Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza 2011-09-16, n. 201105233

Sintesi tramite sistema IA Doctrine

L'intelligenza artificiale può commettere errori. Verifica sempre i contenuti generati.Beta

Segnala un errore nella sintesi

Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza 2011-09-16, n. 201105233
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 201105233
Data del deposito : 16 settembre 2011
Fonte ufficiale :

Testo completo

N. 05248/2009 REG.RIC.

N. 05233/2011REG.PROV.COLL.

N. 05248/2009 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 5248 del 2009, proposto da:
R F, rappresentato e difeso dall'avv. A B, con domicilio eletto presso A B in Roma, via Taranto, 18;

contro

Comune di Montoro Superiore, rappresentato e difeso dall'avv. G D G, con domicilio eletto presso Elio Benigni in Roma, via Vittorio Colonna, . 18;

per la riforma

della sentenza del T.A.R. CAMPANIA - SEZ. STACCATA DI SALERNO: SEZIONE II n. 00669/2009, resa tra le parti, concernente ESPROPRIAZIONE ED OCCUPAZIONE DI SUOLO


Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visto l'atto di costituzione in giudizio di Comune di Montoro Superiore;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 31 maggio 2011 il Cons. Oberdan Forlenza e uditi per le parti gli avvocati A B, Andrea Di Lieto, su delega dell'avv. G D G;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO

1. Con l’appello in esame, il sig. Felice Rocco impugna la sentenza del TAR Campania, sede di Salerno, sez. II, 26 febbraio 2009 n. 669, con la quale si è rigettato il suo ricorso ed il successivo ricorso per motivi aggiunti avverso una pluralità di atti relativi al procedimento di espropriazione ed occupazione di un suolo ubicato nel Comune di Montoro Superiore.

La controversia attiene alla occupazione/espropriazione di terreni ubicati nel Comune citato (foglio 10, pt. 489 e 490) per la costruzione di una arteria viaria, procedimenti per i quali il Rocco (indicato in catasto come “livellario” unitamente all’Arciconfraternita dello Spirito Santo, “concedente”) non aveva ricevuto alcuna comunicazione. In realtà, gli atti inerenti al procedimento erano stati comunicati all’Arciconfraternita, nella sua qualità di concedente e quindi, nella prospettazione del Comune di Montoro Superiore, tuttora proprietaria coma da risultanze catastali.

Afferma la decisione appellata:

- “il livello è un diritto reale, assimilabile all’enfiteusi, con la conseguenza che è alla disciplina di quest’ultima che occorre fare riferimento”, di modo che, essendo l’enfiteusi un diritto reale di godimento in favore di un concessionario sul fondo, allo stesso modo deve ritenersi per il livellario, ferma restando il diritto di proprietà in capo al concedente, che “è e resta proprietario fino all’affrancazione”;

- l’istituto del “livello” o “precario” non è assimilabile al “diverso fenomeno dell’affrancazione dei terreni, gravati da usi civici, identificazione che oltre ad essere in contrasto con il dato letterale . . . è palesemente smentita dalla storia del cd. “precario”;

- correttamente l’amministrazione ha inviato atti e comunicazioni all’Arciconfraternita dello Spirito Santo in Aterrana, risultando la stessa al catasto “quale titolare del diritto del concedente”. A fronte di ciò, “perché il livellario potesse divenire, oltre che titolare dei poteri sostanziali sul fondo, anche il proprietario, a tutti gli effetti, del medesimo”, occorre l’affrancazione.

Avverso tale decisione, vengono proposti i seguenti motivi di appello:

error in iudicando;
violazione artt. 11, 16 e 17 DPR n. 327/2001;
artt. 7, 8 e 10 l. n. 241/1990;
difetto ed erroneità della motivazione;
ciò in quanto:

a) “la sentenza appellata . . . fonda sull’erroneo e indimostrato postulato dell’equiparazione dell’istituto del livello (che, nel caso di specie, è del tipo “ecclesiastico”) a quello civilistico dell’enfiteusi”. Ed infatti, “il livellario ecclesiastico, anche catastalmente, è il proprietario” e su di esso “in quanto proprietario, grava un’onere reale, ossia un obbligo personale nei confronti dell’ente ecclesiastico concedente”. Ai fini della ricostruzione, è inconferente il richiamo effettuato in sentenza alle cd. leggi eversive, “in quanto le stesse fanno riferimento a fattispecie riconducibili esclusivamente al livello tout court e non al livello ecclesiastico”;

