Corte di Giustizia di secondo grado Liguria, sez. I, sentenza 28/03/2024, n. 236

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Massime1

In caso di cessione di un credito IVA l'Amministrazione può ravvisare l'insussistenza del credito ceduto senza dover attivare un contraddittorio ed indirizzare l'accertamento nei confronti della società cedente ben potendo agire direttamente nei confronti del cessionario

Sul provvedimento

Citazione :
Corte di Giustizia di secondo grado Liguria, sez. I, sentenza 28/03/2024, n. 236
Giurisdizione : Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Liguria
Numero : 236
Data del deposito : 28 marzo 2024
Fonte ufficiale :

Testo completo

Richieste delle parti:

CONCLUSIONI DELL'AGENZIA APPELLANTE

"Si chiede che codesta Onorevole Commissione Tributaria Regionale della Liguria voglia:

riformare parzialmente la sentenza oggetto di impugnazione, con piena conferma della legittimità dell'avviso di accertamento in contestazione;

riconoscere le spese di giudizio a favore dell'Ufficio, come da apposita nota allegata." CONCLUSIONI DI PARTE APPELLATA

Non costituita - non comparsa SVOLGIMENTO DEL GIUDIZIO

I S.r.l. è una società che effettua servizi di pulizia, sanificazione, disinfezione e disinfestazione di fabbricati. Essa ha ricevuto nel 2016 due comunicazioni di irregolarità ( n. 05456161420 in data 14 marzo e n. 42087 in data 31 marzo) a seguito di controllo automatizzato ex art. 54-bis d.P.R. n. 633/1972 , per omesso versamento dell'Iva relativamente alle annualità 2013 e 2014.

La società ha ottenuto di provvedere al versamento rateale delle somme dovute (secondo due piani trimestrale da 20 rate ciascuno).

Ha versato le prime rate dei due piani, in data 12 aprile e 19 aprile 2016, utilizzando in compensazione parte di un credito Iva di € 4.550.000 che in uno ad un ramo dell'azienda aveva acquistato in data 22 dicembre 2015 da C S.r.l., credito certificato da un professionista ed asseritamente maturato nei precedenti periodi d'imposta.

Nelle more le sono state notificate due cartelle di pagamento (n. 04820170000593517 e n. 04820160023713536, la prima per Iva 2013 e la seconda per Iva 2014) con cui l'Amministrazione finanziaria pretendeva il pagamento dell' intera Iva dovuta per il 2013 e 2014, oltre alle relative sanzioni da omesso versamento, nonostante i pagamenti rateali già iniziati, per un totale di circa sette milioni di euro.

L'Agenzia delle Entrate ha ritenuto che il predetto credito non potesse essere utilizzato dalla I S.r.l. senza che prima venisse esposto nella sua dichiarazione Iva, non essendo sufficiente l'avvenuta indicazione da parte della C S.r.l. nella propria dichiarazione Iva 2015;
l'Ufficio inoltre nutriva dubbi sulla legittimità del credito.

I giudizi instaurati avverso le cartelle nanti la Comm. trib. prov. di Genova (r.g. n. 484/2017 e r.g. n. 1580/2016) si sono conclusi con l'annullamento di entrambe le cartelle notificate.

La sentenza che ha concluso il giudizio r.g. n. 1580/2016 ( sent. n. 462/2017 del 31 marzo 2017 ) è stata appellata e il relativo giudizio pende in secondo grado, mentre per la seconda sentenza, che ha concluso il giudizio R.G. n. 484/2017 ( sent. n. 857/3/2018 del 3 agosto 2018 ), era ancora pendente il termine per proporre appello.

Con l'avviso di accertamento impugnato in questa sede, l'Ufficio ha contestato invece direttamente l'esistenza del credito, e, di riflesso, l'esposizione in dichiarazione Iva 2016 da parte di I S.r.l.

In particolare, l'Ufficio sostiene, anche in appello, che la cessione del ramo d'azienda sarebbe avvenuta ad un prezzo eccessivamente vile rispetto al credito Iva incluso nella transazione;
C S.r.l. avrebbe compilato la propria dichiarazione Iva al fine di evidenziare un credito inesistente;
I S.r.l. avrebbe dovuto rendersi conto dell' inesistenza del credito perché negli anni precedenti alla cessione C non avrebbe presentato bilanci tali da giustificare un simile credito Iva;
il Sig. L U non risulterebbe tra i soggetti autorizzati a rilasciare il visto.

