Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza 2010-06-04, n. 201003546

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Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza 2010-06-04, n. 201003546
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 201003546
Data del deposito : 4 giugno 2010
Fonte ufficiale :

Testo completo

N. 01771/2005 REG.RIC.

N. 03546/2010 REG.DEC.

N. 01771/2005 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)

ha pronunciato la presente

DECISIONE

Sul ricorso numero di registro generale 1771 del 2005, proposto da:
Ecoidea S.r.l., in persona del legale rappresentante in carica, rappresentato e difeso dagli avv. G G, G M, con domicilio eletto presso G G in Roma, via G.Pisanelli 4;

contro

Autorità per L'Energia Elettrica e il Gas, in persona del legale rappresentante in carica, rappresentato e difeso dalla Avvocatura Generale dello Stato, presso i cui uffici in Roma, alla Via dei Portoghesi n. 12, è domiciliata per legge;

per la riforma

della sentenza del TAR LOMBARDIA – Sede di MILANO- SEZIONE IV n. 05549/2004, resa tra le parti, concernente ADEMPIMENTO QUOTA DI POTENZA DI IMPIANTO DI COGENERAZIONE DI ENERGIA ELETTRICA-DOMANDA DI RISARCIMENTO DEL DANNO.


Visto il ricorso in appello con i relativi allegati;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Visto l'art. 23 bis comma sesto della legge 6 dicembre 1971, n. 1034, introdotto dalla legge 21 luglio 2000, n. 205;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 2 marzo 2010 il consigliere Fabio Taormina e uditi per le parti l’avvocato Gigli e l'avvocato dello Stato Vitale;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO

Con il ricorso di primo grado l‘odierna appellante aveva proposto domanda di annullamento della deliberazione n. 144/01 del 26.6.2001 comunicata l’8.8.2001, prot. PB/MO011851, nella parte in cui aveva dichiarato, in relazione all’impianto di cogenerazione di energia progettato dalla medesima, l’avvenuto adempimento del disposto dell’art. 15, comma 2, del dec. leg.vo 16.3.1999 n. 79, limitatamente alla quota di potenza autorizzata con decreto 7.3.2000 n. 23/2000 del Ministero dell’industria (MICA), nonchè della deliberazione del 5.7.2001 n. 151/01, nella parte in cui aveva dichiarato il non avvenuto adempimento di cui al medesimo disposto, per la quota di potenza eccedente quella autorizzata con il richiamato decreto del MICA.

L’odierna appellante aveva premesso di avere progettato la realizzazione di un impianto di cogenerazione di energia elettrica e vapore nel comune di Cologna per una potenza di complessivi 6,6 MW elettrici (il previsto uso di fonti rinnovabili consentiva di beneficiare degli incentivi concernenti i provvedimenti di cui all’art. 3, comma 7, della legge 14.11.1995, n. 481 disciplinati con il provvedimento del

CIPE

6/92 del 1992).

Essa era subentrata, a tal fine, alla società SEBA nella convenzione stipulata con l’ENEL in data 24.12.1996;
tra le varie autorizzazioni le era stata rilasciata anche quella della tutela della qualità dell’aria (provvedimenti

MICA

23/2000 e 122/2000), e la documentazione era stata depositata presso l’AEEG per l’ottenimento della dichiarazione di adempimento ai sensi dell’art. 15, comma 2, del dec. lgs 16.3.1999 n. 79.

L’Autorità, con delibera 144/01 aveva dichiarato l’avvenuto adempimento per la potenza autorizzata con decreto 7/2000, mentre aveva dichiarato l’inadempimento in relazione alla potenza autorizzata con il decreto 122/2000.

L’appellante era insorta lamentando l’assoluta carenza di motivazione, per non essere state indicate le ragioni giuridiche di tale affermato inadempimento, pur in presenza di tutte le autorizzazioni.

Aveva in particolare censurato l’erroneo convincimento dell’Autorità sull’inadempimento entro il 31.3.2000 del requisito riguardante l’autorizzazione del MICA relativo al provvedimento 122/2000 in quanto rilasciato il 17.11.2000, essendo rilevanti in proposito solo le autorizzazioni in materia urbanistica e dei beni culturali ed ambientali, e la mancata valutazione della circostanza che alla data del 31.3.2000 era stato comunque chiesto il rilascio del provvedimento ministeriale.