b) “l’istituto del livello ecclesiastico o decima trova il suo fondamento sul piano squisitamente religioso”, costituendo essi (decime ecclesiastiche o livelli ecclesiastici) “un’imposta o un tributo che, per la legge della Chiesa, dovevano essere periodicamente pagate al parroco o al vescovo o ad un’altra autorità ecclesiastica, per contribuire al mantenimento di chi svolgeva le funzioni di pubblico culto” (cd. decime sacramentali). Oltre a tali decime, sono state nel tempo costituite “decime dominicali”, consistenti nel pagamento periodico di una quota dei frutti di un fondo a chi aveva concesso, a mezzo di un titolo pubblico o privato, il fondo ai suoi discendenti o eredi. Infine, ai sensi dell’art. 1 l. 14 luglio 1887 n. 4727, mentre le decime sacramentali sono state abolite, le decime dominicali sono state conservate e commutate in un canone annuo fisso in denaro, affrancabile”;

c) il livello ecclesiastico non è riconducibile all’enfiteusi, in quanto non vi è affatto obbligo di miglioramento del fondo e il livello è imprescrittibile, a fronte della prescrittibilità dell’enfiteusi. Infatti, “l’ente concedente era soltanto titolare di un diritto ad una prestazione nei confronti del livellario, e cioè diritto ad una prestazione di natura squisitamente personale”, assistito dal diritto di seguito (o di sequela), che “consentiva al livello di gravare su chi era proprietario del fondo, anche in caso di trasferimento della proprietà del fondo medesimo”. In definitiva, “in quanto diritto ad una determinata prestazione, caratterizzato da diritto di seguito, il livello ecclesiastico andava inquadrato nell’ambito degli oneri reali” che gravano sul soggetto passivo perché proprietario della cosa onerata (non direttamente sulla cosa), di modo che l’ente ecclesiastico “è titolare solo di un diritto di credito ad una determinata prestazione”;

d) in definitiva, “la dicitura risultante dal catasto “R F livellario” identificava con certezza quest’ultimo quale proprietario esclusivo del terreno espropriato al quale, ai sensi di legge, andavano effettuate le notifiche concernenti la procedura ablatoria”;

e) in ogni caso, il Comune di Montoro Superiore era comunque a conoscenza della qualità di proprietario effettivo del sig. R F, per avere egli in precedenza presentato una richiesta di frazionamento delle aree oggetto oggi della controversia, sulla quale l’ente si è favorevolmente pronunciato.

Si è costituito in giudizio il Comune di Montoro Superiore, che ha preliminarmente eccepito la nullità dell’appello “per carenza degli elementi di cui al n. 3 dell’art. 163 c.p.c. e l’improcedibilità dello stesso per sopravvenuto difetto di interesse (v. pag. 23-24 memoria di costituzione Comune), ed ha comunque concluso richiedendo il rigetto dell’appello, stante la sua infondatezza.

All’odierna udienza, la causa è stata riservata in decisione.

DIRITTO

2. L’appello è infondato e deve essere, pertanto, respinto, potendosi conseguentemente prescindere dalle eccezioni di nullità ed improcedibilità sollevate dall’appellato Comune di Montoro Superiore.

Ai fini della presente decisione, giova innanzi tutto osservare che il giudice di I grado ha ritenuto (in ciò concordando l’appellante: v. pag. 17 appello), che, nella presente controversia, in sostanza “la questione da risolvere . . . investe il quesito se la notifica degli atti espropriativi, concernenti la procedura ablatoria in oggetto, condotta dal Comune di Montoro Superiore, andasse effettuata – come è in effetti avvenuto – nei confronti dell’Arciconfraternita dello Spirito Santo, concedente, ovvero di R F, livellario” (pag. 8 sentenza).

Tanto precisato, occorre innanzi tutto ricordare che l’art. 3 DPR n. 327/2001, prevede, per quel che interessa nella presente sede:

(comma 2) “Tutti gli atti della procedura espropriativa, ivi incluse le comunicazioni ed il decreto di esproprio, sono disposti nei confronti del soggetto che risulti proprietario secondo i registri catastali, salvo che l'autorità espropriante non abbia tempestiva notizia dell'eventuale diverso proprietario effettivo. Nel caso in cui abbia avuto notizia della pendenza della procedura espropriativa dopo la comunicazione dell'indennità provvisoria al soggetto che risulti proprietario secondo i registri catastali, il proprietario effettivo può, nei trenta giorni successivi, concordare l'indennità ai sensi dell' articolo 45 , comma 2.”

