Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza 2018-09-20, n. 201805468
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Pubblicato il 20/09/2018
N. 05468/2018REG.PROV.COLL.
N. 02654/2017 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 2654 del 2017, proposto da:
Fox Petroli S.p.A., in persona del legale rappresentante p.t., rappresentata e difesa dagli avvocati M S, A V e S C, con domicilio eletto presso lo studio dell’avv. M S in Roma, viale Parioli, 180;
contro
Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, in persona del legale rappresentante p.t., rappresentato e difeso per legge dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliato in Roma, via dei Portoghesi, 12;
per la riforma
della sentenza del T.a.r. per il Lazio, Roma, Sezione II bis, n. 10768 del 2 novembre 2016.
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio dell’Avvocatura Generale dello Stato;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 12 luglio 2018 il Cons. Roberto Caponigro e uditi per le parti gli avvocati S C, M S e l'Avvocato dello Stato Roberta Guizzi;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO e DIRITTO
1. La Fox Petroli Spa espone di essere concessionaria da oltre 50 anni di un deposito per lo stoccaggio di oli minerali per uso commerciale sito in Pesaro, loc. Tombaccia, autorizzato con D.M. 22.7.1964, n. 7126, costituito da cisterne di deposito in parte interrate ed in parte fuori terra.
Soggiunge, tra l’altro, che, con decreto del Ministro dell’Industria del 4 gennaio 1989, n. 14711, fu autorizzata a realizzare un nuovo impianto a mare per lo scarico di prodotti petroliferi costituito essenzialmente da una torre di ormeggio per l’attracco di navi cisterne fino a 30.000 tonnellate e da un oleodotto di collegamento tra il deposito costiero e la torre di ormeggio costituito da due tubazioni della lunghezza di 7 km circa.
Rappresenta altresì che il nuovo progetto ha ottenuto tutti i pareri favorevoli e le autorizzazioni da parte delle amministrazioni e degli Enti interessati e che il Ministero dell’Ambiente, con determinazione n. 167 del 20 gennaio 1997, ha qualificato l’opera come non assoggettabile alla procedura di valutazione di impatto ambientale perché autorizzata dalle competenti autorità amministrative prima dell’entrata in vigore della legge n. 210 del 1992 ed oggetto di modifiche migliorative sotto il profilo ambientale.
Lo stesso Ministero dell’Ambiente, in data 15 febbraio 2000, ha annullato d’ufficio la citata determinazione del 20 gennaio 1997.
Il ricorso giurisdizionale avverso l’atto di autotutela del 15 febbraio 2000 è stato respinto in primo grado dal T.a.r. per le Marche, con sentenza n. 1223 del 2001, ma la Sesta Sezione del Consiglio di Stato, con sentenza n. 1414 del 2008, riformando la pronuncia del T.a.r., ha accolto il ricorso ed ha annullato il provvedimento ministeriale di autotutela.
Di talché, la Fox Petroli S.p.a. ha proposto azione di risarcimento del danno che il T.a.r. Lazio, Sezione Seconda Bis, ha respinto con la impugnata sentenza n. 10768 del 2016.
L’appello avverso tale sentenza è articolato nei seguenti motivi:
Errata valutazione da parte del T.a.r. Lazio delle circostanze di fatto rilevanti per la decisione. Travisamento dei presupposti di fatto e di diritto. Difetto di motivazione e di istruttoria. Falsa applicazione della sentenza CE 18.6.1998, C-81/96.
Il provvedimento di annullamento d’ufficio si baserebbe su una pretestuosa ed infondata applicazione della pronuncia della Corte di Giustizia del 18 giugno 1998.
Nel caso di specie, sussisterebbero tutti gli elementi costituitivi dell’illecito e gli elementi di fatto, dei quali il Ministero dell’Ambiente aveva la piena disponibilità, nonché il quadro di riferimento normativo in materia di valutazione di impatto ambientale escluderebbero l’asserita ricorrenza dell’errore scusabile e legittimerebbero la Fox petroli a chiedere ed ottenere il risarcimento del danno nella misura indicata nella perizia tecnica depositata.