Aveva infine criticato l’erroneo convincimento dell’appellata Amministrazione relativamente alla necessità dell’autorizzazione rilasciata ai sensi dell’art. 17 del d.p.r. 203/88, riguardando tale autorizzazione solo l’esercizio e non già anche la costruzione dell’impianto per cui è causa.

Il Tar ha respinto il ricorso, in primo luogo rammentando l’orientamento giurisprudenziale secondo il quale l’Autorità doveva ritenersi investita dalla legge di un potere di accertamento e verifica della completezza della documentazione acquisita entro il termine indicato dalla legge medesima, al quale era collegato direttamente l’effetto di ammissione o di decadenza in ordine ai benefici connessi all’adempimento prescritto dalla legge medesima.

Tale potestà si inquadrava nel potere di vigilanza riconosciuto all’Autorità dalla legge 481/95, e si giustificava con la finalità indicata dal comma 2 dell’art. 15 del dec. lgs. 79/99, di “definire un quadro temporale certo delle realizzazioni” degli impianti ammessi alle incentivazioni (in considerazione della necessità di porre rimedio alle conseguenze negative derivanti dalla mancata previsione, nella disciplina previgente al d. lgs. 79/99, di un termine decadenziale per l’esercizio del diritto acquisito con l’immissione nella graduatoria di cui al provvedimento CIP n. 6/92).

Nessuna carenza motivazionale viziava l’impugnato diniego: la fruizione dei benefici economici in questione derivava direttamente dalla legge ( la quale definiva in modo vincolante anche per l’Autorità, che non possedeva alcun margine di discrezionalità in proposito, le condizioni alle quali è subordinata la dichiarazione di adempimento demandata alla medesima) prevedendo adempimenti procedimentali comportanti l’onere- a pena di decadenza dai benefici previsti- della presentazione all’Autorità, entro la data del 31 marzo 2000, di tutte le autorizzazioni necessarie alla costruzione ed all’esercizio degli impianti.

Con riferimento poi alla tesi secondo cui sarebbero rilevanti a fini della dichiarazione di adempimento solo le autorizzazioni in materia urbanistica e dei beni culturali e ambientali e non l’autorizzazione rilasciata ai sensi dell’art. 17 del d.p.r. 203/88 ( riguardando tale autorizzazione solo l’esercizio e non la costruzione dell’impianto di che trattasi) il Collegio ha in contrario osservato che la ratio del disposto normativo del comma 2 dell’art. 15 del dec. lgs 79 del 1999 era quella di stabilire in via ultimativa un limite temporale ( collegato al verificarsi di tutti i presupposti giuridici ai quali sono subordinati non solo la costruzione, ma anche la messa in esercizio degli impianti di generazione elettrica di che trattasi) al quale imputare la definitiva determinazione di ammissione o meno ai benefici delle incentivazioni previste per la produzione di energia da fonti rinnovabili dopo l’immissione nella graduatoria di cui al provvedimento CIP n. 6/92.

Ne discendeva l’infondatezza della prospettazione secondo la quale l’autorizzazione di cui all’art. 17 del d.p.r. 203/1988 all’immissione nell’aria dei fumi di combustione atterrebbe (unicamente) ad esigenze connesse al contenimento dell’inquinamento e quindi al funzionamento dell’impianto dopo la sua realizzazione (e non anche alla sua costruzione).

Il rilascio dell’autorizzazione di cui all’art. 17 del d.p.r. 203/1988 atteneva invece non solo all’esercizio, ma anche alla costruzione dell’impianto.

La verifica del rispetto delle prescrizioni e dei limiti inerenti alle emissioni di fumi nell’atmosfera di cui alla lett. d), dell’art. 1, comma 1, del d.p.r. 53 del 1998, era solo una delle condizioni (tecnico- giuridiche) necessarie all’esercizio dell’impianto alla quale è collegata (ed essa seguiva l’esito positivo della verifica dei processi di combustione di cui al progetto presentato).

Era pertanto irrilevante la circostanza che la messa in esercizio seguiva la costruzione dell’impianto, in quanto la finalità che il legislatore intendeva perseguire era quella dell’effettiva esistenza di tutte le autorizzazioni occorrenti a che l’impianto potesse essere messo in funzione ( evento irrealizzabile se nonostante la piena conformità delle opere agli strumenti urbanistici ed ai vincoli ambientali, paesaggistici, idrogeologici etc, i macchinari non fossero stati in grado di produrre energia per l’impossibilità di immettere nell’area i fumi di scarico).

