Consiglio di Stato, sez. VII, sentenza 2023-05-19, n. 202304984

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Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. VII, sentenza 2023-05-19, n. 202304984
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 202304984
Data del deposito : 19 maggio 2023
Fonte ufficiale :

Testo completo

Pubblicato il 19/05/2023

N. 04984/2023REG.PROV.COLL.

N. 07105/2022 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Settima)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 7105 del 2022, proposto dalla
Università degli Studi di Firenze, in persona della Rettrice pro tempore , rappresentata e difesa dall’avv. C P e con domicilio digitale come da P.E.C. da Registri di Giustizia

contro

dott. S F, rappresentato e difeso dall’avv. G S e con domicilio digitale come da P.E.C. da Registri di Giustizia

nei confronti

sig. D C, non costituito in giudizio
sig. L T, non costituito in giudizio
sig. Leonardo Ricci, non costituito in giudizio

per la riforma,

previa sospensione dell’efficacia,

della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Toscana, Sezione Prima, n. 868/2022 del 28 giugno 2022, resa tra le parti, con cui è stato accolto il ricorso R.G. n. 1261/2021.


Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Vista l’istanza di sospensione dell’esecutività della sentenza impugnata, presentata in via incidentale dall’Ateneo appellante;

Vista la memoria di costituzione e difensiva del dr. S F;

Visto il documento depositato dall’appellato;

Vista l’ordinanza n. 4822/2022 del 6 ottobre 2022, con la quale la Sezione ha provveduto sull’istanza cautelare;

Visti l’ulteriore documento dell’appellato, le memorie e le repliche delle parti;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 14 marzo 2023 il Cons. Pietro De Berardinis e uditi l’avv. C P per l’Università appellante e l’avv. G S per l’appellato;

Ritenuto e considerato in fatto ed in diritto quanto segue:


FATTO e DIRITTO

1. Con l’appello indicato in epigrafe l’Università degli Studi di Firenze ha impugnato la sentenza del T.A.R. Toscana, Sez. I, n. 868/2022 del 28 giugno 2022, chiedendone la riforma, previa sospensione dell’efficacia.

1.1. La sentenza appellata ha accolto il ricorso con motivi aggiunti proposto dal dr. S F contro il bando, pubblicato in data 24 agosto 2021, del concorso indetto dall’Università degli Studi di Firenze per la copertura di n. 2 posti di categoria EP, posizione economica EP1, nella parte in cui ha previsto, quali requisiti di ammissione, la laurea specialistica (LS), la laurea magistrale (LM) o il diploma di laurea equivalente o equiparato alle stesse, e non anche la laurea triennale (L), nonché contro gli atti presupposti, connessi e conseguenti, compreso il decreto dirigenziale del 18 novembre 2021, recante approvazione della graduatoria del concorso.

1.2. L’accoglimento del ricorso ed il conseguente annullamento in parte qua del bando impugnato sono dipesi dalla valutazione di fondatezza che l’adito Tribunale ha fatto della censura di violazione del decreto rettorale n. 76 del 4 febbraio 2004, recante il Regolamento di Ateneo per l’accesso esterno all’impiego presso l’Università di Firenze, che, all’art. 7, comma 1, lett. d) , prevede quale requisito di ammissione alla categoria EP la laurea triennale (L).

1.2.1. Ha osservato in sintesi il primo giudice che il bando di concorso avrebbe dovuto conformarsi al Regolamento di Ateneo, in quanto è vero che il bando, laddove vi siano particolari esigenze, può integrare le previsioni regolamentari, prevedendo requisiti ulteriori, ma ciò non significa che si possa modificare il titolo di studio previsto dalla fonte regolamentare, alla cui disapplicazione la P.A. non può ritenersi autorizzata.

2. A supporto del gravame l’Università appellante ha proposto, con un unico motivo, le doglianze di illegittimità ed erroneità della sentenza appellata per violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2 e 35 del d.lgs. n. 165/20101 e dei principi desumibili, nonché dell’art. 7 del Regolamento dell’Ateneo, approvato con decreto rettorale n. 76 del 4 febbraio 2004, ed ancora per violazione del principio di gerarchia delle fonti del diritto, per illogicità e contraddittorietà.