(comma 3) “Colui che risulta proprietario secondo i registri catastali e riceva la notificazione o comunicazione di atti del procedimento espropriativo, ove non sia più proprietario è tenuto di comunicarlo all'amministrazione procedente entro trenta giorni dalla prima notificazione, indicando altresì, ove ne sia a conoscenza, il nuovo proprietario, o comunque fornendo copia degli atti in suo possesso utili a ricostruire le vicende dell'immobile.”.

In sensi analoghi (considerando, cioè, il proprietario risultante dai registri catastali) già dispone anche l’art. 10 l. n. 865/1971.

Dall’art. 3 DPR n. 327/2001 cit., consegue che, in linea generale, non possono essere prospettate violazioni delle norme afferenti alla comunicazione degli atti espropriativi e, quindi, violazione del principio di partecipazione al procedimento amministrativo, una volta che l’amministrazione abbia effettivamente disposto le comunicazioni in favore dei proprietari risultanti dai registri catastali (Cons. Stato, sez. IV, 26 febbraio 2008 n. 677), salvo che l’amministrazione non abbia “notizia dell’eventuale diverso proprietario effettivo”.

Quanto a tale “notizia” - che, ai sensi dell’art. 3, comma 2, DPR n. 327/2001, ove sussistente, impone all’amministrazione di procedere alla comunicazione non già al proprietario “catastale” (secondo la regola generale) ma a quello “effettivo”, essendo quest’ultimo da essa conosciuto - occorre osservare che essa non può essere rappresentata, o essere comunque desunta, da un qualsivoglia atto che, in tempi ed in procedimenti diversi, sia comunque pervenuto alla pubblica amministrazione, ma deve essere correttamente intesa come una notizia recante l’emersione del “vero” proprietario, acquisita dalla pubblica amministrazione nell’ambito della medesima o in diversa procedura espropriativa, o nel corso delle attività a questa propedeutiche. Occorre, quindi, una conoscenza dell’effettivo proprietario che sia certa (incombendo l’onere della prova della conoscenza su chi eccepisce l’illegittimità delle comunicazioni effettuate al proprietario “catastale”), e non solo astrattamente desumibile dalla presenza di un qualsivoglia atto, prodotto o acquisito in tempi e procedimenti diversi da quello espropriativo, cui l’obbligo di comunicazione degli atti afferisce.

Da quanto ora esposto, consegue che non può costituire prova della conoscenza del proprietario effettivo, ai fini del procedimento espropriativo, la circostanza che l’appellante in epoca antecedente (e risalente) aveva presentato una proposta di frazionamento ex art. 18 l. n. 476/1985, assentita dal Comune di Montoro Superiore.


3. Tanto chiarito, occorre osservare che l’appellante in sostanza rivendica (in ciò censurando la sentenza di I grado) che la definizione di “livellario”, cui il suo nome si accompagna nei registri catastali (a fronte della definizione di “concedente”, che accompagna l’Arciconfraternita dello Spirito Santo), attesa la natura giuridica del “livello ecclesiastico”, indica la titolarità di un diritto di proprietà sull’immobile, di modo che l’amministrazione avrebbe dovuto procedere alla comunicazione nei suoi confronti degli atti del procedimento espropriativo,con conseguente illegittimità degli atti medesimi per non essersi a ciò adempiuto.

La prospettazione dell’appellante pone due distinti problemi:

- il primo consistente nello stabilire – impregiudicata ogni valutazione della posizione giuridica del livellario - se l’amministrazione che, ai sensi dell’art. 2, comma 2, DPR n. 327/2001 deve inviare le comunicazioni al “proprietario secondo i registri catastali”, debba attenersi alle risultanze “formali” di tali registri ovvero sia tenuta a compiere accertamenti e valutazioni al fine di stabilire – in assenza di una inequivoca risultanza catastale – la sussistenza (o meno) ed in capo a quale soggetto, del diritto di proprietà;

- il secondo, consistente appunto nello stabilire se, nel nostro ordinamento giuridico, la posizione del livellario (secondo l’appellante, più precisamente livellario “ecclesiastico”) corrisponda alla posizione del proprietario, di modo che, laddove - anche nei registri catastali - si usi il termine “livellario”, si intende indicare una posizione giuridica riconducibile al diritto di proprietà.

