Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza 2020-03-02, n. 202001487

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Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza 2020-03-02, n. 202001487
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 202001487
Data del deposito : 2 marzo 2020
Fonte ufficiale :

Testo completo

Pubblicato il 02/03/2020

N. 01487/2020REG.PROV.COLL.

N. 05010/2017 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 5010 del 2017, proposto dal signor -OMISSIS-, rappresentato e difeso dall’avvocato M V, con domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato N D P in Roma, via Tagliamento, n. 55;

contro

il Ministero della difesa, in persona del Ministro pro tempore , rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, domiciliato ex lege in Roma, via dei Portoghesi, n. 12;

per l’annullamento

- del decreto ministeriale n. 191/I-3/2015, emesso dal Ministero della difesa in data 5 maggio 2015, notificato al ricorrente in data 9 giugno 2015;

- di tutti gli altri atti presupposti, preordinati, conseguenti e comunque connessi con quello impugnato.


Visto il ricorso con i relativi allegati;

Visto l'atto di costituzione in giudizio del Ministero della difesa;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nella camera di consiglio del giorno 30 gennaio 2020 il consigliere Silvia Martino;

Udito l’avvocato N D P (su delega dell’avvocato M V);

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO e DIRITTO

1. Con ricorso proposto innanzi al TAR per il Friuli Venezia Giulia l’odierno ricorrente chiedeva l’annullamento e/o la declaratoria di nullità, per elusione del giudicato, del decreto del Ministero della difesa del 5 maggio 2015 che ne aveva disposto “ la perdita del grado, senza giudizio disciplinare, conseguente alla condanna definitiva inflitta con la sentenza n. 65/06 del 2 ottobre 2006 [...] per reato militare che ha comportato la pena accessoria della rimozione del grado ” nonché “ la cessazione del rapporto di impiego ” e quindi dal servizio permanente.

Esponeva che, in precedenza, con sentenza della Corte militare d’appello, sezione distaccata di Verona, del 20 ottobre 2006, n. 65, gli era stata inflitta la condanna alla pena di anni due e mesi otto di reclusione militare oltre alla pena accessoria della rimozione del grado (con contestuale revoca del beneficio della sospensione condizionale) per i reati di furto militare aggravato e continuato, violata consegna, truffa militare aggravata e continuata, falso aggravato e continuato in foglio di entrata e uscita da luogo militare.

1.1. In esecuzione di tale sentenza l’amministrazione della difesa aveva adottato il d.m. 255/3 – 9/2007 in data 26 giugno 2007 con il quale - datosi atto della sanzione penale accessoria - si era disposta la rimozione dal grado ed il conseguenziale collocamento nella posizione di soldato semplice in congedo.

1.2. Avverso tale provvedimento l’interessato aveva proposto ricorso straordinario al Capo dello Stato, lamentando che il provvedimento avrebbe comportato una destituzione automatica in violazione dell’art. 9 della l. n. 19 del 1990.

1.3. Il ricorso era stato accolto, previo parere del Consiglio di Stato, sez. II, 12 novembre 2014, n. 4394/2007, “ fatti salvi gli ulteriori provvedimenti dell’amministrazione ”.

1.4. A tale pronuncia aveva fatto seguito il decreto oggetto del presente giudizio, in relazione al quale il ricorrente lamentava la sovrapponibilità a quello già annullato poiché la perdita del grado era stata disposta senza giudizio disciplinare (ancorché tale necessità fosse stata richiamata dal Consiglio di Stato), per effetto della pena accessoria disposta in sede penale.

Tale esito non avrebbe potuto essere giustificato dal “quadro normativo” sopravvenuto, richiamato dall’amministrazione poiché, al contrario, nel rinnovare il procedimento l’amministrazione sarebbe stata tenuta ad adottare la normativa vigente all’epoca dell’emanazione del primo decreto (dal ricorrente ritenuta più favorevole).

2. Il TAR adito declinava la propria competenza, ritenendo sussistente quella del Consiglio di Stato, innanzi al quale il ricorso è stato riassunto.

Nel ricorso, oltre al vizio di violazione del giudicato, vengono peraltro dedotti anche “vizi propri” del provvedimento impugnato (violazione dell’art. 9 della l. n. 19 del 1990;
difetto di motivazione).

3. Si è costituita, per resistere, l’amministrazione intimata.

4. Il ricorrente ha depositato una memoria conclusionale richiamando la sentenza della Corte costituzionale, n. 268 del 15 dicembre 2016 che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 866, comma 1, nonché dell’art. 923, comma 1, lettera i), del decreto legislativo 15 marzo 2010, n. 66 (codice dell'ordinamento militare), nella parte in cui non prevedono l’instaurazione del procedimento disciplinare per la cessazione dal servizio per perdita del grado conseguente alla pena accessoria della interdizione temporanea dai pubblici uffici.