2.1. In estrema sintesi, e fatto salvo quanto si dirà più oltre in sede di analisi delle doglianze dedotte, l’Università afferma che la laurea triennale sarebbe un requisito minimo, che potrebbe, perciò, essere affiancato dalla previsione di ulteriori titoli, come avvenuto nel caso di specie.

2.2. L’Università ripropone, poi, le eccezioni e le difese non esaminate e/o assorbite dalla sentenza di prime cure e, in particolare: a) l’eccezione di inammissibilità del ricorso per non avere il dr. S F presentato domanda di partecipazione al concorso nel termine utile stabilito dal bando;
b) l’eccezione di inammissibilità del ricorso in quanto il ricorrente avrebbe notificato ai sigg.ri D C e L T, quali controinteressati sopravvenuti, il solo ricorso per motivi aggiunti e non anche il ricorso originario;
c) la richiesta di integrazione del contraddittorio nei confronti dei candidati che hanno superato la prova scritta e la prova orale del concorso e, quindi, l’estensione del contraddittorio, oltre che ai vincitori, a coloro che sono risultati idonei in graduatoria, avendo anche questi un interesse qualificato alla conservazione degli atti impugnati.

3. Si è costituito in giudizio il dr. S F con memoria di costituzione e difensiva, a mezzo della quale, dopo aver ricostruito la vicenda, ha eccepito l’infondatezza dell’appello, concludendo per la sua reiezione.

3.1. L’appellato ha poi riproposto, ai sensi dell’art. 101, comma 2, c.p.a., i motivi del ricorso di primo grado assorbiti dal Tribunale.

3.2. Con ordinanza n. 4822/2022 del 6 ottobre 2022 la Sezione ha provveduto sull’istanza cautelare dell’Ateneo appellante mediante fissazione per la trattazione del merito dell’udienza pubblica del 14 marzo 2023.

3.3. In vista dell’udienza di merito le parti hanno depositato memorie e repliche, rilevando entrambe, tra l’altro, che l’art. 7, comma 1, del Regolamento di Ateneo (sui requisiti di ammissione ai concorsi pubblici presso l’Università fiorentina) è stato modificato dal decreto rettorale n. 3/2023, prot. n. 2242 del 10 gennaio 2023. L’appellato ha anche depositato copia di detto decreto.

3.4. All’udienza pubblica del 14 marzo 2023 sono comparsi i difensori delle parti. Di seguito la causa è stata trattenuta in decisione.

4. Il Collegio ritiene di dare priorità all’esame delle questioni processuali sollevate dall’Università appellante, che ripropongono le eccezioni di rito formulate in primo grado e che il T.A.R. – lamenta l’Ateneo – avrebbe omesso di esaminare.

4.1. Va anzitutto analizzata l’eccezione di inammissibilità del ricorso di primo grado per la mancata presentazione, da parte del ricorrente, della domanda di partecipazione al concorso.

4.1.1. L’eccezione è infondata in diritto, alla luce dell’ormai consolidato indirizzo giurisprudenziale formatosi in materia di c.d. clausole escludenti nelle procedure di gara, i cui principi sono estensibili alla fattispecie in esame. Secondo tale indirizzo, infatti, se è vero che l’esito di una procedura di gara è impugnabile soltanto da colui che vi ha partecipato (la domanda di partecipazione atteggiandosi a strumento per la sussistenza della posizione qualificata e differenziata che legittima l’impugnazione), è pur vero che a tale regola generale si deroga in alcune ipotesi, compresa quella in cui l’operatore impugni direttamente le clausole del bando, assumendone l’immediato carattere escludente: in questa ipotesi, infatti, la presentazione della domanda di partecipazione costituisce un inutile adempimento formale, privo della benché minima utilità in funzione giustiziale (C.d.S., A.P., 26 aprile 2018, n. 4;
Sez. III, 11 marzo 2021, n. 2093;
id., 20 marzo 2020, n. 2004;
Sez. V, 27 novembre 2019, n. 8088;
id., 25 novembre 2019, n. 8014;
id., 18 luglio 2019, n. 5057).

