Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza 2012-02-23, n. 201200985
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N. 00985/2012REG.PROV.COLL.
N. 05475/2011 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 5475 del 2011, proposto da:
Comune dell'Aquila in persona del Sindaco p.t., rappresentato e difeso dall'avv. D D N, con domicilio eletto presso Giancarlo Caporali in Roma, via Valadier, 48;
contro
A M R, Italia P R;
per la riforma
della sentenza del T.A.R. ABRUZZO, Sezione I, n. 00282/2011, resa tra le parti e concernente l’illegittimità del silenzio serbato dal comune dell'Aquila in relazione ad una diffida intesa alla riqualificazione urbanistica di suoli di proprietà privata.
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nella camera di consiglio del giorno 24 gennaio 2012 il Cons. G V e uditi per la parte ricorrente l’avv. Gabriele Bavaro in sostituzione di D D N;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
Con ricorso n. 286/2010, le sig.re A M R e Italia P R chiedevano al Tribunale Amministrativo Regionale per l’Abruzzo dichiararsi l’illegittimità del silenzio serbato dal Comune dell’Aquila sull’istanza dalle medesime presentata in data 18 marzo 2010 e tesa ad ottenere la riqualificazione urbanistica di aree di proprietà, già gravate da vincoli espropriativi ormai asseritamente scaduti.
Costituitasi in giudizio, l’amministrazione eccepiva la genericità dell’istanza ed il carattere conformativo di parte dei vincoli, nonché l’esistenza di un termine annuale per provvedere previsto dalla disposizione speciale di cui all’art. 44 comma 1 quinquies della legge regionale 3 marzo 1999 n.11, non scaduto al momento della proposizione della domanda giudiziale.
Alla prima udienza del 30 giugno 2010 la causa subiva un rinvio al 6 ottobre per poi essere introitata per la decisione all’udienza del 27 aprile 2011, quanto anche il termine annuale indicato dall’amministrazione era ormai scaduto.
Con la sentenza in epigrafe indicata, il Tribunale amministrativo accoglieva il ricorso e, per l’effetto, ordinava al Comune di l’Aquila di provvedere entro il termine di giorni 60. Quest’ultimo interponeva gravame, oggetto dell’odierna valutazione.
DIRITTO
Il TAR ha accolto il ricorso e conseguentemente ordinato al Comune di provvedere, ritenendo scaduto, al momento della pronuncia, il termine annuale previsto della legge regionale 11/99, e non nutrendo, su altro versante, dubbi circa la doverosità dell’attività pianificatoria in presenza di “aree bianche” derivanti dalla scadenza di vincoli a carattere espropriativo. Ha in proposito precisato, con riferimento all’eccezione di inammissibilità posta dall’amministrazione in relazione al mancato decorso del citato termine annuale alla data di proposizione del ricorso, che il principio di economia processuale avrebbe reso ultronea una ulteriore e defatigante parentesi processuale che nulla avrebbe aggiunto rispetto all’inadempimento già maturatosi in corso di giudizio.
L’amministrazione in sede di gravame deduce: a) la violazione dell’art. 31 cpa. La norma sarebbe chiara nel pretendere, ai fini della proponibilità dell’azione, il decorso del termine per il compimento dell’atto. Il termine sarebbe pacificamente fissato dalla legge regionale in un anno (sul punto sono citate decisioni della Sezione, 12 maggio 2011, n. 2882 e 03591/2011), con conseguente inammissibilità dell’azione per silentium proposta, nel caso di specie, molto tempo prima;b) l’illegittimo modus procedendi del Tribunale che, in forza di una serie di rinvii, avrebbe di fatto snaturato il celere strumento processuale predisposto dal legislatore, dilatandone i tempi sino a far maturare, nelle more della decisione, il citato termine annuale;c) la mancanza di una approfondita valutazione in ordine alla effettiva sussistenza dei vincoli ed alla loro natura.
L’appello è infondato.
Il punto nodale della controversia concerne la possibilità, per il giudice, di considerare e valutare la sopravvenienza della scadenza del termine, nell’ambito di un giudizio sul silenzio che sia stato prematuramente instaurato.