La contribuente in primo grado asseriva che in realtà col contratto di compravendita del ramo d'azienda I S.r.l. si era anche fatta carico dei debiti della società cedente, per un totale di circa € 4.850.000, tanto che all'atto di acquisto, oltre al prezzo concordato di € 50.000, sono stati rilasciati effetti cambiari per ben € 405.000,00 quale primo versamento.

Quando mesi dopo la società si è vista notificare le due cartelle di pagamento per complessivi sette milioni di euro circa a fronte della pretesa inesistenza del credito acquistato, la stessa non ha ritenuto opportuno proseguire con il pagamento delle obbligazioni assunte, in attesa che la controversia si risolvesse.

Nel contratto di cessione, la parte cedente garantiva espressamente la "regolare e costante tenuta dei libri contabili secondo la normativa vigente e, pertanto, che la situazione patrimoniale dell'azienda ceduta corrisponde a quella evidenziata nelle scritture contabili" Ciò avrebbe ingenerato nella ricorrente un legittimo affidamento sulla bontà del credito in questione.

In via preliminare la ricorrente deduceva violazione dell' articolo 24, legge n. 4 del 7 gennaio 1929 : l'Ufficio, prima di procedere con l'avviso di accertamento, avrebbe dovuto notificare alla contribuente un processo verbale.

In secondo luogo è al cedente che avrebbe dovuto essere indirizzato l'avviso di accertamento a rettifica della dichiarazione presentata, ed è sempre al cedente che avrebbero dovute essere eventualmente comminate le sanzioni in caso di fondatezza dell'accertamento, mentre al cessionario può essere richiesta, una volta divenuto definitivo l'accertamento nei confronti del cedente, solo la ripetizione di quanto indebitamente utilizzato.

La stessa Amministrazione finanziaria avrebbe confortato tale modus operandi, precisando che in tema di cessione di crediti Iva "per effetto della disposizione contenuta nell'ultima parte del citato comma 4-ter, l'ufficio deve continuare ad esercitare i propri poteri di controllo, di accertamento e di irrogazione delle sanzioni esclusivamente nei confronti del contribuente cedente, restando estraneo il cessionario, per tali effetti, all'osservanza degli obblighi stabiliti dal D.P.R. n. 633/1972 ".

Eccepiva altresì l'incompetenza della Direzione provinciale di Genova ai fini dell'accertamento del credito Iva in oggetto, rilevato che C S.r.l. ha il suo domicilio fiscale in Roma.

Chiedeva dichiararsi nullo l'avviso di accertamento per violazione dell' art. 5, comma 4-ter, D.L. 14 marzo 1988, n. 70 .

Deduceva altresì violazione dell' art. 7, comma 1, L. 212/2000 e dell' art. 3, l. 241/1990 , per vizio di motivazione dell'avviso di accertamento e di allegazione degli atti su cui la pretesa si fonda.

Nel merito prospettava l'infondatezza della pretesa dell'Ufficio di conseguire la restituzione dell'intera imposta indicata in dichiarazione, anche per la porzione che non era stata ancora utilizzata in compensazione, pari ad € 2.660.800.

Infine deduceva violazione dell' art. 5, comma 1, D.lgs. 472/1997 , in tema di colpevolezza delle sanzioni tributarie. L'Ufficio ha irrogato sanzioni (nella misura del 270%) nei confronti di I S.r.l., in assenza di colpa alcuna.

A I S.r.l. non si potrebbe muovere alcun rimprovero in relazione all'eventuale indicazione in dichiarazione di un credito Iva asseritamente inesistente, nemmeno per colpa. L'apposizione del visto presuppone una serie di controlli finalizzati al riscontro dell'effettività del credito, con precise e gravi responsabilità (anche penali) in caso di dichiarazione mendace.

Nell'avviso di accertamento impugnato l'Ufficio ha comminato alla società le sanzioni ex art. 5, co.