4.1.2. L’appellato, inoltre, ha sottolineato nelle sue difese come, a norma del bando, la domanda di partecipazione dovesse essere presentata tramite la compilazione di un modulo informatizzato, che, però, consentiva di scegliere solo tra i titoli di studio in esso elencati e, quindi, tra quelli previsti dal bando, che non comprendevano la laurea triennale (L). Il predetto modulo non consentiva, poi, di trasmettere la domanda senza l’indicazione del titolo di studio posseduto, ciò che ha impedito al dr. Frangioni di inviare la domanda da lui predisposta: questa è rimasta in stato di “bozza” sul sistema di invio delle domande (v. all. 18 al ricorso di primo grado). Ne segue l’infondatezza in fatto, oltre che in diritto, della suesposta eccezione di inammissibilità.

4.2. È, altresì, infondata l’eccezione di inammissibilità del ricorso per avere il ricorrente provveduto a notificare ai controinteressati sopravvenuti (i due vincitori del concorso) i soli motivi aggiunti e non anche il ricorso introduttivo del giudizio di primo grado, atteso che i motivi aggiunti, depositati il 10 dicembre 2021, recano l’integrale trascrizione delle doglianze contenute nel predetto ricorso. Secondo la giurisprudenza di questo Consiglio, comunque, in casi del genere è sufficiente la riproduzione pur sintetica nei motivi aggiunti degli aspetti salienti del ricorso introduttivo, in termini sia di petitum , sia di causa petendi (C.d.S., Sez. III, 17 agosto 2011, n. 4792).

4.2.1. Peraltro, nel caso di specie non erano ravvisabili controinteressati rispetto all’impugnazione, con il ricorso introduttivo, del bando di concorso nella parte in cui non consentiva al ricorrente di partecipare alla procedura concorsuale. Ciò, in omaggio al consolidato principio per il quale, a fronte dell’impugnazione di un bando di concorso, non possono ravvisarsi controinteressati in senso tecnico, ossia soggetti che possano ricavare da esso un beneficio immediato e diretto ed ai quali il ricorso debba, pertanto, essere notificato sino a che non si sia proceduto all’approvazione della graduatoria definitiva: la qualifica di controinteressato non si configura, infatti, in capo al mero partecipante in occasione dell’impugnazione dell’altrui esclusione, ove la procedura concorsuale sia ancora in corso di svolgimento (cfr., ex multis , C.d.S., Sez. V, 11 ottobre 2018, n. 5864;
id., 19 marzo 2018, n. 1745;
id., 8 novembre 2012, n. 5694;
Sez. III, 31 ottobre 2017, n. 5038). Nella vicenda in esame, al momento della notifica dell’atto introduttivo non si era ancora formata la graduatoria finale e dunque – come eccepisce l’appellato – nessun partecipante al concorso rivestiva la qualifica di controinteressato: il ricorrente perseguiva il limitato interesse ad essere ammesso alla procedura, innanzi al quale non emergeva un controinteresse, uguale e contrario, meritevole di tutela e discendente direttamente dal provvedimento (bando) impugnato (C.d.S., Sez. IV, 29 agosto 2012, n. 4642;
Sez. VI, 9 febbraio 2011, n. 886).

4.3. Per quanto riguarda, infine, l’integrazione del contraddittorio nei confronti dei candidati collocati in graduatoria non in posizione di vincitori (c.d. idonei), il Collegio reputa non necessaria l’estensione del contraddittorio agli stessi, visto che non vi è prova che l’Università di Firenze intendesse utilizzare ulteriormente la graduatoria in questione mediante scorrimenti, anziché procedere all’indizione di nuovi concorsi per le coperture dei posti che via via si rendessero necessarie: è possibile, anzi, che l’Università non se ne serva più, tenuto conto delle modifiche dei requisiti di ammissione introdotte con il decreto rettorale n. 3/2023 (v. infra ), il che, peraltro, non incide sull’interesse a ricorrere del dr. Frangioni (sia perché costui può aspirare a rientrare tra i vincitori del concorso, sia per i possibili vantaggi connessi all’eventuale posizione di idoneo non vincitore).