Non doveva confondersi l’autorizzazione ex art. 17 cit. con la verifica dell’effettiva conformità dei fumi immessi nell’area alla tabella progettuale relativa al rispetto dei parametri stabiliti dalla normativa vigente cui era subordinata l’autorizzazione rilasciata (tale ultima verifica attenendo ad una fase di controllo periodico che, con la messa in esercizio, interessava ogni impianto che immetta fumi di combustione nell’aria)

Tale ricostruzione non era smentita del resto dal disposto dell’art. 26 della legge 10 del 1991, contenente le norme per l’attuazione del piano energetico nazionale, che al riferimento alle disposizioni della legge 19 del 1977 aggiungeva la locuzione “nel rispetto delle norme urbanistiche, di tutela artistico-storica e ambientale”: quest’ultima era da intendere nella sua accezione più ampia e propria di tutela dell’ambiente, come è dato evincere dall’art. 1 della legge stessa che indicava come sua finalità quella “di migliorare i processi di trasformazione dell’energia, di ridurre i consumi di energia e di migliorare le condizioni di compatibilità ambientale dell'utilizzo dell'energia a parità di servizio reso e di qualità della vita”.

Le conclusioni del Collegio apparivano confermate dallo stesso decreto ministeriale 122 del 2000 che, come il precedente 23/2000 per la prima linea, era stato rilasciato per l’installazione e l’esercizio dell’impianto(e quindi per due finalità ben distinte, delle quali la prima indubbiamente atteneva alla fase della realizzazione dell’impianto ossia ad un’autorizzazione necessaria a termini del secondo comma dell’art. 15 del dec. lgs 79 del 1999): ove interpretato nel senso patrocinato dalla originaria ricorrente, il disposto di cui all’art. 15, comma 2, del d. lgs. 79/99 dovrebbe ritenersi illogico per genericità, non indicando con precisione quale provvedimento dovesse essere prodotto.

Infatti, se il beneficiario delle incentivazioni, al fine del mantenimento delle stesse, avesse dovuto presentare solo alcune autorizzazioni e non tutte quelle previste dal procedimento, non si sarebbe compreso quale, tra le varie necessarie (concessione edilizia, autorizzazione paesistica ecc.), sarebbe quella costituente titolo al mantenimento del diritto alle incentivazioni.

Se il legislatore avesse inteso indicare la necessità di presentare all’Autorità una sola o alcune specifiche autorizzazioni avrebbe utilizzato una proposizione normativa diversa indicante specificamente gli atti occorrenti: nel richiedere la produzione delle “autorizzazioni necessarie alla costruzione degli impianti non ancora in esercizio”, il legislatore aveva invece preferito un rinvio alla vigente normativa in materia riferendosi quindi a tutte le autorizzazioni che, secondo tale normativa, sono necessarie a mettere in esercizio gli impianti di che trattasi.

Il mantenimento delle incentivazioni economiche relative ai provvedimenti di cui all’art. 3, comma 7, legge 481/95 era da intendersi quindi subordinato alla produzione, entro il termine decadenziale normativamente indicato, di tutti i provvedimenti autorizzativi necessari per la messa in esercizio degli impianti.

Quanto alla questione sollevata dall’appellante, relativa alla circostanza che l’Autorità non aveva considerato il fatto che alla data del 31.3.2000 era stato comunque chiesto il rilascio del provvedimento ministeriale (anche in riferimento alla modifica dell’art. 15 cit. apportata con l’art. 34 della legge 12 dicembre 2002, n. 273), la doglianza era infondata proprio con riguardo alla intervenuta novella legislativa che aveva interpolato il comma II dell’art. 15 del d.lvo n. 79/1999.

L’eventuale riascio medio tempore intervenuto (o un nuovo diniego) produrrebbe effetti rilevanti in tema di verifica della permanenza/sussistenza dell’interesse a ricorrere: ma ( ha osservato il Tar anche tenendo conto del pregresso orientamento giurisprudenziale sul punto, del quale l’appellante invocava l’applicazione) “sarebbe stato comunque difficile estendere il precedente favorevole orientamento a quelle fattispecie nelle quali la richiesta di autorizzazione risultasse presentata nell’imminenza della scadenza del 31 marzo 2000, ossia in uno spazio di tempo assolutamente insufficiente anche al solo inizio dell’istruttoria della pratica”.