4-bis, D.LGS. 471/1997 . L'Ufficio ha illegittimamente applicato la sanzione con riferimento all'intero credito esposto in dichiarazione, non soltanto alla quota effettivamente "utilizzata".

A seguito del D.LGS. n. 158/2015 il comma 4 dell'art. 5 prevede che "Se dalla dichiarazione presentata risulta un'imposta inferiore a quella dovuta ovvero un'eccedenza detraibile o rimborsabile superiore a quella spettante, si applica la sanzione amministrativa dal novanta al centottanta per cento della maggior imposta dovuta o della differenza di credito utilizzato".

La norma, dunque, non rapporta più la sanzione genericamente alla "differenza" tra quanto avrebbe dovuto essere dichiarato e quanto, invece, è stato effettivamente indicato, come avveniva nella precedente versione del comma in oggetto, bensì limita la sanzione al solo importo effettivamente "utilizzato". Dall'inserimento di tale aggettivo evidentemente traspare la volontà del Legislatore di parametrare una sanzione così incisiva al danno effettivamente subito dall'Erario. Interpretazione confermata dalla stessa Agenzia delle Entrate nella circolare 8/E del 7 aprile 2017 .

Deduceva inoltre violazione dell' art. 5, comma 1, d.lgs 472/1997 in relazione all' art. 5, comma 4 bis, d.lgs. 471/1997 , in tema di sanzioni aggravate da condotte fraudolente, quando la dichiarazione infedele "è realizzata mediante fatture o altra documentazione falsa o per operazioni inesistenti, mediante artifici o raggiri, condotte fraudolente o simulatorie".

Deduceva infine la violazione dell' art. 7 del d.lgs. 472/1997 , in tema di determinazione della sanzione. L'applicazione di una sanzione nella misura massima (nello specifico pari al 270% del credito esposto in dichiarazione) collide con il principio di proporzionalità dell'Iva, più volte sancito dalla giurisprudenza comunitaria.

°°°

Con la sentenza n. 344/2021, depositata il 18/05/2021, la CTP di Genova ha così deciso: " Si osserva come sussistano sufficienti elementi, ben evidenziati nelle controdeduzioni dall'Ufficio e condivisi da questa Commissione, circa il fatto che la Società non potesse non essere a conoscenza che il credito

vantato da C fosse inesistente. In modo particolare in considerazione della rilevanza della somma, nonché la circostanza che la cedente sia risultata evasore totale, che ha provveduto a presentare la dichiarazione dei redditi solo l'anno in cui il credito è emerso. Tanto più in considerazione dell'esiguità dell'importo pagato per l'acquisto di tale credito. Pur tuttavia ritiene il collegio possano accogliersi le doglianze di parte in ordine al fatto che l'ufficio avrebbe dovuto iscrivere a ruolo solamente la parte di credito Iva utilizzato dalla I e, non invece, l'intero importo. Al contempo ritiene che, nella specie, si rende applicabile l' art. 5, comma 4 ter del DL 14 marzo 1998 , che esclude l'applicabilità delle sanzioni nei confronti del cessionario del credito IVA riservandole espressamente al solo cedente. Il ricorso merita, di conseguenza, essere parzialmente accolto con compensazione delle spese di giudizio tenuto conto della parziale reciproca soccombenza" .

L'Agenzia delle entrate impugna la sentenza esponendo:

la controversia ha per oggetto un avviso di accertamento (n. TL306T103651/2018) emesso dall'Ufficio a seguito di un controllo eseguito

motu proprio .

L'Ufficio aveva ritenuto che I Srl avesse presentato una dichiarazione infedele per il 2015 perchè contenente l'esposizione di un credito Iva inesistente, incamerato per il tramite di un'operazione di acquisizione di ramo aziendale dalla C Srl di Roma.

Evidenzia che per gli anni 2013 e 2014 la liquidazione automatizzata delle dichiarazioni aveva fatto emergere ingenti omessi versamenti di Iva;
l'imposta dichiarata ma non versata nel 2013 ammontava ad € 2.675.646, mentre quella relativa al 2014 era pari ad € 2.129.302.