5. Venendo alle censure di merito dell’Università appellante, le stesse possono essere sintetizzate nel modo seguente.

5.1. La sentenza di prime cure si è basata sull’art. 7 del Regolamento di Ateneo per l’accesso esterno all’impiego presso l’Università degli Studi di Firenze (emanato con D.R. n. 76/2004), che indica la laurea triennale quale requisito di accesso alle posizioni di elevata professionalità (EP), in sostanziale riproduzione della clausola all’epoca contenuta nella contrattazione collettiva, ma tale motivazione presupporrebbe un’erronea ricostruzione delle fonti normative disciplinanti la materia dell’accesso al pubblico impiego.

5.2. In primo luogo, in senso contrario a quanto affermato dal T.A.R. deporrebbe l’art. 35, comma 3, del d.lgs. n. 165/2001, il quale alla lett. e- ter) stabilisce la “ possibilità di richiedere, tra i requisiti previsti per specifici profili o livelli di inquadramento di alta specializzazione, il possesso del titolo di dottore di ricerca o del master universitario di secondo livello ”: la disposizione, nel riconoscere il principio dell’ampia discrezionalità della P.A. nel predeterminare i requisiti di accesso ai concorsi, legittima la previsione di requisiti di accesso relativi ai massimi livelli di titoli accademici (dottorato di ricerca, master di secondo livello), purché giustificati e proporzionati al profilo professionale del ruolo da ricoprire. Tale regola, espressiva del principio di buon andamento ex art. 97 Cost., tanto più varrebbe ove la P.A. individui quale requisito di accesso le lauree quinquennali o di secondo livello, costituendo questi i titoli di studio necessari, nell’ordinamento universitario, per accedere al dottorato di ricerca o ai master di secondo livello.

5.2.1. Una conferma della censura ora riportata si troverebbe nella direttiva del Dipartimento della Funzione Pubblica n. 3 del 24 aprile 2018 (“ Linee guida sulle procedure concorsuali ”), dove viene indicato che per profili elevati è ragionevole richiedere una competenza particolare nella materia o esperienza nel settore, sicché è legittimo richiedere i massimi titoli di studio previsti dall’ordinamento accademico in relazione a specifici profili professionali.

5.3. In altre parole, sarebbe erronea la motivazione della sentenza di prime cure secondo cui il bando di concorso non avrebbe potuto contenere deroghe, ma si sarebbe dovuto conformare al previgente Regolamento interno sull’accesso. In realtà, la previsione regolamentare indicherebbe i soli requisiti minimi di accesso e pertanto non precluderebbe definitivamente la possibilità di prevedere, nella lex specialis , titoli ulteriori. Questa opzione ermeneutica – sottolinea l’Ateneo – sarebbe l’unica possibile anche alla luce della disciplina successiva (la lett. e- ter) è stata introdotta nell’art. 35, comma 3, cit., dal d.lgs. n. 75/2017), di rango primario e imperativa, che riconosce ampia autonomia alla P.A. nel definire per ogni singoli profilo i requisiti di accesso più idonei, fino a legittimare la previsione dei massimi titoli accademici: se, invece, il Regolamento di Ateneo dovesse intendersi in modo rigido e definitivamente vincolante, ciò significherebbe che con tale atto l’Università si sarebbe auto-vincolata a non esercitare la discrezionalità che le è propria nella materia in esame.

5.3.1. A detta conclusione sarebbe giunto anche il Comitato Tecnico Amministrativo dell’Ateneo nel parere espresso in data 17 novembre 2019 su una vicenda analoga a quella per cui è causa. Il predetto organo avrebbe sottolineato che, mentre non è possibile scendere sotto i requisiti previsti dal citato Regolamento per le singole categorie (i quali hanno, dunque, natura di requisiti minimi), risulta ben possibile l’inverso, ciò che il bando di concorso preveda requisiti ulteriori: ciò sarebbe ragionevole in relazione proprio alla categoria EP, essendo quella apicale nell’elenco di cui all’art. 7 del medesimo Regolamento, perché altrimenti l’Università non potrebbe selezionare il proprio personale in modo più specifico per competenza e professionalità.

5.3.2. Il parere ora riportato sarebbe corretto e condivisibile, tenuto anche conto che l’obiettivo della par condicio tra i concorrenti, a cui è finalizzata la garanzia dell’auto-vincolo regolamentare, sarebbe recessivo rispetto a quello superiore di buon andamento ed efficienza dell’azione amministrativa, in virtù del quale si deve garantire che la selezione risulti indirizzata a candidati in possesso di requisiti adeguati al ruolo da coprire.