Le doglianze dedotte nel ricorso dovevano conclusivamente essere ritenute infondate, manifestandosi legittime le impugnate delibere dell’Autorità emesse in vigenza dell’originario testo dell’art. 15, comma 2, del d. lgs. 79/99, che non lasciava alcun margine discrezionale all’Autorità per valutare idonea ai fini dell’adempimento e della conservazione del diritto alle incentivazioni (in luogo del provvedimento di autorizzazione ex art. 17 cit.)la domanda presentata per il rilascio della stessa: la declaratoria d’inadempimento, nel caso de quo era sostanzialmente vincolata e l’Autorità non era onerata a motivare in modo puntuale circa la presentazione di documenti ritenuti insufficienti dalla legge stessa.

La sentenza, è stata appellata dall’originaria ricorrente di primo grado che ne ha contestato la fondatezza proponendo articolati motivi di impugnazione ed evidenziando che la statuizione dell’Amministrazione doveva reputarsi illegittima in quanto affetta dal vizio di violazione di legge.

Il provvedimento impugnato in primo grado era immotivato: del tutto apodittico appariva l’iter motivazionale seguito dal Tar con l’appellata statuizione reiettiva del petitum demolitorio.

La sentenza doveva essere annullata in quanto, tra l’altro, non aveva tenuto conto della circostanza che - se anche fosse stata esatta la tesi per cui l’Autorità, ex art. 15 co.II del D.lvo n. 79/1999 era sprovvista di margini di discrezionalità- essa era comunque tenuta a motivare la statuizione reiettiva: sussisteva il vizio di cui all’art. 3 della legge n. 241/1990.

Con il secondo motivo di gravame si è censurata la tesi secondo cui il rilascio dell’autorizzazione di cui all’art. 17 del d.p.r. 203/1988 atteneva non solo all’esercizio, ma anche alla costruzione dell’impianto.

Ciò perché, l’art. 26 della legge n. 10/1991 richiamava l’art.9 della legge n. 10/1977 e non poteva ricomprendere il DPR n. 203/1988.

Né alcuna conseguenza discendente dall’omesso rilascio di detta autorizzazione all’appellante poteva essere fatta ricadere sulla sfera giuridica di quest’ultima.

Essa, comunque, alla data del 31.3.2000 aveva chiesto il rilascio del provvedimento ministeriale autorizzativo, poi trasmesso all’Autorità nel gennaio del 2001;
le decisioni n. 5247/2003 e n. 939/2004 del Consiglio di Stato citate dal Tar qual espressione di un sopravvenuto orientamento giurisprudenziale in senso contrario alla tesi dell’appellante erano state travisate.

Né poteva essere operante in materia il principio del “tempus regit actum” nei termini rappresentati dal Tar: alla proroga di cui all’art. 34 della legge n. 237/2002 doveva attribuirsi portata retroattiva, avendo prorogato un termine (originariamente fissato al 31.3.2000) ormai abbondantemente scaduto.

Doveva essere altresì riconosciuta all’appellante tutela risarcitoria, a cagione della colposa e illegittima attività spiegata dall’Amministrazione (provvedendosi nel ricorso in appello a quantificare il relativo petitum per un ammontare pari ad € 7.711.200,00).

L’appellata Autorità si è costituita depositando una articolata memoria e chiedendo la reiezione dell’appello, richiamando i recenti orientamenti giurisprudenziali in subiecta materia con riferimento all’ assenza di potere discrezionale in sede di verifica dell’avvenuto soddisfacimento da parte dell’impresa istante delle condizioni di legge previste ex art. 15 co.II del D.lvo n. 79/1999.

In particolare ha ripercorso l’evoluzione normativa in materia ed ha evidenziato che l’autorizzazione ministeriale alla seconda linea dell’impianto ex art. 17 del DPR n. 203/1988, resa il 17.11.2000 con DM n. 122 non era stata presentata all’Autorità entro il perentorio termine del 30.3.2000, ma soltanto il 23.1.2001.

La decisione del Consiglio di Stato n.5247/2003 aveva orientato la condotta dell’appellata Amministrazione che ad essa si era conformata integralmente: la circostanza che l’autorizzazione fosse stata (soltanto) chiesta entro il 31.3.2000 ma non ottenuta a tale data, non era apprezzabile dall’Autorità.

La novella di cui all’art. 34 della legge n. 273/2002 non poteva incidere (in senso dilatorio del termine di presentazione dei provvedimenti autorizzatori) sul procedimento in oggetto, secondo la nota regola del tempus regit actum.