Il caso, peraltro, non presentava una rilevante complessità, considerata la richiamata sentenza della Corte di Giustizia pubblicata 20 mesi prima dell’adozione dell’atto di autotutela.
Violazione di legge in relazione all’art. 2043 c.c. Falsa interpretazione e applicazione dei presupposti di fatto e di diritto in tema di risarcimento da atto illegittimo. Difetto di motivazione e di istruttoria. Illegittimità derivata.
L’emissione del provvedimento di annullamento d’ufficio da parte del Ministero dell’Ambiente avrebbe leso l’interesse alla conservazione di una situazione di vantaggio già costituita, nella sua compiuta pienezza, in capo alla Fox Petroli.
L’elemento soggettivo della responsabilità sussisterebbe in quanto, dall’esame dei fatti di causa e della documentazione depositata, non sarebbe verosimile la prospettazione di una qualsiasi esimente da responsabilità;viceversa, le motivazioni esposte nella sentenza del Consiglio di Stato n. 1414 del 2008 indurrebbero ragionevolmente a ritenere provata nel caso di specie una responsabilità civilistica dell’Amministrazione.
Sussisterebbero parimenti gli altri elementi costitutivi dell’illecito civile quali l’evento dannoso, l’ingiustizia del danno ed il nesso di causalità.
L’appellante ha altresì proceduto, anche sulla base di perizia tecnica, alla quantificazione del danno causato dalla mancata realizzazione del progetto “campo boe” in complessivi euro 65,6 milioni.
L’Avvocatura generale dello Stato ha contestato la fondatezza delle argomentazioni svolte concludendo per il rigetto dell’appello.
La Fox Petroli ha depositato altre memorie a sostegno ed illustrazione delle proprie difese.
All’udienza pubblica del 12 luglio 2018, la causa è stata trattenuta per la decisione.
2. Il Ministero dell’Ambiente, in sede di riesame di un proprio precedente atto, con provvedimento del 15 febbraio 2000, ha ritenuto che il progetto della Fox Petroli per la realizzazione di un impianto a mare per lo sbarco dei prodotti petroliferi attraverso una torre di ormeggio collegata al deposito mediante oleodotto sotterraneo dovesse essere sottoposto alla procedura di valutazione di impatto ambientale.
Il T.a.r. Marche, con sentenza n. 1223 del 2001 ha respinto la relativa azione impugnatoria in quanto:
- la decisione del 15 febbraio 2000 del Ministero dell'ambiente di fatto costituisce un annullamento d'ufficio del parere espresso nel 1997 e si fonda sulla sentenza del 18 giugno 1998 della Corte di Giustizia;
- tale sentenza interpreta la direttiva n.85/377/CEE, "nel senso che essa non consente ad uno Stato membro di esonerare dagli obblighi relativi alla valutazione di impatto ambientale i progetti riportati nell'allegato I", cioè la valutazione di impatto ambientale è obbligatoria, qualora:
a) i progetti siano stati già oggetto di un'autorizzazione prima del 3.7.1988, data di scadenza del termine di attuazione della direttiva;
b) questa iniziale autorizzazione non sia stata preceduta da uno studio ambientale conforme alle prescrizioni della direttiva stessa;
c) una nuova procedura di autorizzazione sia stata formalmente avviata dopo il 3.7.1988;
- nel caso in esame, al momento dell'iniziale autorizzazione rilasciata alla F.P. (4.1.1989) non sussisteva alcun obbligo di assoggettare il progetto alla procedura di V.I.A., come invece poi previsto a seguito dell'entrata in vigore della legge n.220/1992;
- il secondo decreto di autorizzazione del Ministero dell'Industria, intervenuto nel 1995, dopo l'entrata in vigore della legge n.220/1992, è pur sempre un "nuovo" e "formale" provvedimento, senz'altro essenziale ai fini della realizzazione del progetto nella sua versione definitiva;
- le varianti approvate con il D.M. n.15958/1995 non sono affatto di modesta entità, ma decisamente rilevanti;
- tale secondo decreto deve essere considerato come una "nuova" approvazione dell'intero progetto nella sua versione definitiva, con conseguente irrilevanza della natura migliorativa delle varianti in quanto l'assoggettabilità a V.I.A. dipende dal solo dato oggettivo della riconducibilità dell'opera nell'ambito di quelle espressamente elencate dalla legge n.220/1992.