A fronte dei debiti la società chiedeva di poter effettuare un pagamento rateale del dovuto;
tuttavia, fin dalla prima rata il versamento veniva effettuato in compensazione con il credito scaturente dall'acquisto di ramo d'azienda dalla C Srl: conseguentemente, l'Ufficio disconosceva il regolare avvio del pagamento rateale (e procedeva, quindi, all'iscrizione a ruolo dell'intero debito), in considerazione del fatto che la effettiva disponibilità del credito Iva 2014 della C Srl (ben € 4.550.000), sarebbe avvenuta solo con la presentazione da parte della I Srl della dichiarazione annuale per l'anno 2015 (di fatto, nel settembre del 2016), con possibilità di utilizzo dal giorno 16 del mese successivo;
pertanto, i pagamenti della prima rata, effettuati sia per il 2013 che per il 2014 mediante compensazione fin dall'aprile del 2016, non potevano che considerarsi invalidi.

La CTP di Genova, con le sentenze riferite alle cartelle di pagamento per gli anni 2013 e 2014, ha accolto i ricorsi della società, affermando che l'utilizzo del credito acquisito sarebbe stato legittimo anche prima che la I Srl lo avesse fatto proprio con l'inserimento nella sua prima dichiarazione e, ancora (in particolare nella sentenza per il 2014), che in sede di valutazione della correttezza della pretesa azionata con l'iscrizione a ruolo da liquidazione della dichiarazione non potevano essere presi in considerazione elementi ulteriori, quali quelli addotti dall'Ufficio nelle proprie difese giudiziali in ordine ai dubbi rapporti fra I e C, trattandosi di rilievi che avrebbero potuto essere sollevati solo nell'ambito di un avviso di accertamento e non nel contesto di una semplice liquidazione di dichiarazione.

L'Ufficio, quindi, ha proposto ricorso in appello contro le due sentenze di primo grado, convinto delle proprie ragioni ed anche perché, diversamente, si correva il rischio che a seguito di tali pronunce la società finisse per considerarsi liberata dal proprio debito Iva per gli anni 2013 e 2014.

Parallelamente è stata portata avanti anche l'indagine sull'operazione complessiva di cessione di ramo d'azienda, finalizzata a consentire alla I Srl di acquisire un ingente credito Iva, sulla cui genesi era lecito nutrire forti dubbi, con la probabile piena consapevolezza da parte della stessa società ricorrente.

L'indagine dell'Ufficio ha condotto a rilevare una serie di "anomalie", illustrate nella motivazione dell'avviso di accertamento emesso per l'anno di imposta 2015, nel quale al termine di una fase istruttoria di controllo sono stati evidenziati i fatti salienti qui di seguito riportati: la C Srl, costituita il 22/07/2009, ha presentato unicamente la dichiarazione per l'anno 2014, mentre per gli anni precedenti è risultata essere "evasore totale" (ossia prima del 2014 non ha mai presentato alcuna dichiarazione annuale);
la dichiarazione per l'anno 2014 è stata trasmessa tre volte: mentre, a fronte di operazioni attive indicate in € 850.564, quelle passive venivano quantificate in € 3.014.993, con l'emersione di un credito Iva pari ad € 476.174, in seguito (nella seconda e terza trasmissione), ferme le operazioni attive, quelle passive sono state aumentate ad € 21.532.380, con l'aumento del credito Iva conclusivo ad € 4.550.000;
in entrambe le versioni il credito è stato certificato dal Dott. L U, del quale tuttavia non risultano le credenziali per il rilascio del visto di conformità e che non risulta iscritto né al registro dei commercialisti ed esperti contabili, né a quello dei consulenti del lavoro;
in esito alla liquidazione della dichiarazione per l'anno 2014 della C Srl ne è stata attestata l'irregolarità, con il disconoscimento del credito Iva per € 4.550.000;

il Signor I P, legale rappresentante della C Srl, è risultato essere anch'egli evasore totale;

a fronte del credito Iva acquisito di € 4.550.000, formalmente la I Srl avrebbe assunto anche debiti della società cedente per € 4.837.000, ma tali debiti (di cui solo € 405.000 verso fornitori ed € 4.332.000 per finanziamento soci e di terzi) non risultano essere mai stati pagati;

