazione al "Regime Speciale per gli esercenti agenzie di vendita all'asta" di quanto previsto nella Circolare 177 del 22.06.1995 , emessa dall'Agenzia delle Entrate al fine di dare indirizzo operativo per gli Uffici, circa l'applicazione degli art. da 36 a 40 inseriti nel
D.L. 41/1995 , quale recepimento della Direttiva Comunitaria n. 94/5/CEE , quale "Regime speciale per i rivenditori di beni usati, di oggetti d'arte, di antiquariato o da collezione", circa la definizione di "spesa accessoria";
-a tale proposito è illegittimo applicare in via analogica norme dettate dal legislatore per il Regime Speciale dei rivenditori, ex art. 36 del D.L. 41/1995 , atteso che il legislatore ha distintamente disciplinato il Regime speciale previsto per le Vendite all'asta, di cui all'art. 40 bis dello stesso Decreto, ricorrendo, in questo caso, anche la falsa applicazione dell' art. 40 bis del D.L. 41/1995 ;
-ancor più illegittimo risulta l'accertamento basato solo sull' applicazione di una Circolare, che, oltretutto, non attiene al Regime delle Case d'asta, riguardando, invece, un regime speciale differente da quello applicato dalla società;
-eccepisce la modalità di operare dell'Ufficio, il quale ha proceduto al disconoscimento dell'IVA pagata sulle spese di trasporto, consulenza ed altre spese di carattere generale, attribuendo illegittimamente il carattere di spese accessorie alla vendita anzichè spese generali, in quanto spese: - sostenute dalla ricorrente al fine di acquisire "le materie prime" (i beni oggetto di mandato a vendere) necessarie allo svolgimento dell'attività, quali sono propriamente i lotti per le case di vendita all'asta;- sostenute dalla ricorrente al fine di organizzare l'asta dei lotti per i quali ha ricevuto i mandati a vendere;- sostenute dalla ricorrente al fine di mantenere la propria affidabilità nel mercato delle vendite all'asta mediante accertamento della veridicità e dell'autenticità delle opere stesse;
-l'Ufficio ha erroneamente ritenuto non detraibile l'IVA per un importo pari ad € 103.516,89 da parte della ricorrente, mentre la casa d'aste, per il principio di neutralità, deve poter detrarre l'IVA sui beni e sui servizi acquistati per il proprio funzionamento di casa d'asta: si tratta, ad esempio, dei compensi corrisposti agli esperti per l'acquisizione dei mandati a vendere / dei lotti da porre in asta, delle spese di trasposto dei beni forniti dal committente alla sede della casa, della loro catalogazione e valutazione, di eventuali interventi di ripristino e restauro eseguiti nell'interesse della casa d'aste e non per conto del committente, della fotografia dei pezzi, della pubblicizzazione delle aste mediante strumenti cartaceo/ analogico (catalogo d'asta) o informatici (siti internet), ecc.;
-queste spese gravano, infatti, sulla casa d'asta perché essa le affronta strumentalmente all'organizzazione dell'asta, indipendentemente dal suo esito e non possono essere addebitati al committente, perché egli paga la commissione e neppure addebitati all'aggiudicatario, perché sostenute nell'interesse della casa d'asta e non da lui stesso specificatamente richieste;
-l'Ufficio ha erroneamente provveduto al recupero per indebita deduzione di perdite per crediti per un totale di € 15.291,60: la società ricorrente ha operato in applicazione dei principi contabili e, pertanto, avendo accantonato il fondo in maniera analitica, ha proceduto all'utilizzo dello stesso nella medesima maniera, in quanto la redazione del bilancio di esercizio deve necessariamente rispettare i postulati di bilancio dettati dal codice civile - tra i quali la prevalenza della sostanza sulla forma, la chiarezza, la coerenza e soprattutto la competenza - per il rispetto dei quali, nella pratica, occorre fare riferimento ai principi contabili nazionali, aggiornati dall'OIC;
l'avviso di accertamento impugnato è carente degli elementi che l'Ufficio avrebbe considerato nel determinare la sanzione applicata, non avendo indicato le valutazioni concretamente operate, soprattutto con riferimento all'elemento della "colpevolezza", di cui all' art. 5, del D. Lgs. n. 472/1997 , del tutto assenti nell'atto impugnato;
-eccepisce, infine, che il provvedimento irrogativo di sanzioni è contrario al principio di proporzionalità, sancito dalla normativa dettata all' art. 7, d.lgs. n. 472/1997 , in base al quale qualora concorrano circostanze che rendono manifesta la sproporzione tra l'entità del tributo, cui la violazione si riferisce e la sanzione, questa può essere ridotta fino alla metà del minimo.