Il Consiglio di Stato, Sesta Sezione, con sentenza n. 1414 del 2018 ha accolto l’appello con la seguente motivazione:
“ Non è in discussione che l'obbligo di sottoporre il progetto a valutazione di impatto ambientale non sussistesse al momento del rilascio della prima autorizzazione del 1989, con cui è stato concluso un procedimento avviato nel 1982 con l'originaria domanda dell'appellante, poi modificata nel 1985.
Del resto, nella stessa sentenza della Corte di Giustizia, richiamata dal Ministero dell'ambiente e dal T (Corte Giust. CE, 18-6-1998, C-81/96) viene ricordato che per i progetti, quale quello in esame, per i quali la procedura di autorizzazione è stata avviata prima del 3 luglio 1988 ed è ancora in corso a tale data, la stessa Corte ha già ritenuto non necessaria la procedura di V.I.A. (v. precedente sentenza 11 agosto 1995, causa C-431/92, Commissione/Germania).
Il motivo di questo orientamento della giurisprudenza comunitaria è che la direttiva in tema di V.I.A. riguarda in gran parte progetti di una certa ampiezza, la cui realizzazione necessita molto spesso di un lungo periodo di tempo;pertanto non è opportuno che procedure, già complesse a livello nazionale e formalmente avviate prima della data di scadenza del termine di attuazione della direttiva, siano appesantite e ritardate dalle specifiche prescrizioni imposte da quest'ultima, e che situazioni già consolidate ne siano colpite (punto 24, Corte Giust. CE, 18-6-1998, C-81/96).
Sempre secondo la Corte di Giustizia, tale principio non si applica, ed è quindi necessaria la procedura di V.I.A., quando, nonostante l'esistenza di una precedente autorizzazione rilasciata legittimamente in assenza di valutazione di impatto ambientale, ma non utilizzata, sia avviata una nuova procedura di autorizzazione.
Si tratta, dunque, di stabilire l'esatto contenuto della modifica al progetto, autorizzata nel 1995 e se tale modifica debba essere qualificata, come fatto dal T, come nuova autorizzazione dell'intero progetto.
Con la citata nota del 20 gennaio 1997 il Ministero dell'ambiente ha ritenuto le modifiche hanno costituito un "ridimensionamento del progetto consistente nella sostituzione della torre di ormeggio con un campo boe ed in una riduzione della lunghezza della condotta sottomarina".
Nella stessa nota è stato anche precisato che l'autorizzazione restava quella del 1989 e che il successivo provvedimento del 1995 si limitava ad approvare le menzionate modifiche, "che non configurano un nuovo progetto e peraltro risultano migliorative sotto il profilo ambientale" con la conseguente non assoggettabilità dell'opera alla procedura di V.I.A.
Tale determinazione è stata poi riesaminata e sostanzialmente rimossa (annullata d'ufficio) con l'impugnato atto del 15 febbraio 2000, in dichiarata applicazione della citata sentenza del 18-6-1998 della Corte di Giustizia.
Secondo il Ministero il principio giurisprudenziale affermato dalla Corte imporrebbe di assoggettare a procedura di V.I.A. "i progetti, che anche avendo ottenuto una autorizzazione alla realizzazione in data precedente all'entrata in vigore della normativa specifica necessitino di nuove autorizzazioni o di rinnovo di quelle già ottenute in quanto scadute".
Veniva quindi decisa l'assoggettabilità del progetto alla procedura di V.I.A. in considerazione anche del tempo trascorso dal precedente parere, del possibile cambiamento del quadro ambientale e delle numerose segnalazioni contrarie alla realizzazione del progetto pervenute da Regione, enti locali ed associazioni.
