Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza 2014-03-25, n. 201401458

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Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza 2014-03-25, n. 201401458
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 201401458
Data del deposito : 25 marzo 2014
Fonte ufficiale :

Testo completo

N. 05369/2011 REG.RIC.

N. 01458/2014REG.PROV.COLL.

N. 05369/2011 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 5369 del 2011, proposto da:
Ministero della Giustizia - Dipartimento Amministrazione Penitenziaria, in persona del legale rappresentante in carica, rappresentato e difeso dalla Avvocatura Generale dello Stato, presso i cui uffici in Roma, alla Via dei Portoghesi n. 12, è domiciliato per legge;

contro

D I, rappresentato e difeso dall'avv. M A, con domicilio eletto presso Fabio Moneta in Roma, via Carlo Poma, 2;

per la riforma

della sentenza del T.A.R. della CAMPANIA – Sezione Staccata di SALERNO - SEZIONE I n. 13466/2010, concernente irrogazione della sanzione disciplinare della destituzione dal servizio.


Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visto l'atto di costituzione in giudizio di D I;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 4 marzo 2014 il Consigliere Fabio Taormina e udito per parte appellante l’ Avvocato dello Stato Giulio Bacosi;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO

Con la sentenza in epigrafe appellata il Tar della Campania – sede di Salerno - ha deciso – previa riunione- due ricorsi proposti dall’odierna parte appellata Signor Ielpo Domenico.

Con il primo ricorso (n. 3809 del 2000), corredato da motivi aggiunti, l’odierno appellato aveva gravato il decreto n. 002477/10915 del 24.7.2000 del Vice Capo del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria del Ministero di Grazia e Giustizia, recante l’irrogazione della sanzione disciplinare della destituzione dal servizio, nonché degli atti connessi, presupposti e consequenziali, ivi compresi l’atto di contestazione degli addebiti del 3.12.1999 e la deliberazione del 23.6.2000 con la quale il Consiglio di Disciplina aveva proposto di irrogare al predetto la sanzione disciplinare della destituzione dal servizio.

Con il secondo mezzo, (ricorso n. 2600 del 2001) l’odierno appellato aveva gravato il decreto n. 0191418 del 31.7.2001, con il quale il Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria del Ministero della Giustizia gli aveva irrogato la sanzione disciplinare della destituzione dal servizio a decorrere dal 13.10.1995.

Erano state prospettate dall’ odierno appellato numerose censure di violazione di legge ed eccesso di potere.

L’adito Tribunale amministrativo regionale ha dichiarato improcedibile il primo ricorso, in quanto “superato” dalla successiva determinazione avente identico contenuto dispositivo, ed ha concentrato l’esame su quest’ultima.

Ha in proposito ripercorso il risalente contenzioso e le principali tappe infraprocedimentali che lo avevano contraddistinto ed ha rammentato che l’odierno appellato in data 13.10.1995 era stato sospeso dal servizio in quanto sottoposto a procedimento penale per il reato di cui all’art. 323 c.p., in relazione a fatti asseritamente commessi mentre prestava servizio presso la Casa Circondariale di Salerno – Fuorni.

Il Tribunale Penale di Salerno, con sentenza della III Sezione n. 592 del 23.11.1998, lo aveva assolto perché i fatti ascrittigli non erano più previsti dalla legge come reato.

Notificata la citata sentenza all’Amministrazione Penitenziaria, questa non ne aveva disposto la riammissione in servizio, pur non essendo stato iniziato il procedimento disciplinare nei termini previsti dalle vigenti disposizioni: invece, solo con atto del 3.12.1999, era stata effettuata nei suoi confronti la contestazione degli addebiti.

Egli aveva conseguentemente gravato la prima determinazione destitutiva nell’ambito del ricorso di primo grado n. 3809 del 2000 ed aveva ottenuto dal Tar tutela cautelare(ordinanza cautelare n. 2313 del 6.12.2000): l’appello proposto dall’Amministrazione innanzi al Consiglio di Stato era stato dichiarato irricevibile(l’ordinanza della IV Sezione del Consiglio di Stato n. 2951 del 22.5.2001).

Egli aveva agito per l’ottemperanza alla detta ordinanza cautelare ed aveva ottenuto la reintegrazione del ricorrente (conseguita solo per effetto dell’ordinanza del Tar n. 770 del 21.6.2001, disponente l’esecuzione della precedente ordinanza cautelare n. 2313/2000).