-chiede, pertanto, di annullare l'atto impugnato con vittoria delle spese di giudizio.
L'Agenzia delle Entrate, tempestivamente costituita in giudizio, insiste sulla legittimità del proprio provvedimento impositivo e chiede il rigetto del presente ricorso, con la condanna della Ricorrente al pagamento delle spese di giudizio.
In data 02.11.2023 parte ricorrente ha depositato memorie illustrative.
MOTIVI DELLA DECISIONE
La Corte di Giustizia Tributaria, dopo approfondita valutazione della documentazione processuale rileva quanto segue:
-contrariamente a quanto eccepito da parte ricorrente non si riscontra alcun difetto di sottoscrizione dell'atto impugnato;
-contrariamente a quanto eccepito da parte ricorrente non si riscontra un illegittimo svolgimento dell'istruttoria procedimentale da parte dell'Ufficio né \carenza di motivazione dell'atto impugnato;
-nel merito, si osserva che non esiste una fase di acquisto dei beni da parte della casa d'aste, ma la proprietà del bene mobile ceduto si trasferisce direttamente dal venditore all'acquirente;
-infatti, nelle vendite all'asta il rapporto tra casa d'aste e committente trova origine nel contratto di commissione, ex art. 1731 del codice civile , il quale dispone che: "Il contratto di commissione è un mandato che ha per oggetto l'acquisto o la vendita di beni per conto del committente e in nome del commissionario";
-conseguentemente, il rapporto si configura come mandato senza rappresentanza, in cui la casa d'aste non spende il nome del mandante, ma vende direttamente, a proprio nome, il bene oggetto del contratto di commissione:
la proprietà del bene mobile ceduto si trasferisce direttamente dal venditore all'acquirente, e solamente ai fini IVA il commissionario viene considerato alla stregua di un soggetto passivo autonomo, che nella commissione per la vendita, acquista i beni dal committente e li rivende al terzo acquirente;
-infatti, il comma 4, art. 40-bis, D.L. n. 41/1995 , prevede che nella commissione alla vendita, il passaggio dal committente (affidatario) al commissionario (casa d'aste) si considera effettuato all'atto della vendita da parte del commissionario;-è, pertanto, del tutto evidente che tutte le spese accessorie in argomento sono sostenute dalla casa d'aste, in quanto finalizzate alla vendita del bene affidato e non certo all'acquisto;
-ne consegue che l'IVA relativa a tali spese risulta indetraibile a norma dell'art. 40 bis c. 2 L. 41/95 , in quanto la casa d'aste non acquista i beni per poi rivenderli, ma si occupa solo di venderli a proprio nome, per conto del proprietario: poiché la proprietà passa dall'originario proprietario all'acquirente ne consegue che non essendoci un acquisto, non possono neppure esserci spese accessorie all'acquisto e che, pertanto, la ricorrente ha indebitamente conseguito l'indebito vantaggio fiscale di portare in detrazione l'IVA per un importo pari a € 103.516,89;
-in riferimento all'eccepito recupero da parte dell'Ufficio per indebita deduzione di perdite per crediti per un totale di € 15.291,60, si rileva che non si può prescindere dall'esistenza di due concetti differenti ma tra loro legati ovvero l'utile civilistico e l'utile fiscale, il primo determinato applicando le norme civilistiche integrate dai principi contabili ed il secondo definito utilizzando le norme tributarie;
-in sostanza, la deroga alle norme fiscali è limitata alle disposizioni concernenti i criteri di qualificazione, imputazione temporale e classificazione in bilancio, tra le quali non rientrano le disposizioni normative contenute nell' art.101 comma 5 e nell' art.106 comma 2 TUIR , inerenti il caso in argomento;
-con riguardo all'eccepita carenza motivazionale e non proporzionalità delle sanzioni irrogate, si rileva che la normativa vigente prevede una presunzione di colpa dell'atto vietato a carico di chi lo ha commesso e spetta al contribuente l'onere di provare di aver agito senza colpa.
La Corte di Giustizia Tributaria ritiene, pertanto, non accoglibile il presente ricorso, con condanna di parte ricorrente al pagamento delle spese di giudizio, che liquida in € 3.500,00.