In primo luogo, si rileva come il Ministero abbia esteso il contenuto della sentenza della Corte anche all'ipotesi, invece non menzionata nella pronuncia, del "rinnovo di autorizzazioni scadute".
La Corte di giustizia ha fatto riferimento alle nuove autorizzazioni e non alla semplice procedura di rinnovo e comunque, come si ricava dalla stessa nota ministeriale, al momento dell'adozione della stessa, l'autorizzazione era ancora in vigore, essendo già stata prorogata fino al 3 agosto 2001.
Inoltre, va rilevato come il Ministero dell'ambiente, con la nota impugnata, non abbia posto in discussione il carattere migliorativo della variante approvata nel 1995.
Sul punto, il giudice di primo grado ha autonomamente qualificato il contenuto della variante, senza tenere conto che il giudizio del Ministero restava quello espresso nel 1997 e non sottoposto a revisione: "varianti che non configurano un nuovo progetto e che peraltro risultano migliorative sotto il profilo ambientale".
Tale elemento era di per sé sufficiente per confermare la non assoggettabilità dell'opera alla procedura di V.I.A.
Infatti, la giurisprudenza ha chiarito che la valutazione di impatto ambientale riguarda gli aspetti che risultino in grado di incidere sui fattori di rischio individuati dalla normativa di riferimento e che non ogni modifica apportata ad un progetto già legittimamente approvato richiede la necessità della procedura di valutazione di impatto ambientale (Cons. Stato, VI, n. 2694/2006;VI, n. 6832/2006;principio conforme a Corte Giust., 4 maggio 2006, C-290/2003, secondo cui nel caso di un'autorizzazione alla realizzazione di un'opera in più fasi, è necessaria una valutazione dell'impatto ambientale se nel corso della seconda fase il progetto può avere un impatto ambientale importante, in particolare per la sua natura, le sue dimensioni o la sua ubicazione).
Di conseguenza, in presenza di un progetto legittimamente approvato, l'approvazione di modifiche migliorative sotto il profilo ambientale non rende necessario procedere alla valutazione di impatto ambientale, proprio perché l'impatto ambientale dell'opera è ridimensionato e non ampliato.
Tale principio vale sia in ipotesi di prima autorizzazione rilasciata dopo il positivo esito della procedura di V.I.A., sia in presenza di una autorizzazione rilasciata legittimamente, come nel caso di specie, in assenza di V.I.A.
Del resto, una diversa interpretazione condurrebbe all'irragionevole conseguenza che l'opera in questione possa essere realizzata senza ulteriori procedure con le modalità più "impattanti" sotto il profilo ambientale autorizzate nel 1989, ma richieda una nuova e complessa procedura di V.I.A. per essere realizzata con le varianti migliorative dal punto di vista ambientale, autorizzate nel 1995.
Tale tesi disincentiverebbe la richiesta di modifiche migliorative per progetti già approvati e indurrebbe le imprese a rinunciare a modifiche migliorative (sempre sotto il profilo ambientale) per non incorrere in un aggravamento della procedura.
A conferma dell'illegittimità della nota impugnata in primo grado, si può, infine, richiamare anche l'assenza dell'indicazione delle ragioni di pubblico interesse giustificative dell'atto di annullamento di ufficio (tale dovendo essere considerata tale nota, come accertato dallo stesso T e qui confermato).
Si ricorda che questa Sezione ha già ritenuto, proprio con riferimento ad un presunto vizio di contrasto con il diritto comunitario per l'omesso espletamento di una procedura di V.I.A., che anche nell'ordinamento comunitario la sola illegittimità dell'atto non è elemento sufficiente per giustificare la sua rimozione in via amministrativa, in quanto è necessaria una attenta ponderazione degli altri interessi coinvolti, tra cui quello del destinatario che ha fatto affidamento sul provvedimento illegittimo, con la conseguenza che il vizio della violazione del diritto comunitario non comporta il necessario, e sostanzialmente vincolato, esercizio dei poteri di autotutela da parte dell'amministrazione (Cons. Stato, VI, n. 1023/2006).