Senonchè l’Amministrazione il giorno successivo alla reintegrazione del medesimo aveva revocato il provvedimento sanzionatorio originario e disposto nuovamente la propria destituzione: il provvedimento di destituzione originariamente impugnato era stato infatti revocato dall’amministrazione intimata con il decreto n. 0191418 del 31.7.2001: anche quest’ultimo tuttavia era stato impugnato con l’autonomo ricorso n. 2600/2001 in quanto esso aveva disposto nuovamente la destituzione dell’originario ricorrente.

Ciò premesso, il Tar ha posto in luce che i fatti contestati con entrambi i provvedimenti destituivi coincidevano con quelli per i quali il suddetto era stato sottoposto a processo penale per il reato di cui all’art. 323 c.p., conclusosi con la sentenza di assoluzione n. 592 del 23.11.1998 pronunciata dal Tribunale Penale di Salerno non essendo gli stessi fatti più previsti dalla legge come reato: essi, sul diverso piano della valutazione disciplinare, erano stati ritenuti dall’amministrazione intimata indicativi “della mancanza del senso dell’onore e del senso morale e del dovere”, mal coniugantisi con “il doveroso rispetto delle norme che ogni appartenente ad un Corpo dello Stato deve sempre dimostrare” e fonte di “pregiudizio per il rapporto di fiducia e di affidabilità sul quale inderogabilmente deve essere improntato il servizio”.

In particolare, i fatti addebitati (atto di contestazione degli addebiti del 3.12.1999) riposavano nell’avere l’appellato “in concorso con altre persone in numero superiore a cinque, con più azioni esecutive del medesimo disegno criminoso, nella sua qualità di agente di Polizia Penitenziaria durante il servizio prestato presso la Casa Circondariale di Salerno, abusando dei poteri e comunque violando i doveri inerenti il suo ufficio, procurare vantaggi, non patrimoniali, a vari detenuti introducendo direttamente o comunque favorendo l’introduzione all’interno della citata Casa Circondariale di generi alimentari e altri generi voluttuari proibiti, di telefonini cellulari, batterie e accessori per la ricarica delle stesse, utilizzati dai detenuti nonché la fuoriuscita di telefoni cellulari ed accessori dalla Casa Circondariale di Salerno dopo ogni utilizzazione ai fini di garantirne l’occultamento e la possibilità di ricarica”.

Il primo giudice ha poi rammentato che già nella pronuncia cautelare n. 2313 del 6.12.2000, era stato rilevato che “i fatti contestati al ricorrente sono espressamente ricompresi in fattispecie di illecito disciplinare comportanti sanzione diversa rispetto a quella inflitta (artt. 2, 3 e 5 d.lgs n. 449/1992)” e che non appariva “rispettato, anche in relazione al conseguente obbligo di esternazione, il principio di graduazione e proporzionalità”.


Tuttavia il primo ricorso doveva essere dichiarato improcedibile in quanto il provvedimento ivi gravato era stato sostituito da altro provvedimento, avente identico contenuto.

Quanto a quest’ultimo,il primo giudice ha affermato la fondatezza della censura intesa a lamentare la violazione nella quale era incorsa l’Amministrazione nel dare avvio al procedimento disciplinare, dei termini di cui all’art. 7, comma 6, d.lgs n. 449/1992, ai sensi del quale “quando da un procedimento penale comunque definito emergono fatti e circostanze che rendano l’appartenente al Corpo di polizia penitenziaria passibile di sanzioni disciplinari, questi deve essere sottoposto a procedimento disciplinare entro il termine di 120 giorni dalla data di pubblicazione della sentenza, oppure entro 40 giorni dalla data di notificazione della sentenza stessa all’Amministrazione”.


Ciò in quanto, la sentenza di assoluzione pronunciata dal Tribunale Penale di Salerno nei confronti dell’odierno appellato (sentenza della Terza Sezione n. 592 del 23.11.1998), all’esito del processo penale avente ad oggetto i medesimi fatti poi scrutinati sotto il profilo disciplinare, era stata depositata il 2 giugno 1999 ed era stata notificata all’ Amministrazione intimata nei giorni 1 ed 8 luglio 1999.

Alla stregua di tale cronologia, doveva rilevarsi la tardività dell’atto di contestazione degli addebiti, recante la data del 3.12.1999 (in quanto reso oltre il termine perentorio - centoventi giorni dalla data di pubblicazione della sentenza o quaranta giorni da quella della sua notificazione all’amministrazione - fissato dall’art. 7, comma 6, d.lgs n. 449/1992).