5. Il ricorso è stato trattenuto per la decisione alla camera di consiglio del 30 gennaio 2020.

6. Il Collegio rileva, in primo luogo, che l’originario provvedimento di rimozione, risalente al 2007, è stato adottato in un quadro normativo diverso da quello vigente al momento della riedizione dell’attività amministrativa che ha condotto all’adozione del d.m. del 5 maggio 2015, di cui il ricorrente assume la nullità per violazione e/o elusione del giudicato.

Al riguardo, va ricordato che, secondo quanto costantemente affermato da questo Consiglio (cfr., in particolare, la decisione dell’Adunanza plenaria n.11 del 9 giugno 2016), la retroattività dell’esecuzione del giudicato trova un limite intrinseco e ineliminabile (che è logico e pratico, ancor prima che giuridico) nel sopravvenuto mutamento della realtà — fattuale o giuridica — tale da non consentire l’integrale ripristino dello status quo ante .

Nel caso in esame, deve pertanto ritenersi che correttamente l’amministrazione abbia fatto riferimento, nel rivalutare la posizione del ricorrente, al quadro normativo vigente, dettato dal codice dell’ordinamento militare di cui al d.lgs. n. 66 del 2010 che, come evidenziato dalla stessa amministrazione “ ha operato una sistemazione e un riassetto organico sia delle fonti primarie sia di quelle secondarie nonché un coordinamento formale e sostanziale del testo delle disposizioni vigenti, anche tenuto conto ‘del diritto vivente’ quale risultante dall’elaborazione della giurisprudenza della Corte Costituzionale e delle Giurisdizioni superiori ”.

7. Relativamente alla pena accessoria militare della rimozione (e misure interdittive similari), questo Consiglio, ancora da ultimo, ha osservato che le stesse producono quale effetto ineludibile, specifico e caratteristico, la perdita del grado e determinano conseguentemente ed automaticamente, a valle, ai sensi dell’art. 923, comma 1, lett. i) del codice dell’ordinamento militare, la cessazione del rapporto d’impiego (cfr. Sez. IV, sentenza n. 486 del 21 gennaio 2020 e la giurisprudenza ivi richiamata).

In sostanza, una volta disposta con sentenza penale definitiva la pena accessoria della rimozione del pubblico dipendente, il relativo provvedimento amministrativo costituisce un atto dovuto e vincolato, autonomamente applicabile, senza che all’amministrazione residui alcun margine di discrezionalità in ordine alla possibilità di adottare una autonoma misura disciplinare all’esito di una differente valutazione della vicenda penale, dovendosi limitare ad accertare che sussistano nella fattispecie i presupposti richiesti dalla legge (Cons. giust. amm., 27 maggio 2019, n. 490).

8. Con specifico riguardo alla disposizione di cui all’art. 866, comma 1, del codice dell’ordinamento militare, anche la relazione illustrativa al codice (p. 179) ha precisato che la stessa “ non disciplina un’ipotesi di destituzione automatica, ma il necessario raccordo tra provvedimenti giurisdizionali comportanti l’applicazione di una pena accessoria (militare od ordinaria) che inibisce all’interessato la conservazione del proprio ufficio o grado e, quindi, la conseguente esplicazione dei suoi doveri funzionali e della stessa prestazione del servizio [...]”.

L’art. 923 del medesimo codice (lettere da a ] ad m-bis]), elenca le cause di cessazione dal servizio permanente (estensibili anche al personale in servizio temporaneo ex art. 936, co.3, cod. ord.mil.);
fra queste, spiccano quelle di cui alle lettere:

- i) perdita del grado

- m) perdita dello stato di militare a seguito di degradazione, ai sensi dell’art. 622 cod. ord. mil.

A loro volta, le cause di perdita del grado sono enumerate nell’art. 861.

Il già citato art. 866 individua poi i due casi in cui la perdita del grado discende automaticamente dalla condanna penale senza preventivo giudizio disciplinare: irrogazione della pena accessoria ordinaria della interdizione temporanea dai pubblici uffici (dichiarato incostituzionale);
ovvero irrogazione della pena accessoria militare della rimozione.

L’art. 867 cod. ord. mil., infine, disciplina la forma, l’organo competente e la decorrenza della perdita del grado stabilendo, al comma 3, che se la perdita del grado consegue a condanna penale, la stessa decorre dal passaggio in giudicato della sentenza.