Con riguardo ai presupposti per l'esercizio del potere di autotutela, il riferimento al tempo trascorso, contenuto nella nota impugnata, poteva al massimo indurre il Ministero a considerare con particolare attenzione l'affidamento maturato nell'appellante circa la realizzabilità del progetto.
Il contenuto migliorativo della variante, che - si ripete - non è stato posto in discussione dal Ministero con la nota del 2000, rappresentava una ragione di pubblico interesse in favore della variante stessa rispetto all'esecuzione del progetto nella versione approvata nel 1989.
Infine, la contrarietà all'opera, successivamente manifestata dalla Regione, da alcuni enti locali ed associazioni, costituisce elemento estraneo al procedimento, del tutto irrilevante al fine dell'individuazione dei corretti principi giuridici da applicare alla fattispecie in esame.
Ogni contestazione circa l'opera da realizzare doveva essere introdotta all'interno del procedimento amministrativo concluso con gli atti di autorizzazione del 1989 e del 1995 o eventualmente in sede giurisdizionale con la impugnazione di tali provvedimenti.
In assenza di tali contestazioni, l'eventuale esercizio del potere di autotutela da parte del Ministero dell'ambiente può al massimo essere sollecitato, ma non può certo fondarsi sulla contrarietà all'intervento in vari e non rituali modi successivamente manifestata da soggetti pubblici e privati” .
Di conseguenza, la Fox Petroli ha chiesto al T.a.r. per il Lazio di condannare il Ministero dell’Ambiente al risarcimento del danno ingiusto cagionatole dal provvedimento del 15 febbraio 2000, da quantificarsi nella somma di euro 65,6 milioni o in quella maggiore o minore risultante in corso di causa, oltre interessi legali e rivalutazione monetaria.
Il giudice di primo grado, con la sentenza appellata, ha respinto il ricorso, con la seguente motivazione:
“ Il presente caso, pur caratterizzato da un provvedimento dichiarato illegittimo con sentenza passata in giudicato, difetta, in verità, del requisito della colpa dell’Amministrazione.
Come evidenziato, infatti, dalla giurisprudenza maggioritaria, "l'azione di risarcimento conseguente all'annullamento in sede giurisdizionale di un provvedimento illegittimo implica la valutazione dell'elemento psicologico della colpa, alla luce dei vizi che inficiavano il provvedimento stesso e della gravità delle violazioni imputabili all'Amministrazione, secondo l' ampiezza delle valutazioni discrezionali rimesse all'organo amministrativo, nonché delle condizioni concrete in cui ha operato l'Amministrazione, non essendo il risarcimento una conseguenza automatica della pronuncia del giudice della legittimità."(cfr. Cons. St., Sez. IV, 6.12.2013 n. 5822;Cons. St., Sez. IV, 1.10. 2007, n. 5052).
Nella fattispecie de qua appaiono incontestabili sia la non diretta perspicuità del quadro normativo sia la plausibilità di opposte opzioni ermeneutiche, che rendono sicuramente non di “intuitiva semplicità” la questione come affermato, invece, dalla ricorrente.
La sentenza della Corte di Giustizia del 18.06.1998 (all’origine della decisione del 15.02.2000), che, interpretando la direttiva n. 85/377/CEE, enunciava il principio dell’obbligo della VIA qualora “a)- i progetti siano stati già oggetto di un’autorizzazione prima del 3.7.1988, data di scadenza del termine di attuazione della direttiva;b)- questa iniziale autorizzazione non sia stata preceduta da uno studio ambientale conforme alle prescrizioni della direttiva stessa;c)- una nuova procedura di autorizzazione sia stata formalmente avviata dopo il 3.7.1988”, ben poteva indurre l’Amministrazione, tenuta ad agire secondo il principio di “precauzione”, a ritenere, sia pure erroneamente, che un provvedimento di autorizzazione formalmente “nuovo” come quello richiesto dalla ricorrente nel 1994, anche se relativo ad una “variante” del progetto, dovesse essere soggetto alla valutazione di impatto ambientale.