dagli accertamenti istruttori effettuati in contraddittorio con il legale rappresentante della I Srl (Sig. F P) è emerso che l'unico motivo che ha spinto la società attuale appellata all'acquisto del ramo d'azienda (in un'attività - il commercio di pietre preziose - differente dalla propria - lo svolgimento di pulizie) è stato quello di acquisire l'ingente credito Iva;
dalle dichiarazioni rilasciate dal Sig. F P è emerso che per i debiti verso fornitori siano stati emessi degli effetti cambiari, mentre i debiti verso soci e terzi (di cui per € 2.866.000 nei confronti del legale rappresentante della C Srl, I P) sarebbero stati rinunciati per € 2.000.000 e, in seguito alle divergenze con l'Agenzia delle Entrate, per ulteriori € 2.000.000;
mentre la parte non è stata in grado di fornire i codici fiscali dei soggetti creditori (in qualità di soci o terzi), tutti con nomi stranieri;
in corrispondenza con tutti i fatti di cui sopra la legale rappresentanza della I Liguria è stata affidata ad un soggetto (il Sig. F P) che presenta tutte le caratteristiche del "prestanome", laddove la famiglia S, i cui membri storicamente costituivano i soci della società, sono contemporaneamente fuoriusciti dalla compagine sociale.

In ragione di quanto sopra, l'Ufficio ha concluso che la I Srl non poteva non essere a conoscenza della inesistenza del credito in quanto tale inesistenza era facilmente accertabile attraverso la lettura dei bilanci presentati dalla società in CCIAA e delle dichiarazioni presentate all'Agenzia delle Entrate.

Il sig. L U Luciano, semplice titolare di un Centro elaborazione dati, non aveva alcuna qualifica per poter rilasciare un visto di conformità.

La società I srl ha acquisito un credito del valore di euro 4.550.000,00 pagandolo solo euro 50.000,00.

L'Ufficio ha accertato l'indebita esposizione al rigo VL8 di un credito IVA inesistente di Euro 4.550.000,00, e pertanto la presentazione di infedele dichiarazione annuale IVA in violazione dell' art. 8 dPR 322/1998 .

L'Ufficio propone appello parziale sulla base dei seguenti motivi.

In primo luogo evidenzia che la sentenza della CTP di Genova, pur se solo in parte condivisibile, è sicuramente apprezzabile nella misura in cui riconosce l'illegittimità dell'intera operazione e la consapevole partecipazione della I Srl alla stessa ("...che la Società non potesse non essere a conoscenza che il credito vantato da C fosse inesistente").

Quanto all'imposta ripresa a tassazione, evidenzia che il collegio di primo grado sembra aver equivocato sulla modalità di recupero laddove afferma che "l'ufficio avrebbe dovuto iscrivere a ruolo solamente la parte di credito Iva utilizzato dalla I e, non invece, l'intero importo". Nel caso di specie l'Ufficio non ha inteso rettificare l'utilizzo del credito in sede di liquidazione della dichiarazione, né disconoscerne la compensazione per l'utilizzo irregolare bensì ha rilevato che il credito si presentava inesistente ed è stato fatto emergere strumentalmente nell'ambito di una costruzione fraudolenta: pertanto l'Ufficio ha agito correttamente con avviso di accertamento, in rettifica della dichiarazione annuale della I ai fini Iva.

Rappresenta che una volta entrato nella contabilità e nelle dichiarazioni del soggetto che lo abbia incamerato, il credito rimane acquisito e nella disponibilità del soggetto in questione, indipendentemente dall'utilizzo in compensazione immediato o successivo (nel caso di specie, dalle dichiarazioni presentate negli anni successivi, risulta che il credito residuo riportato al 2016 e, poi, agli anni seguenti - pari ad € 2.660.800 - sia stato utilizzato per pagare l'Iva dovuta nel 2016 per € 134.948, nel 2017 per € 42.776 e nel 2018 per € 5.526). Nell'impugnazione di primo grado la società ha motivato le proprie richieste richiamando le disposizioni dell'art. 5 c. 4 ter D.L. 70/1988 , ma la disposizione richiamata si riferisce ai casi di cessione del credito: nel caso di specie non si tratta solo di una cessione di credito da un'impresa ad un'altra, bensì dell'utilizzo strumentale di una cessione d'azienda, diretta a trasmettere da una società ad un'altra un credito (inesistente) insito nell'azienda trasferita.