5.3.3. L’antinomia tra la previsione del Regolamento e quella contenuta nel citato art. 35, comma 3, andrebbe, dunque, risolta secondo il precetto lex superior derogat legi inferiori e pertanto la norma secondaria dovrebbe essere interpretata nel solo senso che la rende compatibile con quella primaria, ovvero con l’inefficacia automatica della disposizione di grado inferiore.

5.4. L’Università passa poi ad illustrare le ragioni per cui la previsione della laurea quinquennale nell’ambito della procedura selettiva in esame sarebbe ragionevole, proporzionata, esente da ogni ipotesi di eccesso di potere e rispondente alla finalità di selezionare i candidati in possesso del profilo professionale e bagaglio culturale adeguato al ruolo da ricoprire.

5.4.1. Tali ragioni consisterebbero, in sintesi:

I) nelle funzioni assolte nelle Università dal personale di categoria EP (Elevata Professionalità). Tale figura professionale sarebbe infatti tenuta a risolvere questioni e problematiche altamente complesse e articolate di carattere organizzativo, tecnico e/o professionale con un elevato grado di responsabilità nei confronti dell’Amministrazione e dei terzi. Si tratterebbe della figura di più alto livello giuridico ed economico tra il personale non dirigenziale delle Università, tanto è vero che a detto personale è possibile conferire deleghe al fine di sostituire il dirigente in caso di impedimento o assenza di costui, con assunzione delle funzioni di vicario;

II) negli elementi distintivi tra laurea triennale e laurea di secondo livello/magistrale, relativamente ai contenuti, agli obiettivi didattici, alle competenze che si acquisiscono e agli sbocchi occupazionali propri dei due livelli di studio. Ciò, con particolare riferimento ai laureati in Ingegneria Informatica, che è una delle classi di studio richieste dal bando in esame;

III) nel ruolo specifico dei posti messi a concorso, poiché l’Area per l’Innovazione e Gestione dei Sistemi Informativi ed Informatici dell’Università, alla quale si riferiscono i posti stessi, costituirebbe un’articolazione nevralgica, strategica e trasversale, di cui, perciò, dovrebbero far parte dipendenti in possesso di un’elevata qualificazione professionale e dotati di notevoli capacità e duttilità, nonché di esperienza da mettere al servizio dell’Amministrazione. In proposito sarebbe erronea l’affermazione del dr. Frangioni, secondo cui le competenze in oggetto sarebbero acquisibili soltanto mediante “il lavoro sul campo”, come dimostrerebbero anche i contenuti dell’art. 3 del bando circa le conoscenze e competenze specifiche richieste ai candidati per partecipare al concorso;

IV) nei precedenti rappresentati dalle procedure concorsuali per la categoria EP indette nell’ultimo decennio dall’Università degli Studi di Firenze, dove ai fini dell’accesso alla suddetta categoria si è previsto il possesso del il diploma di laurea “D”, della laurea “ vecchio ordinamento ante D.M. n. 509/1999 ”, della laurea specialistica “LS” e della laurea magistrale “LM” e non anche della laurea triennale “L”, salve rare eccezioni in cui il profilo del ruolo da ricoprire sia risultato compatibile (ciò che non si verificherebbe nel caso di specie).

6. Le doglianze sopra riferite, che vanno trattate congiuntamente attese le loro connessioni sul piano logico-giuridico, non possono essere condivise.

6.1. In primo luogo, diversamente da quanto opinato dall’Università, non vi è alcun contrasto tra l’art. 7, comma 1, del Regolamento di Ateneo e l’art. 35, comma 3, lett. e- ter) del d.lgs. n. 165/2001. Al riguardo basta osservare che il citato art. 35, comma 3, lett. e- ter) attribuisce alle Amministrazioni la “ possibilità di richiedere, tra i requisiti previsti per specifici profili o livelli di inquadramento di alta specializzazione, il possesso del titolo di dottore di ricerca o del master universitario di secondo livello o l'essere stati titolari per almeno due anni di contratti di ricerca ”: esso, dunque, attribuisce alle Amministrazioni una mera facoltà (com’è insito nel termine “ possibilità ”), di cui l’Università di Firenze ha scelto di non avvalersi, tenendo fermo, fino alle recentissime modifiche (v. infra ), il testo dell’art. 7, comma 1, lett. d) del Regolamento, che per l’accesso alla categoria EP ha previsto in modo esplicito che fosse sufficiente il possesso della laurea (L).