Lo stesso TAR Marche, nella sentenza poi riformata dal Giudice di appello, era giunto, del resto, a reputare che le varianti approvate con il D.M. n.15958/1995 non fossero affatto di modesta entità, ma decisamente rilevanti, dal momento che erano stati pur sempre assentiti: “- un aumento del diametro dell’oleodotto da 14” a 16” e la lunghezza ridotta da 7 a 5 Km.;- la realizzazione di un tratto riscaldato di oleodotto lungo il percorso, sulla sponda del fiume Foglia;- l’installazione di una stazione di pompaggio ausiliaria lungo il percorso a terra;- la realizzazione di un campo boe per l’attracco delle navi cisterna (anziché la realizzazione di una torre di ormeggio del tipo monopalo a piattaforma), con collocazione dalla costa a Km. 2,5 rispetto ai 4,5 Km. iniziali” e che il secondo decreto del Ministero dell’Industria non costituisse solo un proroga del termine di ultimazione o una mera integrazione del decreto del 1989, ma fosse proprio una “nuova” approvazione dell’intero progetto nella sua versione definitiva.
Da qui la configurabilità di un errore scusabile nell’Amministrazione, ammesso dalla Giurisprudenza, appunto, “in caso di contrasti giurisprudenziali sull'interpretazione di una norma, di formulazione incerta di norme da poco entrate in vigore, di rilevante complessità del fatto, di influenza determinante di comportamenti di altri soggetti, di illegittimità derivante da una successiva dichiarazione di incostituzionalità della norma applicata." (Consiglio Stato, sez. VI, 23 giugno 2006, n. 3981).
In mancanza dell’elemento soggettivo, anche così “oggettivamente” inteso, la domanda di risarcimento non può, in definitiva, che essere rigettata” .
3. L’appello è infondato e deve essere respinto.
3.1. La sentenza delle Sezioni Unite Civili della Corte di Cassazione n. 500 del 1999, capostipite di tutta la giurisprudenza successiva, ha evidenziato come sia possibile pervenire al risarcimento del danno da lesione dell’interesse legittimo soltanto se l’attività illegittima della pubblica amministrazione abbia determinato la lesione del bene della vita al quale l’interesse legittimo, secondo il concreto atteggiarsi del suo contenuto, effettivamente si collega, e che risulta meritevole di protezione alla stregua dell’ordinamento.
Il rilievo centrale, quindi, è assunto dal danno, del quale è previsto il risarcimento qualora sia ingiusto, sicché la lesione dell’interesse legittimo è condizione necessaria ma non sufficiente per accedere alla tutela risarcitoria ex art. 2043 c.c. in quanto occorre altresì che risulti leso, per effetto dell’attività illegittima e colpevole dell’amministrazione pubblica, l’interesse materiale al quale il soggetto aspira.
E’ soltanto la lesione al bene della vita, infatti, che qualifica in termini di “ingiustizia” il danno derivante dal provvedimento illegittimo e colpevole dell’amministrazione e lo rende risarcibile.
La pretesa al risarcimento del danno ingiusto derivante dalla lesione dell’interesse legittimo, insomma, si fonda su una lettura dell’art. 2043 c.c. che riferisce il carattere dell’ingiustizia al danno e non alla condotta, di modo che presupposto essenziale della responsabilità è l’evento dannoso che ingiustamente lede una situazione soggettiva protetta dall’ordinamento ed affinché la lesione possa considerarsi ingiusta è necessario verificare attraverso un giudizio prognostico se, a seguito del corretto agire dell’amministrazione, il bene della vita sarebbe effettivamente spettato al titolare dell’interesse.
In particolare, per gli interessi pretensivi, occorre stabilire se il pretendente sia titolare di una situazione suscettiva di determinare un oggettivo affidamento circa la conclusione positiva del procedimento, e cioè di una situazione che, secondo la disciplina applicabile era destinata, in base a un criterio di normalità, ad un esito favorevole.