DIRITTO


L’appello deve essere respinto, nei termini di cui alla motivazione che segue..

Non v’è contestazione alcuna in ordine agli aspetti fattuali e cronologici sottesi alla causa, né in ordine alle disposizioni applicabili al caso di specie, il che esonera il Collegio dall’ esaminare tali aspetti.

La prima doglianza che è necessario esaminare attiene all’asserita assenza di supporto motivazionale della delibera reiettiva.

Essa è infondata.

La essenza della statuizione amministrativa censurata riposa nella interpretazione ed applicazione di disposizioni di legge a contenuto precettivo immediatamente vincolante.

Parte appellante ha contestato la legittimità ed esattezza di tale interpretazione;
ma ciò appunto, costituisce l’essenza, il “proprium” dell’accertamento giudiziale e non integra certo vizio motivazionale dell’atto.

Dal tenore del provvedimento impugnato l’appellante era perfettamente in grado di ricavare gli elementi essenziali del convincimento dell’Amministrazione (circostanza, quest’ultima, effettivamente avvenuta): non ricorrono certamente, nel caso di specie, quei parametri (“il difetto di motivazione dell'atto amministrativo impedisce di comprendere in base a quali dati specifici sia stata operata la scelta della pubblica amministrazione, nonché di verificarne il percorso logico seguito nell'applicare i criteri generali nel caso concreto, così contestando di fatto una determinazione assolutamente discrezionale e non controllabile e violando non solo l'obbligo di motivare i provvedimenti amministrativi, indicando, ai sensi dell'art. 3 l. 7 agosto 1990 n. 241, i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che li hanno determinati in relazione alle risultanze dell'istruttoria, ma anche i principi di imparzialità e buon andamento, di cui all'art. 97 cost. “-Consiglio Stato , sez. IV, 04 settembre 1996, n. 1009-) enucleati dalla giurisprudenza perché possa essere ritenuto sussistente sì grave vizio dell’azione amministrativa.

In ordine alla ulteriore problematica sollevata da parte appellante concernente la questione relativa alla asserita superfluità dell’autorizzazione rilasciata ai sensi dell’art. 17 del d.p.r. 203/88 (riguardando tale autorizzazione solo l’esercizio e non la costruzione dell’impianto di che trattasi) il Collegio ritiene vi sia ben poco da aggiungere alle articolate argomentazioni rese dal Tar.

In particolare parte appellante (si veda in particolare pag. 14 del gravame) muove dall’esatto presupposto di cui al dato normativo rappresentato dall’art. 9 della legge n. 10/1977 in relazione all’art. 26 della legge n. 10/1991, per poi immotivatamente svalutare il richiamo alla normativa “ambientale” contenuto proprio nella citata disposizione, finendo con il pervenire ad una non condivisibile nozione riduttiva del bene-ambiente (si veda in contrario Consiglio di Stato , sez. VI, 26 agosto 2003, n. 4841) e, al contempo, ad una interpretatio abrogans dell’art. 15 comma II del d.lvo n. 79/1999 che, interpretato nel senso preteso da parte appellante finirebbe – avuto riguardo alla portata ampia della lettera della citata disposizione- con il costituire fonte di incertezze interpretative insormontabili.

Né, al contempo, potrebbe dirsi condivisibile, sotto il profilo squisitamente logico, una normativa complessiva che scindesse – ai fini del mantenimento delle incentivazioni- la procedura afferente alla edificazione degli impianti rispetto a quella relativa alla messa in esercizio dei medesimi (si rammenta che la disposizione in ultimo citata fa espresso riferimento alla “messa in esercizio degli impianti”).

Parte appellante poi, con la prospettazione (evidentemente subordinata) articolata a pag. 17 del ricorso in appello contraddice le premesse del proprio iter argomentativo, allorchè, da un canto, ritiene superflua l’autorizzazione per la seconda linea produttiva ipotizzando un giudizio discrezionale dell’amministrazione in ordine alla “serietà dei programmi di realizzazione dell’impianto ” a cagione della circostanza della presentazione dell’autorizzazione della prima linea che non sussiste nel sistema, anche alla luce di quel che verrà più diffusamente chiarito di seguito (l’Autorità può soltanto prendere atto delle autorizzazioni già rilasciate, essendole inibiti giudizi prognostico/ipotetici).