6.1.1. Nessuna antinomia tra norma primaria e norma secondaria è, dunque, rinvenibile nel caso ora in esame, né una simile antinomia e la soluzione prospettata dall’appellante possono cogliersi dalle “ Linee Guida ” del Dipartimento della Funzione Pubblica.

6.2. In secondo luogo, la tesi dell’Ateneo fiorentino, secondo cui quelli previsti dal Regolamento di Ateneo sarebbero requisiti minimi, ai quali la lex specialis potrebbe aggiungerne altri, modellati sulle professionalità da acquisire, non trova alcun addentellato nel testo dell’art. 7 del citato Regolamento, rubricato “ requisiti di ammissione ”. Questo, alla lett. d) del comma 1, individua quali requisiti per l’accesso alla categoria EP il possesso della laurea (L) e la “ abilitazione professionale e/o particolare qualificazione professionale ricavabile da precedenti esperienze lavorative prestate per almeno 3 anni presso amministrazioni statali, enti pubblici o aziende private e/o titoli post-universitari ”. La disposizione, dunque, non reca alcuna specificazione che consenta di configurare detti requisiti quali minimi, come nel testo attuale del citato art. 7, comma 1, conseguente alle modifiche introdotte dal decreto rettorale n. 3/2023, che parla del titolo di studio (laurea) “ quale requisito minimo di accesso ”. Essa neppure attribuisce alla lex specialis delle singole procedure concorsuali la facoltà di introdurre requisiti aggiuntivi.

6.2.1. L’insostenibilità della tesi dell’appellante emerge anche dal fatto che, quando l’art. 7, comma 1, ha voluto qualificare come minimi i requisiti di accesso alle categorie di personale in esso elencate, lo ha fatto in modo espresso: ad es., per il personale della categoria B, posizione economica B3, ha richiesto, oltre al possesso del titolo di studio della scuola dell’obbligo (previsto in via generale per la categoria B), il diploma di qualifica professionale, o l’attestato di qualificazione professionale ai sensi della l. n. 845/1978, o un titolo equiparabile, ed ha inoltre facoltizzato il bando di concorso a prevedere ulteriori requisiti (attività lavorativa specifica relativa alla professionalità richiesta prestata per almeno due anni presso Amministrazioni statali, Enti pubblici o aziende private, ovvero attestato di qualificazione professionale di durata almeno biennale). In questo caso, dunque, il titolo di studio della scuola dell’obbligo è stato esplicitamente indicato quale requisito minimo: ma una previsione di tal fatta manca del tutto per il personale della categoria EP.

6.2.2. Non rilevano in contrario il parere del Comitato Tecnico Amministrativo dell’Ateneo espresso in data 17 novembre 2019, né la circostanza che sulla scorta di tale parere l’Università di Firenze si sia diversamente regolata in altra fattispecie, così com’è irrilevante la prassi seguita dall’Università in precedenti procedure concorsuali, atteso che per costante giurisprudenza la prassi amministrativa non può mai porsi contra legem , o contro la sua corretta applicazione interpretativa (cfr., ex multis , C.d.S., Sez. VI, 29 aprile 2012, n. 3441;
Sez. IV, 31 agosto 2010, n. 6446).

6.3. A ben vedere, poi, l’operazione compiuta dall’Università con il bando di concorso non è stata quella di assumere la laurea triennale quale requisito minimo di ammissione, ma di modificare detto requisito, sostituendolo con un altro (laurea specialistica o magistrale), come correttamente rilevato dal primo giudice.

6.4. Da ultimo, le preoccupazioni dell’Università di reperire personale adeguatamente qualificato per la posizione EP1 trovano soddisfazione nell’ulteriore requisito di ammissione contemplato dal citato art. 7, comma 1, lett. d) , cioè nella “ particolare qualificazione professionale ricavabile da precedenti esperienze lavorative prestate per almeno 3 anni presso amministrazioni statali, enti pubblici o aziende private ”.