L’art. 31 Cpa dispone in proposito che “ decorsi i termini per la conclusione del procedimento amministrativo, chi vi ha interesse può chiedere l'accertamento dell'obbligo dell'amministrazione di provvedere ”.
Non può negarsi che il tenore letterale della norma autorizzi, tra le opzioni esegetiche possibili, una interpretazione, come quella perorata dall’appellante, che connetta il decorso del termine finale del procedimento alla stessa ammissibilità dell’azione. In tal senso potrebbe sostenersi che il maturare del termine abbia la stessa valenza della vecchia diffida a provvedere e che, quindi, l’amministrazione possa ragionevolmente confidare nell’improponibilità di azioni giudiziarie durante lo spatium deliberandi che precede lo scadere del termine, in questo caso ex lege fissato. La stessa celerità del rito costituirebbe argomento a sostegno dell’inammissibilità nella misura in cui esso avrebbe necessariamente ad oggetto l’evento storico della scadenza del termine, e solo eventualmente la cognizione dell’esatta regolazione della sostanza del rapporto, in guisa che, se l’evento non si sia prodotto al tempo della domanda, il decisum non possa che essere reiettivo.
Le considerazioni, pur sostenibili alla luce della lettera del dettato normativo, non possono tuttavia condividersi, se riferite all’impianto sistematico del codice del processo ed ai principi della tutela processualcivilistica che dichiaratamente lo ispirano.
Sul primo versante può osservarsi che la tutela in sede giurisdizionale amministrativa ha ormai acquisito una valenza sostanziale imposta dagli imperativi di efficacia e satisfattività, i quali hanno indotto una disciplina processuale improntata alla tutela del bene della vita esposto all’azione dell’amministrazione, piuttosto che all’analisi degli atti che da quest’ultima promanano. Ne è derivata, tra l’altro, la conferma della centralità dei motivi aggiunti, la rilevanza dell’interesse e del suo mutamento sulle tecniche di tutela percorribili, la possibilità, per il giudice, di conoscere della fondatezza della pretesa in relazione ad attività di amministrazione non discrezionale, l’atipicità dei contenuti dell’eventuale condanna.
I motivi aggiunti, in particolare, costituiscono il grimaldello processuale a disposizione delle parti per condurre davanti al giudice l’intera vicenda amministrativa, pur quando essa si presenti in una sequenza di atti e fatti dotati di autonoma rilevanza ed efficacia lesiva. Essi sono ammessi anche nel giudizio sul silenzio.
Il codice del processo, nel disciplinarne il rito, ha statuito, recependo autorevole posizione giurisprudenziale, che “ se nel corso del giudizio sopravviene il provvedimento espresso, o un atto connesso con l'oggetto della controversia, questo può essere impugnato anche con motivi aggiunti, nei termini e con il rito previsto per il nuovo provvedimento, e l'intero giudizio prosegue con tale rito ”, in tal modo prediligendo – anche nel giudizio sul silenzio - una impostazione che ha riguardo al complessivo rapporto e non al singolo episodio. Mentre, in precedenza, infatti, i motivi aggiunti erano strettamente connessi alla pregressa e pendente impugnativa di un atto, e ritenuti compatibili solo con il rito ordinario - con la conseguenza della loro non proponibilità nel giudizio sul silenzio, in assenza di espresse previsioni normative che consentissero il mutamento del rito - nell’ambito del nuovo impianto processuale invece, nonostante l’azione inizialmente proposta abbia ad oggetto la mera inerzia serbata dall’amministrazione, l’esigenza di una tutela satisfattiva non sganciata dal complessivo rapporto tra privato ed amministrazione ha indotto il legislatore a consentire l’utilizzo di un alveo processuale unico, piegando il rito alle esigenze della tutela e non viceversa.