Il detto ritardo, già inficiante il provvedimento sanzionatorio del 24.7.2000, non poteva non ritenersi caratterizzare –ad avviso del Tar- anche il successivo provvedimento applicativo della sanzione della destituzione dal servizio, adottato in data 31.7.2001, dal momento che all’ordinanza cautelare del Tar n. 2313/2000, che aveva sancito la sospensione degli effetti del provvedimento originario sulla scorta di diversi (rispetto a quelli relativi alla tardività della contestazione evidenziati) profili di illegittimità, non poteva riconoscersi alcun effetto rinnovatorio del termine ormai irreversibilmente consumato: la citata ordinanza cautelare, aveva carattere sospensivo tout court, non rivestiva alcun contenuto propulsivo tale da imporre (e così fondare su di una base legittimante autonoma rispetto a quella normativa, temporalmente circoscritta nei termini evidenziati) la riedizione del potere amministrativo esercitato con il provvedimento originario.

Il (secondo) provvedimento irrogativo della sanzione disciplinare della destituzione è stato, pertanto, annullato con assorbimento delle altre censure.

Il Tar ha invece dichiarato inammissibile, la domanda di condanna dell’amministrazione intimata al risarcimento del danno, siccome proposta con semplici memorie (depositate, in data 15.10.2010, agli atti dei giudizi introdotti con i ricorsi riuniti) e non nella forma, (processualmente appropriata trattandosi di domanda nuova) dei motivi aggiunti.

Avverso la sentenza in epigrafe l’amministrazione originaria resistente in primo grado ha proposto un articolato appello riepilogando l’andamento infraprocedimentale e facendo presente che le condotte accertate rendevano necessaria l’irrogazione della sanzione disciplinare.

L’appellato ha depositato una articolata memoria chiedendo la reiezione dell’appello perché infondato.

All’adunanza camerale del 26 luglio 2011 la Sezione con la ordinanza n. 03289/2011

ha respinto l’istanza di sospensione della esecutività della impugnata decisione alla stregua della considerazione per cui “ritenuto che l’appello cautelare in epigrafe non può essere accolto, ostando a ciò perlomeno – nella presente fase di sommaria delibazione della fattispecie – la tardività del procedimento disciplinare che, nella specie, ha determinato l’irrogazione della sanzione disciplinare per cui è causa ”;

Alla odierna pubblica udienza del 4 marzo 2014 la causa è stata trattenuta in decisione dal Collegio.

DIRITTO


1.La sentenza deve essere confermata previa declaratoria di infondatezza dell’appello.

1.1. Quest’ultimo non muove infatti significative censure alla affermata tardività dell’avvio del procedimento disciplinare in pregiudizio dell’appellato.

2. L'art. 7, del D.Lgs. n. 449 del 1992 così dispone: L'appartenente al Corpo di polizia penitenziaria, in stato di arresto o di fermo o che si trovi, comunque, in stato di custodia cautelare, deve essere sospeso dal servizio con provvedimento del Direttore generale dell'Amministrazione penitenziaria.

Fuori dei casi previsti nel comma 1, l'appartenente ai ruoli del Corpo di polizia penitenziaria sottoposto a procedimento penale, quando la natura del reato sia particolarmente grave, può essere sospeso dal servizio con provvedimento del Ministro, su proposta del Direttore generale dell'Amministrazione penitenziaria.

In caso di mancata convalida dell'arresto o del fermo, e nei casi di cui al Capo V - Titolo I - Libro IV del codice di procedura penale, ove le circostanze lo consiglino, la sospensione cautelare può essere revocata con effetto dal giorno successivo a quello in cui il dipendente ha riacquistato la libertà e con riserva di riesame del caso quando sul provvedimento penale si è formato il giudicato.

I relativi provvedimenti sono adottati dal Ministro, su proposta del Direttore generale dell'Amministrazione penitenziaria.

Se il procedimento penale è definito con sentenza la quale dichiari che il fatto non sussiste o che l'imputato non lo ha commesso, la sospensione è revocata a tutti gli effetti.

Quando da un procedimento penale comunque definito emergono fatti e circostanze che rendano l'appartenente al Corpo di polizia penitenziaria passibile di sanzioni disciplinari, questi deve essere sottoposto a procedimento disciplinare entro il termine di 120 giorni dalla data di pubblicazione della sentenza, oppure entro 40 giorni dalla data di notificazione della sentenza stessa all'Amministrazione.

Se il procedimento penale si conclude con sentenza di proscioglimento o di assoluzione per motivi diversi da quelli contemplati nel comma 5, la sospensione cautelare può essere mantenuta qualora venga iniziato o ripreso il procedimento disciplinare.