Viceversa, per gli interessi oppositivi, la lesione al bene della vita è in re ipsa quando il giudizio accerta la spettanza del bene illegittimamente sottratto, che era già nella disponibilità giuridica e materiale dell’interessato.
Nel caso di specie, la Fox Petroli, in virtù del provvedimento ministeriale del 1997, successivamente annullato, avrebbe potuto realizzare ed avviare il nuovo impianto senza doversi dotare di una preventiva valutazione di impatto ambientale, sicché sussiste certamente sia il danno ingiusto, per l’impedito sviluppo imprenditoriale dovuto alla mancata realizzazione dell’impianto di approvvigionamento a mare, sia il nesso di causalità tra l’illegittimo provvedimento di autotutela e il danno consistente nell’impossibilità di avviare il progetto senza la preventiva valutazione di impatto ambientale.
Tuttavia, in tema di responsabilità aquiliana della pubblica amministrazione, il risarcimento del danno subito non può conseguire in modo automatico dall'annullamento di un atto illegittimo da essa adottato anche perché, ai sensi dell’art. 2043 c.c., è necessario che sussista l’elemento soggettivo della colpa ed il rinvio al sistema delle presunzioni semplici, di cui agli artt. 2727 e 2729, c.c., induce a ritenere che l'illegittimità del provvedimento annullato costituisce soltanto uno degli indici presuntivi della colpevolezza dell'Amministrazione ( ex multis : Cons. St., IV, 1° luglio 2015 n. 3258).
Di contro, al fine di accertare la sussistenza dell’elemento soggettivo della colpa, occorre verificare se l'adozione e l'esecuzione dell'atto impugnato siano avvenute in violazione delle regole d'imparzialità, correttezza e buona fede, cui l'esercizio della funzione pubblica deve essere costantemente e concretamente ispirato.
In altri termini, quando si controverte sulla responsabilità dell’amministrazione pubblica per danno a privati ed in conformità ai principi enunciati in materia dalla giurisprudenza comunitaria, la responsabilità civile dell’Amministrazione sussiste solo quando la violazione risulti grave e commessa in un contesto di circostanze di fatto, nonché in un quadro di riferimenti normativi e giuridici tali da palesare la negligenza e l’imperizia dell'organo nell'emanare il provvedimento viziato.
La giurisprudenza ha anche precisato che deve essere negata la responsabilità quando l'indagine conduce al riconoscimento di un errore scusabile per la sussistenza di contrasti giudiziari, per la incertezza del quadro normativo di riferimento, per la complessità della situazione di fatto ( ex multis : Consiglio di Stato sez. III 15 maggio 2018 n. 2882).
Ora, nel caso di specie, il carattere di novità della fattispecie, sulla quale, alla data di adozione del provvedimento di autotutela annullato, non poteva dirsi formato un indirizzo univoco, e soprattutto la circostanza che l’adozione dell’atto di autotutela sia stata verosimilmente improntata al c.d. principio di precauzione non consentono di ritenere sussistente nell’agire amministrativo l’elemento soggettivo della colpa.
Il punto centrale in relazione al quale il giudice di appello ha fondato la propria decisione, come detto, è costituito dal fatto che “in presenza di un progetto legittimamente approvato, l’approvazione di modifiche migliorative sotto il profilo ambientale non rende necessario procedere alla valutazione di impatto ambientale, proprio perché l’impatto ambientale dell’opera è ridimensionato e non ampliato”.
A supporto di tale statuizione - che ha accertato la spettanza del bene della vita, vale a dire che Fox Petroli avrebbe potuto sviluppare la propria attività imprenditoriale senza una preventiva procedura di VIA. - il Consiglio di Stato ha richiamato precedenti sentenze della Sezione Sesta (del 2006) espressive di principio conforme a Corte Giust. 4 maggio 2006, C-290/2003, secondo cui nel caso di autorizzazione di un’opera in più fasi, è necessaria una valutazione dell’impatto ambientale se nel corso della seconda fase il progetto può avere un impatto ambientale importante in particolare per la sua natura, le sue dimensioni o la sua ubicazione, vale a dire ha richiamato pronunce ampiamente successive alla data di adozione del provvedimento di autotutela.