E’ segno che il silenzio altro non è che una componente (patologica) di quell’azione amministrativa necessaria ad assicurare la mediazione tra interesse pubblico primario, secondario ed interessi privati. Se così è, e se, allora, l’oggetto dell’azione non è il mero accertamento dello scadere del termine, ma è lo stesso rapporto traguardato preliminarmente nella sua dimensione temporale ed eventualmente in quello della corretta regolazione, allora non può esservi dubbio che il maturare dell’inadempimento nel corso del giudizio sia un fatto sopravvenuto, legato all’inutile scorrere del tempo, stigmatizzabile nel corso nel giudizio. Il riferimento ai “motivi aggiunti” sarebbe in questo caso atecnico, oltre che ultroneo, poiché è evidente che lo scorrere del tempo in un giudizio sull’inerzia costituisce un fatto e non un atto;ma il parallelismo rende ragione dell’esistenza di una medesima logica di fondo: la necessità che sia l’intera vicenda amministrativa e non un suo singolo episodio ad essere posta all’attenzione del giudice.
L’esatta individuazione dell’oggetto del giudizio e la conferma che anche in questo caso trattasi del rapporto fra soggetti dell’ordinamento, anche se dotati di differenti poteri, consente l’applicazione dei principi processualcivilistici. Da questi ultimi, invero, giungono gli spunti risolutivi.
La dottrina ha sempre evidenziato, riprendendo l’iniziale impostazione “chiovendiana”, la differenza logico giuridica tra presupposti e condizioni dell’azione, i primi necessari per l’accesso al processo, i secondi necessari per ottenere una pronuncia sulla pretesa dedotta in giudizio.
La giurisprudenza, recependo siffatta impostazione, ne ha ricavato ciò, che mentre i presupposti dell’azione devono essere presenti al momento della domanda, non essendo gli stessi in alcun modo recuperabili ex post, le condizioni dell’azione ben possono venire ad esistenza al momento della pronuncia, poiché è a quel tempo che il giudice, ovviamente in una visione dinamica della controversia tipica del giudizio civile, fissa la regola del caso concreto, accertando, se del caso, la sussistenza delle reciproche obbligazioni.
Così, ad esempio, è stato affermato che il passaggio in giudicato della sentenza di separazione giudiziale, che rappresenta il fatto costitutivo del diritto ad ottenere lo scioglimento della comunione legale dei beni, non è condizione di procedibilità della domanda giudiziale di scioglimento della comunione legale e di divisione dei beni, ma condizione dell'azione (Cfr. Cassazione civile, sez. I, 26/02/2010, n. 4757);o, ancora, in materia di determinazione dell'indennità di espropriazione, che l’avvenuta emissione del decreto di esproprio è condizione dell'azione e non presupposto processuale della domanda di opposizione alla stima, onde è sufficiente che la stessa intervenga prima della decisione della causa (Cfr Cassazione civile, sez. I, 03/03/2006, n. 4703);od anche, che il decorso del termine di un anno dell'acquisto della proprietà del fondo, richiesto dall'art. 42 della l. 3 maggio 1982 n. 203 per l'esercizio del diritto di ripresa da parte del concedente, non costituisce un presupposto processuale o un requisito di proponibilità della domanda, bensì una condizione dell'azione, che può utilmente decorrere in corso di causa (cfr. Cassazione civile, sez. III, 26/02/1994, n. 1941);ed infine, in tema di azione di adempimento, che se la prestazione dedotta in giudizio è esigibile dopo la maturazione di un determinato termine, il decorso di questo costituisce non già un presupposto processuale, ma una condizione dell'azione, cosicché è sufficiente che esso sia compiuto all'epoca della decisione (Cfr. Cassazione civile, sez. II, 16 novembre 2001, n. 14429).
Il binomio presupposti del processo - condizioni dell’azione, come visto ampiamente valorizzato dalla giurisprudenza civile, ben può adoperarsi per la risoluzione delle questioni relative all’azione sul silenzio nel processo amministrativo, per giungere ad affermare che anche in questo caso, come in quelli, la scadenza del termine costituisca una condizione dell’azione, che è sufficiente sussista al momento della decisione.
Chiarito, infatti, che trattasi di un’azione tesa ad ottenere la condanna all’adempimento di un facere pubblicistico generico (ossia il provvedere) e, in determinati casi, di quello specifico (ossia l’emanazione del provvedimento che attribuisce l’utilità cui il privato aspira), essa ben può inquadrarsi nella categoria processualistica generale dell’azione di esatto adempimento (in tal senso, nettamente, Ad. Plen. n. 15/2011), con conseguente impossibilità di considerare lo scadere del termine quale mero presupposto processuale, secondo una logica attizia e formale, non più compatibile con l’impianto del codice.