Sotto altro profilo, ritenendo condizione sufficiente la già avvenuta presentazione della richiesta (circostanza per il vero incontestata) antecedentemente al termine del 31.3.2000 introduce una censura intimamente connessa a quella relativa alla interpretazione dell’art. 15 co. II del D.lvo n. 79/1999, parimenti infondata, come immediatamente ci si accinge a dimostrare.

Con riferimento alla seconda doglianza prospettata, infatti, appare necessario farne precedere l’esame da un richiamo delle norme di legge in ordine alle quali l’appellante sostiene esservi stato malgoverno da parte dell’appellata Amministrazione.

Invero l’originario testo del comma II dell’art. 15 del d.lvo n. 79/1999 così statuiva: “Al fine di definire un quadro temporale certo delle realizzazioni, è fatto obbligo ai soggetti beneficiari delle suddette incentivazioni di presentare all'Autorità per l'energia elettrica e il gas, entro un anno dalla data di entrata in vigore del presente decreto, le autorizzazioni necessarie alla costruzione degli impianti non ancora in esercizio. Il mancato adempimento a tale obbligo comporta la decadenza da ogni diritto alle incentivazioni medesime.”.

Il termine fissato ex lege, pertanto, era quello del 31.3.2000.

Detta disposizione è stata successivamente modificata dall’art. 34 della legge n. 273/2002 nei termini che seguono: “al fine di definire un quadro temporale certo delle realizzazioni, è fatto obbligo ai soggetti beneficiari delle suddette incentivazioni di presentare all'Autorità per l'energia elettrica e il gas, per gli impianti non ancora entrati in esercizio entro un anno dalla data di entrata in vigore del presente decreto, le autorizzazioni necessarie alla costruzione degli impianti medesimi, rilasciate entro la data suddetta. Fermo restando il termine ultimo di cui al primo periodo per l'ottenimento delle autorizzazioni, il mancato adempimento a tale obbligo entro il 31 dicembre 2002 comporta la decadenza da ogni diritto alle incentivazioni medesime.“.

Le problematiche da affrontare sono pertanto due e attengono rispettivamente alla portata applicativa della citata disposizione nel suo testo originario (postulante la conseguente risposta al quesito relativo alla possibilità per l’Autorità di tenere conto di domande proposte prima della scadenza del termine originariamente fissato e non pervenute nel termine di legge), ed alla incidenza della “novella” ex art. art. 34 della legge n. 273/2002.

Limitando per comodità espositiva, in prima battuta, l’esame alla prima questione, ed avuto riguardo al testo originario della citata disposizione, non appaiono convincenti le deduzioni di parte appellante volte a censurare il convincimento del Tar circa la sussistenza di un mutamento giurisprudenziale sul punto.

In contrario deve affermarsi che con la sentenza n. 5247/2003 del Consiglio di Stato, pienamente condivisa dal Collegio, si è ritenuto che “l’Autorità non avesse alcuna discrezionalità in sede di definizione di domande cui non fosse stata allegata la documentazione attestante, non già l’avvio dei procedimenti preordinati al rilascio delle autorizzazioni necessarie alla costruzione degli impianti non ancora in esercizio”, ma l’intervenuta adozione dei provvedimenti abilitativi….” e che “Eventuali ritardi delle Amministrazioni competenti nel rilascio delle richieste autorizzazioni, se certo possono essere in astratto invocati quali concause fondanti l’esercizio di eventuali azioni di responsabilità, non consentono, ad avviso del Collegio, di invocare l’operatività di una previsione legislativa dal tenore letterale chiaro e non equivoco, quale appare quella del citato art. 15, co. 2, d. lgs. n. 79/99, nella sua primitiva versione.”

La decisione suindicata – pienamente condivisa dal Collegio, lo si ripete, nel suo iter motivazionale aderente al dato normativo - si attaglia perfettamente al caso in esame, e non è smentita dalla successiva ricostruzione di cui alla (del pari invocata dall’appellante) decisione n. 939/2004, che invece prende in esame il connesso problema della rilevanza intertemporale della “novella” di cui all’art. 34 della legge n. 273/2002, sulla quale pure immediatamente ci si soffermerà.

Quanto alla prima questione, quindi, ritiene il Collegio che il termine “presentare… le autorizzazioni” contenuto nella legge dovesse essere inteso nel senso di escludere che l’Autorità potesse tenere conto di domande proposte prima della scadenza del termine originariamente fissato e non pervenute nel termine di legge (unica interpretazione, questa, compatibile con il dato letterale della norma citata).