Quanto al primo dei problemi indicati, il Collegio ritiene che la ratio della norma in esame sia quella di agevolare il rapido svolgimento del procedimento espropriativo, secondo i criteri di economicità, efficacia e non aggravamento del medesimo, enunciati dall’art. 1 l. n. 241/1990. Ciò non comporta, tuttavia, una compressione delle garanzie, anche procedimentali, che devono assistere il privato coinvolto nel procedimento. Ed infatti il legislatore, a fronte della preferenza accordata alle risultanze formali emergenti dai registri catastali, ha anche previsto un obbligo (come tale fonte di responsabilità nel caso di comportamento omissivo) a carico di chi non sia più proprietario, ma tuttavia riceva le comunicazioni (in quanto risultante ancora proprietario al catasto), obbligo consistente nel “comunicarlo all’amministrazione procedente entro 30 giorni dalla prima notificazione”.

Proprio perché la ratio dell’art. 3 DPR n. 327/2001 è quella ora descritta, occorre affermare che l’amministrazione legittimamente si attiene alla risultanze catastali, non avendo essa onere (né tanto meno obbligo) di procedere a verifiche in fatto o a valutazioni in diritto, circa la sussistenza (o meno) di un diritto di proprietà.

Nel caso di specie, a fronte di due diverse indicazioni (“concedente” e “livellario”), l’amministrazione ha ragionevolmente ritenuto che la posizione di “concedente” implichi la titolarità del diritto reale (non potendo “concedere” facoltà o poteri afferenti al diritto reale chi di quel diritto non è titolare).

D’altra parte, come si evince anche dai ricorsi in I grado e dal ricorso in appello, la prospettata riconducibilità del livellario alla posizione del titolare del diritto di proprietà non si fonda su alcuna norma positiva dell’ordinamento giuridico (della quale, per principio generale, potrebbe affermarsi la dovuta conoscenza da parte dell’amministrazione), ma essa è sostenuta sulla base di argomentazioni complesse ed afferenti al diritto ecclesiastico ed alla ricostruzione storica dei rapporti tra enti ecclesiastici e privati.

Le considerazioni sin qui svolte sono di per sé sufficienti a sorreggere un giudizio di legittimità dell’operato della Pubblica Amministrazione, impregiudicata ogni diversa questione che possa porsi tra livellario e concedente in ordine alla effettiva titolarità del diritto di proprietà e alle sue ripercussioni nell’ambito del procedimento espropriativo.


3 Pur considerando corretto, per le ragioni esposte, l’operato dell’amministrazione nel caso di specie, quanto al secondo dei problemi sopra indicati questo Collegio ritiene che la posizione del “livellario” non sia riconducibile, nel nostro ordinamento, a quella del proprietario, ma essa debba essere più propriamente riportata – in ciò concordando con la giurisprudenza della Cassazione - alla posizione dell’enfiteuta.

Deve, innanzi tutto osservarsi che la Corte Costituzionale (sent. 15 luglio 1959 n. 46), nell’esaminare la legittimità costituzionale della disciplina dei cd. “livelli veneti”, di cui alla l. 15 febbraio 1958 n. 74, ha preso atto del fatto che “al nome "livello" non corrisponde nel diritto positivo vigente (e, del resto, non corrispondeva nel passato) né un istituto giuridico che presenti una sua propria autonomia rispetto all'enfiteusi. né un fenomeno giuridico abbracciante una serie di rapporti di un certo tipo con connotati specifici, univoci ed unilaterali”, riconoscendo tuttavia la legittimità costituzionale di previsioni che, nonostante la predetta equiparazione all’enfiteusi, distinguono taluni aspetti della disciplina del livello da quest’ultima.

Secondo la Corte di Cassazione (sez. II, 22 giugno 1963 n. 1682;
in senso conforme, Cass. Civ., sez. II, 12 giugno 1961 n. 1366 e 22 dicembre 1939 n. 3429), “vivamente controverso in dottrina è il problema circa l’esistenza nel diritto comune del livello, come istituto a sé, distinto dall’enfiteusi. E’ noto infatti che il termine livello deriva da libellus, con la quale espressione veniva indicata la scrittura e cioè lo strumento contrattuale con riferimento a vari tipi di rapporto. Ma, a parte i più antichi contratti livellari, è ben certo, secondo la giurisprudenza e la dottrina di questa Corte, che, nella successiva evoluzione storica fino ai giorni nostri, i nomi “livello” e “enfiteusi” vennero promiscuamente adoperati nell’uso comune, per modo che i predetti due istituti, pur se originariamente distinti, finirono in prosieguo, già prima delle codificazioni moderne, per confondersi ed unificarsi, con la conseguente estensione anche ai livelli della generale disciplina dell’enfiteusi”.