Neanche la specialità e celerità del rito costituisce argomento idoneo a giustificare un diverso approccio, innanzitutto perché specialità e celerità sono attributi riferibili anche ad altri riti che non si differenziano in ordine all’oggetto del processo, ma soprattutto perché il legislatore ha già mostrato di ritenere compatibile con il rito complessi accertamenti in ordine al fondamento della pretesa, con ciò smentendo l’equazione semplicità del rito/limitatezza della cognizione, sostenuta prima dell’emanazione del codice da Adunanza Plenaria n. 1/2002.
Del resto, siffatta conclusione non è nuova per il processo amministrativo avendo già trovato proficuo accoglimento nell’ambito del giudizio per l’esecuzione del giudicato, ove il giudicato maturi successivamente alla proposizione dell’azione, ma prima della decisione: in tale ipotesi - si è efficacemente affermato - il passaggio in giudicato costituisce fatto costitutivo sopravvenuto al quale dare rilevanza in forza del principio di economia processuale (cfr. Consiglio Stato, sez. V, 17/05/2007, n. 2463).
Ciò, ovviamente, non vuol dire che sia sempre consentito proporre azione giudiziaria prima del decorso del termine, né che il giudice possa procrastinare la decisione in funzione dell’effettiva scadenza dello stesso, poiché da un lato il ricorrente al fine di proporre la domanda deve sempre allegare la scadenza del termine, e dall’altro, il giudice non può che decidere con la celere scansione temporale impostagli dal rito, con la conseguenza che, se il provvedimento interviene in tempo utile in costanza di un giudizio prematuramente attivato, oppure, se la causa è introitata prima del maturare del termine in difetto del provvedimento, il giudice non può che limitarsi ad una pronuncia reiettiva per mancanza di un’indefettibile condizione dell’azione, dovendosi stigmatizzare ogni forma di abuso dello strumento processuale a fini preventivi o sollecitatori.
Quando, però, la tesi del ricorrente in ordine ai profili temporali dell’azione si riveli errata, e nel giudizio emerga l’esistenza di un termine più lungo di quello inizialmente ipotizzato, non v’è ragione per negare la richiesta tutela ove nel frattempo il diverso termine sia comunque spirato senza che l’amministrazione abbia provveduto, atteso che l’inadempimento è oggettivamente esistente al momento della decisione ed al contempo soddisfatta la condizione dell’azione ab origine carente.
Nel caso di specie, il ricorrente ha proposto l’azione nell’erronea convinzione che il termine procedimentale fosse di 45 giorni. Chiarito, nelle more del giudizio - anche a seguito di una serie di decisioni del Consiglio di Stato su precedenti pronunce del TAR Abruzzo - che il termine era invece annuale, i ricorrenti, trascorso inutilmente anche tale termine, pendente il giudizio, hanno insistito per la condanna dell’amministrazione, allegandone la perdurante inerzia. Essendosi ormai verificato il fatto costitutivo integrante la condizione dell’azione, correttamente il TAR ha deciso nel merito la domanda, accogliendola.
Prive di fondamento in proposito sono le doglianze tese a stigmatizzare un comportamento processuale asseritamente dilatorio del Tribunale. Alcuna forzatura o snaturamento sono stati operati a danno della celerità e funzionalità dello strumento processuale, ove si consideri che molte delle “tempestive” decisioni su fattispecie analoghe erano state gravate dinanzi al Consiglio di Stato proprio in relazione all’esatta individuazione del termine da applicare al procedimento amministrativo teso alla riqualificazione urbanistica, gravame che, considerato il carattere seriale delle controversie, ha indotto il Tribunale ad attendere la decisione del Giudice di Appello con ragionevole sacrificio dei tempi processuali.
Nemmeno possono condividersi le considerazioni dell’appellante in ordine al mancato scrutinio della natura dei vincoli, essendosi il primo giudice limitato ad una condanna generica a provvedere che nulla dice o impone in ordine al contenuto del provvedimento adottando.
L’appello è pertanto respinto.
Avuto riguardo alla novità della questione le spese di giudizio possono essere compensate.