Diversamente, il giudice di primo grado - nel rilevare che le varianti apportate con il D.M. n. 15958/1995 non sono di modesta entità e che, quindi, tale decreto deve essere considerato come una “nuova” approvazione dell’intero progetto nella sua versione definitiva – aveva ritenuto irrilevante la natura migliorativa delle varianti in quanto l’assoggettabilità a VIA sarebbe dipesa dal solo dato oggettivo della riconducibilità dell’opera nell’ambito di quelle espressamente elencate dalla legge n. 220/1992.
L’elemento dirimente della fattispecie, vale a dire se anche un nuovo progetto che abbia apportato modifiche migliorative debba essere assoggettato a valutazione di impatto ambientale, costituisce il risultato di un’attività interpretativa non connotata da certezza, ma da un certo grado di opinabilità, e la circostanza che il giudice di primo grado abbia sposato la tesi in qualche modo più “prudente”, ritenendo comunque il nuovo progetto assoggettabile a VIA, non è certo indice di negligenza o imperizia.
3.2. Per quanto concerne, invece, l’altro aspetto che, secondo quanto statuito nella sentenza del Consiglio di Stato n. 1414 del 2008, ha confermato l’illegittimità del provvedimento impugnato, vale a dire “l’assenza dell’indicazione delle ragioni di pubblico interesse giustificative dell’atto di annullamento di ufficio”, l’accoglimento di tale censura di per sé non è attributiva del bene finale, non riconoscendo la spettanza del bene della vita, ma solo il vizio motivazionale presente nell’atto.
L’accoglimento di tale censura, a differenza dell’altra, di carattere sostanziale, in cui il giudice ha accertato la spettanza del bene della vita, non determina un danno sicuramente ingiusto, atteso che l’amministrazione, in caso di annullamento del provvedimento di autotutela solo per tale vizio di legittimità, avrebbe ben potuto riesercitare il potere sottraendo un’altra volta il bene della vita alla Società interessata.
Ne consegue che neanche tale profilo è idoneo ad assumere rilievo ai fini della possibile qualificazione in termini di colpevolezza dell’attività amministrativa.
3.3. A tali considerazioni, che escludono la sussistenza della responsabilità aquiliana dell’Amministrazione per carenza dell’elemento soggettivo, giova aggiungere un’altra riflessione.
L’art. 30, comma 3, ultima parte, c.p.a., riecheggiando l’art. 1227 c.c., stabilisce che “nel determinare il risarcimento il giudice valuta tutte le circostanze di fatto e il comportamento complessivo delle parti e, comunque, esclude il risarcimento dei danni che si sarebbero potuti evitare usando l’ordinaria diligenza, anche attraverso l’esperimento dei mezzi di tutela previsti”.
L’appellante, anche dopo il provvedimento di annullamento d’ufficio e la sentenza di rigetto del giudice di primo grado della relativa impugnazione, avrebbe potuto chiedere lo svolgimento della pur onerosa procedura di impatto ambientale e, in caso di esito positivo, dar corso alla realizzazione dell’impianto, nel qual caso il parametro dell’azione risarcitoria non sarebbe stato più costituito dal mancato esercizio sine die dell’attività, ma soltanto dai costi amministrativi e patrimoniali sostenuti per la procedura nonché dall’eventuale ritardo nello sviluppo dell’attività imprenditoriale.
Inoltre, l’appello proposto, nell’anno 2003, avverso la sentenza del T.a.r. per le Marche n. 1223 del 2001 non risulta assistito da domanda cautelare né da istanze di prelievo successive all’originaria istanza di fissazione d’udienza.
Tali circostanze inducono a ritenere che l’appellante avrebbe potuto ragionevolmente evitare, in tutto o in parte, la formazione del danno di cui ha chiesto il risarcimento.
4. Le spese del giudizio seguono la soccombenza e, liquidate complessivamente in euro 4.000,00 (quattromila/00), oltre accessori di legge, sono poste a carico dell’appellante ed a favore dell’amministrazione appellata.