La ragione del recupero va individuata in primo luogo nella constatazione di una cessione d'azienda strumentale ed improntata ad una finalità fraudolenta. In ragione di tutto quanto sopra, quindi, richiede la parziale riforma della sentenza, con il riconoscimento della legittimità del recupero dell'intero credito e la conseguente conferma anche della corrispondente sanzione irrogata in accertamento.

§§§

Non si è costituita la procedura concorsuale.

All'udienza odierna, la sentenza è stata deliberata sentito il rappresentante dell'Ufficio appellante, con modalità in presenza.

RAGIONI DELLA DECISIONE

L'appello è fondato.

Giova premettere che l'accertamento dell'insussistenza del credito non richiede una previa contestazione anche nei confronti del creditore cedente.

La giurisprudenza della Corte di Cassazione civile (cfr. sentenza 21.10.2009 n° 22278 ) è ferma nel ritenere che il creditore cessionario può agire verso il debitore ceduto facendo valere il credito acquisito per effetto della cessione senza evocare in giudizio il creditore cedente, che, in particolare non riveste nella relativa controversia la posizione di litisconsorte necessario.

Pertanto, calando detto principio nella fattispecie, l'Ufficio aveva facoltà di ravvisare l'insussistenza del credito ceduto senza provocare un contraddittorio con la società cedente.

Occorre altresì evidenziare che riguardo alla "inesistenza" del credito si è formato il giudicato interno atteso che la pronuncia sul punto della CTP di Genova, la quale ha statuito come "... la Società non potesse non essere a conoscenza che il credito vantato da C fosse

inesistente . In modo particolare in considerazione della rilevanza della somma, nonché la circostanza che la cedente sia risultata evasore totale, che ha provveduto a presentare la dichiarazione dei redditi solo l'anno in cui il credito è emerso. Tanto più in considerazione dell'esiguità dell'importo pagato per l'acquisto di tale credito",

non è stata oggetto di impugnazione da parte del fallimento.

Appare dunque superfluo soffermarsi sulla esistenza effettiva e regolarità del credito che appare pregiudicata dalla decisione, non opposta, della CTP.

Giova peraltro brevemente premettere che l' art. 13, comma 5, terzo periodo, d.lgs. n. 471 del 1997 , come modificato dall' art. 15, d.lgs. 24/09/2015 n. 158 , ha fornito, per la prima volta, una esplicita definizione positiva di credito inesistente stabilendo che «Si intende inesistente il credito in relazione al quale manca, in tutto o in parte, il presupposto costitutivo e la cui inesistenza non sia riscontrabile mediante controlli di cui agli articoli 36-bis e 36-ter del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600 , e all' articolo 54-bis del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633 ».

Ciò premesso, nel merito si osserva che, una volta verificato che si trattava di un credito inesistente l'Ufficio ha correttamente "recuperato", o meglio disconosciuto, per intero il credito, correggendo la dichiarazione Iva della ricorrente a seguito di una valutazione non automatica bensì condotta a seguito di analitiche verifiche effettuate incrociando i dati, risultanti dalle dichiarazioni presentate dalla società cedente, i quali evidenziavano che nella seconda e terza trasmissione delle dichiarazioni Iva della C spa, ferme le operazioni attive, quelle passive erano state fatte lievitare ad € 21.532.380, con l'aumento del credito Iva conclusivo ad € 4.550.000.

E' palese che l'inserimento in contabilità dell'acquisto di un credito spiega effetti "a cascata" per gli anni successivi, nei quali il credito viene riportato per essere utilizzato in compensazione (quando non venga chiesto a rimborso, o ulteriormente ceduto), sicchè detto credito va espunto alla radice, per evitare appunto quegli effetti "domino" dianzi rappresentati, prescindendo dalle successive eventuali utilizzazioni che il cessionario ne possa compiere, anche per impedire le preclusioni derivanti dall'omesso, tempestivo, disconoscimento.