E’ stato così realizzato un impianto armonioso e graduale del sistema delle cause di cessazione dal servizio permanente per condotte poste in essere dal militare contra legem ;
infatti:

- per le ipotesi minori, la misura espulsiva è ammessa all’esito di apposito giudizio disciplinare;

- per quelle più rilevanti (condanna penale non sospesa condizionalmente per reati militari ovvero delitti non colposi, con applicazione della sanzione penale accessoria della rimozione, applicazione di misure di sicurezza e prevenzione, dunque con filtro operato dal giudice penale allorquando nega la sospensione condizionale, ovvero dalla Corte militare d’appello in occasione della inflizione della misura di sicurezza o prevenzione), si prevede la cessazione automatica dal rapporto di impiego con mantenimento dello status di militare al livello gerarchico più basso ( ex art. 631, comma 2, del codice, militare di truppa senza grado: soldato semplice, comune di 2 classe, aviere, allievo);

- per quelle di massima gravità, infine, oltre alla cessazione dal servizio viene meno ab origine la qualità di militare attraverso l’istituto della degradazione (tale assetto è stato espressamente recepito dalla sentenza della Corte costituzionale n. 268 del 2016, §§ 6.2. e 6.3.).

In particolare, la Corte, nel dichiarare costituzionalmente illegittimi gli articoli 866, comma 1, 867, comma 3 e 923, comma 1, lettera i) del Codice dell’ordinamento militare “ nella parte in cui non prevedono l’instaurarsi del procedimento disciplinare per la cessazione dal servizio per perdita del grado conseguente alla pena accessoria della interdizione temporanea dai pubblici uffici ” ha espressamente e specificamente valorizzato, a sostegno della decisione di accoglimento, il carattere “ provvisorio e, quindi, tale da non escludere la prosecuzione del rapporto momentaneamente interrotto ” proprio della pena accessoria dell’interdizione temporanea dai pubblici uffici.

Vi sono, dunque, evidenti ragioni per ritenere che il decisum della Corte non sia estensibile alle conseguenze delle pene accessorie di carattere perpetuo, quali l’interdizione perpetua dai pubblici uffici (art. 28 c.p.), l’estinzione del rapporto di lavoro o di impiego (art. 32- quinquies c.p.) e la rimozione.

Con riferimento all’interdizione perpetua dai pubblici uffici ed all’estinzione del rapporto di lavoro o di impiego, infatti, nell’arresto citato supra la Corte (con argomentazioni perfettamente riferibili anche all’ipotesi della rimozione) ha espressamente sostenuto che “ solo eccezionalmente l’automatismo [della destituzione del militare] potrebbe essere giustificato: segnatamente quando la fattispecie penale abbia contenuto tale da essere radicalmente incompatibile con il rapporto di impiego o di servizio, come ad esempio quella sanzionata anche con la pena accessoria dell’interdizione perpetua dai pubblici uffici ex art. 28, secondo comma, cod. pen. (sentenze n. 286 del 1999 e n. 363 del 1996) o dell’estinzione del rapporto di impiego ex art. 32-quinquies c.p.. Queste ragioni di incompatibilità assoluta con la prosecuzione del rapporto di impiego – che giustifica l’automatismo destitutorio non come sanzione disciplinare, ma come effetto indiretto della pena già definitivamente inflitta – non sussiste in relazione all’interdizione temporanea dai pubblici uffici ex art. 28, terzo comma, cod. pen., connotata per definizione da un carattere provvisorio e, quindi, tale da non escludere la prosecuzione del rapporto momentaneamente interrotto ”.

Le esposte considerazioni consentono di ritenere superate le argomentazioni svolte nella precedente pronuncia della Corte costituzionale n. 363 del 1996, richiamate nella decisione del ricorso straordinario, della cui esecuzione di verte, essendo peraltro riferite ad un corpus normativo nel frattempo abrogato.

In tal senso depone infine, a ben vedere, anche la sentenza della Corte costituzionale n. 276 del 20 novembre 2013 la quale, nel dichiarare inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 866, comma 1, del c.o.m. ha evocato l’evoluzione del contesto normativo di riferimento, anche per quanto riguarda il pubblico impiego in generale, caratterizzato dall’inasprimento delle sanzioni accessorie relative all’interdizione dai pubblici uffici e correlativamente, delle conseguenze relative al rapporto di lavoro con la pubblica amministrazione “ anche attraverso la previsione di ipotesi di estinzione automatica a seguito di condanna in sede penale, come risulta dal nuovo testo dell'art. 32-quinquies del codice penale ”.

Anche la disposizione qui in rilievo deve quindi “ essere necessariamente valutata in riferimento a tale contesto normativo, tanto più che essa è contenuta nel nuovo ordinamento militare, di cui al già citato d.lgs. n. 66 del 2010, ed è quindi coeva a questa linea legislativa particolarmente severa nei confronti dei reati contro la pubblica amministrazione ”.

La Corte ha quindi ritenuto ormai insufficiente “ il generico riferimento dell'ordinanza di rimessione al principio generale in tema di destituzione del pubblico impiegato, contenuto nella legge n. 19 del 1990, e alla giurisprudenza costituzionale che intorno ad esso si è sviluppata ”.

8. Per quanto testé argomentato, il ricorso deve essere respinto.

Tuttavia, la novità della questione giustifica l’integrale compensazione delle spese.

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