6.5. Questo punto necessita di un’ulteriore considerazione.

6.5.1. La circostanza che quale requisito ulteriore di ammissione l’art. 7, comma 1, lett. d) , cit. abbia previsto, in alternativa all’abilitazione professionale e alla qualificazione professionale, “ titoli post-universitari ”, lungi dal contraddire la ricostruzione fin qui delineata, la conferma. Infatti, visto che si tratta di requisiti alternativi tra loro, può ipotizzarsi che la particolare qualificazione professionale derivante da precedenti esperienze lavorative si cumuli alla laurea triennale (L) e che, invece, i titoli post-universitari (se intesi come dottorato di ricerca o master di II livello, ai sensi dell’art. 35, comma 3, lett. e- ter) , del d.lgs. n. 165/2001) si accompagnino al possesso di una laurea specialistica;
in tale ipotesi, il possessore della laurea specialistica e del titolo post-universitario è esentato dal dover dare la prova delle precedenti esperienze lavorative di tre anni.

7. Nelle ultime memorie ambedue le parti invocano a sostegno delle proprie tesi le recenti modifiche introdotte dal decreto rettorale n. 3/2023, per effetto delle quali l’art. 7 del Regolamento di Ateneo contempla ora la laurea triennale quale requisito minimo di accesso. Il Collegio condivide sul punto l’osservazione dell’appellato che tale modifica conferma la fondatezza del ricorso da lui proposto in primo grado, perché la disciplina anteriore del Regolamento non aveva previsto la laurea triennale quale requisito minimo ed è stato necessario modificare detta disciplina per introdurvi una previsione di tal fatta, avente efficacia de futuro .

7.1. Ribatte in proposito l’Università appellante che si sarebbe trattato di un atto di interpretazione autentica della norma regolamentare, e non avente portata innovativa, poiché già in epoca anteriore l’art. 7 cit. sarebbe stato inteso come recante la previsione dei requisiti minimi per l’accesso. La tesi non convince, in quanto il decreto rettorale (d.r.) n. 3/2023 non può ritenersi atto di interpretazione autentica, sia perché un regolamento non può avere efficacia retroattiva (art. 11 preleggi), sia perché esso non presenta le caratteristiche proprie delle norme di interpretazione autentica.

7.2. Invero, per giurisprudenza consolidata la qualificazione di una norma come di interpretazione autentica presuppone una particolare struttura della fattispecie normativa, per la quale la norma stessa, essendo rivolta a imporre una data interpretazione a una precedente norma, con efficacia retroattiva, lascia immutato il tenore testuale della disposizione interpretata e si limita a chiarirne e precisarne il significato e a rendere vincolante, tra le tante interpretazioni possibili, una tra le varie interpretazioni possibili, essendo sufficiente che la scelta ermeneutica imposta dalla legge interpretativa rientri tra le varianti di senso compatibili con il tenore letterale del testo interpretato, stabilendo un significato che ragionevolmente poteva essere ascritto alla norma anteriore (cfr., ex multis , C.d.S., Sez. VI, 3 giugno 2020, n. 3467;
id., 17 novembre 2004, n. 7512;
Sez. IV, 27 marzo 2008, n. 1268).

7.2.1. Nel caso in esame, invece, la disciplina introdotta dal d.r. n. 3/2023 non ha le caratteristiche ora viste, poiché non lascia immutato il tenore testuale della precedente versione dell’art. 7, comma 1, cit. e non reca nemmeno la formula secondo cui la previsione in vigore “ si interpreta nel senso...”, la quale indica che ci si trova innanzi a una norma di interpretazione autentica (Cass. civ., Sez. I, 25 ottobre 2018, n. 27125;
C.d.S., Sez. VI, 24 aprile 2007, n. 1835). Si tratta, dunque, di disposizione innovativa, come tale non applicabile alla fattispecie per cui è causa e che anzi conferma ex post , in modo implicito, che la disciplina pregressa era di diverso tenore.

8. In conclusione, l’appello è nel suo complesso infondato e deve, perciò, essere respinto, dovendo la sentenza appellata essere confermata.

9. Sussistono, comunque, giusti motivi per disporre l’integrale compensazione tra le parti delle spese del giudizio di appello, considerata la novità della questione esaminata.

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