L?equiparazione del “livello” all’enfiteusi è stata ulteriormente confermata dalla giurisprudenza;
ed infatti il “livellario” viene parificato all’enfiteuta, e non al proprietario, nel caso di occupanti abusivi di fondi di proprietà di enti pubblici, successivamente legittimati ai sensi dell’art. 10 l. 16 giugno 1927 n. 1766 (Cass. Civ., sez. III, 8 gennaio 1997 n. 64, la quale afferma che “è assolutamente pacifico, infatti . . . che il "livello", pur essendo originariamente diverso dalla enfiteusi, nella sua evoluzione storica, si identifica con questo ultimo istituto”;
in senso conforme, anche Cass., Sez. Un., 22 maggio 1995 n. 5600).

A fronte delle considerazioni espresse dalla giurisprudenza del giudice ordinario, dalle quali il Collegio non ha ragioni di discostarsi, il livello deve essere, dunque, parificato all’enfiteusi, quanto alla considerazione dell’ordinamento e conseguente disciplina giuridica, di modo che il livellario – così come l’enfiteuta – è titolare di un diritto reale con pienezza di facoltà nei limiti previsti dalla disciplina del codice civile (artt. 957 ss.), su un bene di proprietà altrui, con obbligo di corrispondere un canone al proprietario e (nel caso dell’enfiteusi, non necessariamente nel caso del livello), con obbligo di migliorare il fondo.

In particolare, l’eventuale assenza dell’obbligo di migliorare il fondo (che, unitamente alla corresponsione del canone, costituisce obbligo dell’enfiteuta ex art. 960 c.c.), non porta ad escludere l’affermata assimilazione dei due istituti, posto che l’equiparazione si fonda su tratti caratterizzanti decisivi, quali la persistenza del diritto di proprietà in capo al soggetto concedente (come si desume dall’esistenza do un provvedimento o di un negozio di concessione) e, appunto, il pagamento del canone, (obbligazione di per sé incompatibile con la titolarità, in capo al medesimo soggetto, del diritto di proprietà).

Quanto sin qui esposto non è superato dalla prospettazione dell’appellante, che riconduce il livello, in discussione nel presente giudizio, all’istituto del livello ecclesiastico, ritenuto distinto sia dall’enfiteusi sia, è da ritenere, da altri “livelli”, conosciuti dalla legislazione statale e regionale.

In merito, occorre innanzi tutto osservare che ciò che importa in ordine ai diritti reali è il riconoscimento e la disciplina che ad essi accorda l’ordinamento giuridico vigente, di modo che – se pure un istituto può trovare origini, risalenti ed anche antiche, in diversi ordinamenti (quali quelli degli stati preunitari), ivi compreso l’ordinamento ecclesiastico – tale istituto deve trovare il proprio espresso riscontro in una norma dell’ordinamento giuridico italiano o da questo recepita, in virtù di accordi o convenzioni internazionali, ovvero in attuazione dell’art. 7 Cost.

In difetto di tale norma giuridica espressa, l’istituto, lungi dal potersi perpetuare secondo più o meno condivise discipline consuetudinarie o anche di altri e risalenti ordinamenti giuridici, deve essere necessariamente ricondotto, anche in via interpretativa, agli istituti tipici dell’ordinamento giuridico vigente, tenendo anche conto del numerus clausus dei diritti reali.

Nel caso di specie, l’appellante, a fronte di una articolata ricostruzione storica del livello ecclesiastico, non fornisce alcuna base normativa all’istituto, onde poter ricondurre la posizione del livellario a quella del proprietario (ed il livello o canone all’onere reale), di modo che anche gli elementi indicati quali fondanti la differenza dall’enfiteusi (pagg. 23-24 appello) si risolvono in affermazioni apodittiche, essendo esse prive di base normativa.

Da quanto esposto, consegue che il “livellario”, indicato nei registri catastali, non può essere assimilato al proprietario e, pertanto, non costituisce violazione dell’art. 3 DPR n. 327/2001 (e degli artt. 11, 16 e 17 del medesimo DPR), nonché degli artt. 7, 8 e 10 l. n. 241/1990, l’avere l’amministrazione inviato al concedente (che è proprietario) e non al livellario, le comunicazioni del procedimento espropriativo.

L’appello deve essere, dunque, respinto, con conseguente conferma della sentenza appellata.

Stante la natura e complessità delle questioni trattate, sussistono giusti motivi per compensare tra le parti spese, diritti ed onorari di giudizio.

Iscriviti per avere accesso a tutti i nostri contenuti, è gratuito!
Hai già un account ? Accedi