Cass.Sez. U, sentenza n. 34419 del 11/12/2023 (Rv. 669633-01 ) ha disposto che " In tema di compensazione di crediti o eccedenze d'imposta da parte del contribuente, all'azione di accertamento dell'erario si applica il più lungo termine di otto anni, di cui all' art. 27, comma 16, d.l. n. 185 del 2008 , quando il credito utilizzato è inesistente, condizione che si realizza - alla luce anche dell' art. 13, comma 5, terzo periodo, d.lgs. n. 471 del 1997 , come modificato dal d.lgs. n. 158 del 2015 - allorché ricorrano congiuntamente i seguenti requisiti: a) il credito, in tutto o in parte, è il risultato di una artificiosa rappresentazione ovvero è carente dei presupposti costitutivi previsti dalla legge ovvero, pur sorto, è già estinto al momento del suo utilizzo;
b) l'inesistenza non è riscontrabile mediante i controlli di cui agli artt. 36-bis e 36-ter d.P.R. n. 600 del 1973 e all' art. 54-bis d.P.R. n. 633 del 1972 ;
ove sussista il primo requisito ma l'inesistenza sia riscontrabile in sede di controllo formale o automatizzato, la compensazione indebita riguarda crediti non spettanti e si applicano i termini ordinari per l'attività di accertamento ."

In ordine alla misura del trattamento sanzionatorio questa Corte osserva: Cass. Sez. U - , Sentenza n. 34452 del 11/12/2023 (Rv. 669634 - 01 ) ha statuito che " In tema di compensazione di crediti o eccedenze d'imposta da parte del contribuente, è applicabile la sanzione di cui all' art. 27, comma 18, d.l. n. 185 del 2008 , vigente ratione temporis, ovvero, se più favorevole, quella prevista dall' art. 13, comma 5, d.lgs. n. 471 del 1997 quando il credito utilizzato è inesistente...".

Pertanto, una volta accertata l'inesistenza del credito ne consegue l'applicabilità della più grave (rispetto a quella stabilita in caso di credito non spettante) sanzione prevista in considerazione del fatto che il credito IVA è il frutto di una preordinata costruzione artificiosa, callidamente posta in essere al fine di contrapporre al debito iva maturato un corrispondente credito non risultante da alcuna fatturazione di esborsi effettivi, tale quindi da giustificare un trattamento sanzionatorio proporzionato a tale gravità.

Erra il primo Giudice laddove ritiene applicabile l' art. 5, comma 4 ter del D.L. 14 marzo 1998 (recte 1988) n. 70, che esclude l'applicabilità delle sanzioni nei confronti del cessionario del credito IVA riservandole al solo cedente ove il cessionario risulti incolpevole rispetto alla cessione: nel caso di specie la cessionaria del credito è risultata personalmente e direttamente coinvolta nel meccanismo ordito (congiuntamente da cedente e cessionaria) al fine (esclusivo) di operare la compensazione del debito col credito IVA. La stessa sentenza impugnata ne dà atto laddove rimarca come la cessionaria non potesse ignorare l'inesistenza del credito, senonchè la CTP non ne ha tratto tutte le conseguenze derivanti da tale evidenza: la cessionaria non si è infatti limitata ad acquistare un credito ma ha partecipato ad un'operazione ben più complessa che concerneva l'acquisto di un ramo d'azienda, fra l'altro non compatibile con la propria attività commerciale di servizi, per un prezzo irrisorio rispetto al credito ceduto con tale ramo d'azienda. E' risultato dunque che scopo (e causa negoziale, necessariamente comune alle parti) dell'operazione era quello di frodare l'Erario.

Va pertanto accolto l'appello dell'Ufficio dell'Agenzia, con conseguente riconoscimento dell'integrale legittimità e fondatezza dell'atto impugnato.

Ricorrono gravi ed eccezionali ragioni per compensare le spese di giudizio. La Curatela del fallimento, che rappresenta oltre al ceto creditorio anche gli interessi dello Stato ad una amministrazione della giustizia secondo criteri di ragionevolezza ed economicità, si è trovata a subire e fronteggiare una situazione da essa non creata. Va gratificata del fatto di non essersi costituita in giudizio per non gravare di ulteriori esborsi di rappresentanza la massa dei creditori, rinunziando a opporsi ad una pretesa, ritenuta verosimilmente fondata, dell'Agenzia.

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