Così risolto - negativamente per la prospettazione di parte appellante- il primo caposaldo dell’articolata impugnazione da essa prospettata, può procedersi all’esame della connessa questione di diritto intertemporale concernente la rilevanza della “novella” di cui all’art. 34 della legge n. 273/2002, (non prima tuttavia, di avere rappresentato che, se fosse stata condivisibile la tesi di parte appellante relativa alla portata dell’originario disposto di cui all’art. 15 co. II del d.lvo n. 79/1999, non si vede perché il legislatore avrebbe dovuto modificare la disposizione “madre”).

La citata decisione n. 5247/2003 – sulla cui linea si è attestato il Tar con la impugnata decisione- ha affrontato anche tale questione, pervenendo alla affermazione per cui “per effetto della modifica introdotta dall’art. 34, l. n. 273/2002, l’art. 15, co. 2, d.lgs. n. 79/99, se da un lato non sposta il termine di presentazione delle autorizzazioni necessarie alla costruzione degli impianti non ancora in esercizio (che resta fissato al 31 marzo 2000), dall’altro, sanziona con la decadenza da ogni diritto alle incentivazioni medesime il “mancato adempimento a tale obbligo entro il 31 dicembre 2002”.

Si tratta di novità legislativa cui l’Autorità ha già dato corretta applicazione con delibera n. 19/03, ma che non incide sulla legittimità formale dell’operato assunto dalla stessa Autorità con la contestata delibera n. 151/01, vigente un diverso, ed ora superato, quadro normativo. ”

E’ ben vero che la decisione n. 939/2004 perviene ad una affermazione di improcedibilità dalla quale parte appellante preconizza conseguenze in parte divergenti rispetto a quella in ultimo citata (in ciò potendosi condividere la deduzione di parte appellante).

Il Collegio, purtuttavia, ritiene che la tesi per prima enunciata, meglio coniughi esigenze di certezza giuridica e rispetto dei poteri ex lege affidata all’Autorità, per più ordine di ragioni, che di seguito sinteticamente si esporrano.

In primo luogo e, per incidens, vi sarebbe da dubitare della stessa proponibilità della doglianza, posto che la medesima appare inserirsi causalmente e finalisticamente nella proposta domanda risarcitoria (si rammenta che gli atti impugnati risalgono al 2001, ed il procedimento amministrativo a tale data poteva considerarsi esaurito ben prima della entrata in vigore della “novella” predetta).

Se anche si ritenesse (il che si nega) che lo jus superveniens fosse stato applicabile al già esaurito procedimento in esame, ugualmente la pretesa risarcitoria sarebbe rimasta insoddisfatta posto che l’Autorità aveva agito correttamente in base al dato normativo vigente al momento dell’adozione degli atti.

In secondo luogo, è certamente esatta la deduzione contenuta nella citata decisione n. 5247/2003 secondo cui il principio tempus regit actum, salve ipotesi eccezionali, governa il procedimento amministrativo, e la valutazione giudiziale di legittimità del medesimo;
infine, aderendo alla tesi di parte appellante in ordine alla portata della “novella” di cui dall’art. 34, l. n. 273/2002 si finirebbe per invadere in via giudiziale una sfera di competenza affidata legislativamente all’Autorità.

I primi giudici esattamente a tali principi hanno fatto riferimento facendo buongoverno del principio secondo il quale “la legittimità di un provvedimento amministrativo deve essere apprezzata con riferimento allo stato di fatto e di diritto esistente al momento della sua emanazione, secondo il principio del "tempus regit actum", con conseguente irrilevanza di provvedimenti successivi che non possono in alcun caso legittimare "ex post" precedenti atti amministrativi.” (si veda Consiglio Stato , sez. IV, 15 settembre 2006, n. 5381, ma anche Consiglio Stato , sez. IV, 18 dicembre 2006, n. 7618).

Il complessivo percorso argomentativo dei primi giudici resiste alle censure articolate nell’appello: appare, pertanto, esatta e meritevole di conferma la appellata decisione, e non meritevole di accoglimento l’appello proposto, dovendosi conseguentemente dichiarare la inaccoglibilità del petitum risarcitorio conseguenziale.

Sussistono nondimeno le condizioni di legge per compensare le spese processuali sostenute dalle parti a cagione della complessità in fatto delle questioni devolute all’esame del Collegio.

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