Il comma 6 della citata disposizione, quindi, scolpisce la seguente regola :"Quando da un procedimento penale comunque definito emergono fatti e circostanze che rendano l'appartenente al Corpo di polizia penitenziaria passibile di sanzioni disciplinari, questi deve essere sottoposto a procedimento disciplinare entro il termine di 120 giorni dalla data di pubblicazione della sentenza, oppure entro 40 giorni dalla data di notificazione della sentenza stessa all'Amministrazione". Di recente la Sezione ha affermato che (Cons. Stato Sez. IV, 13-05-2011, n. 2942)” in riferimento alla decorrenza del termine, tale norma deve necessariamente essere interpretata in modo tale da garantire che l'azione amministrativa si svolga secondo i canoni del giusto procedimento e del buon andamento, che suggeriscono di individuare il dies a quo del termine in questione dalla data di conoscenza della pronunzia penale. Diversamente opinando, si perverrebbe alla conclusione, illogica e contraddittoria, di sottoporre l'esercizio del potere disciplinare al termine decadenziale in questione senza che l'Amministrazione competente abbia alcuna conoscenza degli elementi fattuali emersi in sede penale e suscettibili di legittimare il procedimento sanzionatorio.”

Con riferimento al caso di specie, il giudice di prime cure ha rilevato che la contestazione ha avuto luogo ben oltre i termini (40 giorni dalla notifica, ma anche, a tutto concedere, 120 giorni dalla pubblicazione della sentenza) dovendosi, pertanto, considerare intempestiva, secondo noto orientamento giurisprudenziale (Consiglio Stato, sez. IV, n. 3827/2007): la sentenza infatti era stata depositata il 2 giugno 1999 ed era stata notificata all’ Amministrazione intimata nei giorni 1 ed 8 luglio 1999, mentre l’atto di contestazione degli addebiti, recava la data del 3.12.1999.

2.1. Non v’è dubbio, pertanto, che ci si trovi al cospetto di un avvio del procedimento disciplinare ritardato rispetto al termine perentorio fissato nella detta disposizione.

2.2. A questo punto, avuto riguardo al concreto dipanarsi dell’azione amministrativa(come rammentato l’Amministrazione emise successivamente un nuovo procedimento avente stesso oggetto del primo -decreto n. 0191418 del 31.7.2001- parimenti gravato) il Collegio deve dare risposta a due –in parte connessi- quesiti.

Il primo di essi, riposa nella interpretazione da fornire in ordine al termine scolpito nella surriportata disposizione: occorre interrogarsi, quindi, sulla natura perentoria o meno del medesimo.

Il secondo, concerne le conseguenze discendenti dall’ eventuale giudizio di perentorietà del detto termine, e sulla possibilità che la eventuale violazione del medesimo possa essere successivamente “sanata” dall’Amministrazione mercè la emanazione di un (ulteriore) provvedimento che abbia lo stesso oggetto del primo.

2.2. 1. Quanto al primo profilo, non è dubitabile ad avviso del Collegio che il termine per l’inizio dell’azione disciplinare sia di natura perentoria, come anche in generale stabilito dalla condivisibile giurisprudenza per tutti i termini aventi tale natura (ex aliis: Consiglio di Stato sez. IV

21/05/2013 n. 2738).

La ratio della perentorietà del termine è quella di evitare la protrazione di rapporti di impiego con soggetti “eterni giudicabili” e, ovviamente, essa presidia anche la citata disposizione.

2.2.2. Quanto al secondo profilo, la natura perentoria del termine implica che la lesione al bene giuridico sotteso alla detta perentorietà, è immediata;
si consuma istantaneamente;
non è suscettibile di essere emendata dall’ Amministrazione.

Ritenere il contrario, comporterebbe una inammissibile smentita sostanziale della detta natura perentoria, ed implicherebbe anche una incomprensibile aporia sistematica: l’Amministrazione, soccombente in un giudizio che abbia dichiarato la inosservanza del detto termine annullando per tal ragione la sanzione, ne uscirebbe in sostanza vittoriosa se potesse ad nutum riesercitare il potere sanzionatorio, come se questo non si fosse giammai consumato.

Di converso, il destinatario del provvedimento risultato vittorioso sarebbe esposto alla intrapresa di una nuova azione disciplinare e, di conseguenza, la pronuncia giudiziale accertativa dell’avvenuto sforamento del termine (e, prima ancora, la stessa previsione legislativa del termine de quo) sarebbe inutiliter data.

2.3 Così non può essere, ovviamente e, pertanto, sotto tale assorbente profilo, il petitum appellatorio va integralmente disatteso, mentre tutti gli argomenti di doglianza non espressamente esaminati sono stati dal Collegio ritenuti non rilevanti ai fini della decisione e comunque inidonei a supportare una conclusione di tipo diverso.

3. La natura della controversia, e la particolarità delle questioni esaminate consente ed impone la integrale compensazione tra le parti delle spese del grado di giudizio sostenute.

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