Consiglio di Stato, sez. V, sentenza 2017-10-25, n. 201704914

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Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. V, sentenza 2017-10-25, n. 201704914
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 201704914
Data del deposito : 25 ottobre 2017
Fonte ufficiale :

Testo completo

Pubblicato il 25/10/2017

N. 04914/2017REG.PROV.COLL.

N. 03428/2016 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Quinta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso in appello iscritto al numero di registro generale 3428 del 2016, proposto dal dottor U P, rappresentato e difeso dall'avvocato F S, con domicilio eletto presso il suo studio in Roma, Lungotevere delle Navi, n. 30;

contro

Ministero della Giustizia e Consiglio Superiore della Magistratura, in persona dei legali rappresentanti pro tempore , rappresentati e difesi dall'Avvocatura generale dello Stato, presso i cui uffici sono domiciliati in Roma, via dei Portoghesi, n. 12;

per la riforma della sentenza del T.A.R. del Lazio, Sezione I, n. 13567/2015;


Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio del Ministero della Giustizia e del Consiglio Superiore della Magistratura;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 5 ottobre 2017 il Cons. Claudio Contessa e uditi per le parti l’avvocato F S e l’avvocato dello Stato Marco Stigliano Messuti;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue


FATTO

Con nota del 29 settembre 2009 l’odierno appellante, il dott. P, magistrato che all’epoca prestava servizio presso la Corte di Appello dell’Aquila, avendo superato i quarant’anni di servizio, chiedeva di essere collocato a riposo a decorrere dal 24 novembre 2009.

Con delibera del 16 dicembre 2009, il Consiglio Superiore della Magistratura (d’ora innanzi C.S.M.) accoglieva l’istanza.

Prima che il procedimento si concludesse con il decreto ministeriale di accettazione delle dimissioni, il 22 dicembre 2009 il dott. P, tornato sulla propria decisione, chiedeva la revoca della precedente richiesta.

Il C.S.M. tuttavia non provvedeva in ordine a quest’ultima istanza e il 29 luglio 2010, inviava al dott. P una comunicazione (prot. n. 18394/201 n. Prato 167/CE/2009), con cui lo informava di aver dichiarato l’avvenuta decadenza dall’impiego ai sensi dell’articolo 127, lettera c), del d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3 (‘ Testo unico delle disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati civili dello Stato ’).

Con decreto n. 64415 del 12-19 ottobre 2010, il Ministero della Giustizia sanciva quindi “ la decadenza dall’impiego del dott. U P per essere rimasto assente dall’ufficio ingiustificatamente per un periodo superiore a quindici giorni, a decorrere dal 12.11.2009 ”.

Il dott. P impugnava detto decreto, e ogni atto ad esso connesso, innanzi al T.A.R. del Lazio (ricorso n. 1437/2011) e ne chiedeva l’annullamento per i seguenti motivi:

- Violazione e falsa applicazione dell'art 127, lett. c), del T.U. n. 3/1957;
degli artt. 10, n. 1 e 17 della legge n. 195/1958 e degli artt. 2 e 3 della legge n. 13 /1991;

- Illogicità, contraddittorietà, erroneità nei presupposti, erroneità nella motivazione, manifesta ingiustizia del d.m. di cui alla delibera del CSM del 29.7.2010 .

Chiedeva inoltre la declaratoria del proprio diritto e/o interesse legittimo ad essere riammesso al servizio.

Con la sentenza in epigrafe il T.A.R. del Lazio ha respinto il ricorso dichiarandolo infondato.

Il dott. P ha quindi ha proposto appello, chiedendo la riforma della pronuncia in questione e l’annullamento degli atti impugnati in primo grado per “ violazione e falsa applicazione dell’art. 127 lett. c del D.P.R. 10 gennaio 1957 ”.

Si sono costituite in giudizio le Amministrazioni appellate, insistendo per la reiezione del ricorso.

Alla pubblica udienza del 5 ottobre 2017 la causa è stata trattenuta in decisione.

DIRITTO

1. Giunge in decisione l’appello proposto dal dott. U P (già magistrato ordinario) avverso la sentenza del T.A.R. del Lazio segnata in epigrafe, con cui è stato respinto il ricorso avverso il decreto in data 12-19 ottobre 2010 con il quale è stata disposta la sua decadenza dall’impiego ai sensi dell’art. 127 del d.P.R. 3 del 1957.

2. Deve in primo luogo essere esaminato il motivo con cui il C.S.M. e il Ministero della Giustizia hanno eccepito l’inammissibilità dell’appello per avere il dott. P mancato di indicare le ragioni per cui il primo giudice sarebbe incorso in un error in iudicando, limitandosi – nei fatti – alla mera riproposizione dei motivi già articolati in primo grado.

2.1. Al riguardo si osserva che l’articolazione dell’appello non coincide affatto con quella del ricorso di primo grado e che, pur incentrandosi entrambi i ricorsi sul dato (effettivamente centrale ai fini del decidere) relativo alla corretta interpretazione e applicazione dell’art. 127 del d.P.R. 3 del 1957, il ricorso in appello affronta la tematica da angoli visuali oggettivamente diversi.

In particolare, il ricorso in appello si sofferma con pluralità di argomenti sul dato (relativo alla sussistenza o meno dell’univoca volontà del dipendente di sottrarsi ai doveri d’ufficio) su cui si è incentrata la decisione di primo grado, in tal modo rendendo evidente l’impostazione dell’apparato ricorsuale e la contestazione delle argomentazioni rese dal primo giudice.

2.2. L’eccezione non può quindi trovare accoglimento.

3. Nel merito l’appello è fondato.

3.1. Come emerge dalla narrativa, il dott. P aveva chiesto in data 29 settembre 2009 di essere collocato in quiescenza a far data dal 24 novembre dello stesso anno.

Aveva poi partecipato alla propria ultima udienza in data 12 novembre 2009, restando conseguentemente – e comprensibilmente – escluso dalla formazione dei collegi relativi al successivo mese di dicembre.

Il 16 dicembre 2009 il C.S.M. aveva deliberato il suo collocamento a riposo ma, in assenza del decreto ministeriale che statuiva il pensionamento, l’appellante aveva manifestato il successivo 22 dicembre la propria volontà di revocare l’istanza di collocamento in quiescenza.

Nei mesi successivi l’appellante aveva più volte sollecitato la definizione dell’istanza volta alla revoca della precedente istanza di pensionamento ma, nonostante ciò, il C.S.M. aveva in seguito deliberato la sua decadenza dal servizio per l’ingiustificata assenza dal servizio (quanto meno) nel periodo compreso fra il 12 novembre 2009 (data in cui l’appellante aveva partecipato all’ultima udienza) e il successivo 22 dicembre (data in cui l’appellante aveva manifestato la propria volontà di revocare la precedente istanza).

3.2. Ebbene, nelle richiamate circostanze di fatto, emergono i lamentati profili di violazione di legge e difetto di istruttoria che hanno caratterizzato l’operato dell’amministrazione.

Non si tratta qui di porre in discussione il carattere sostanzialmente vincolato del provvedimento di collocamento in quiescenza una volta che risulti accertato in concreto il presupposto dell’ingiustificata assenza dal servizio per il periodo di cui è menzione all’art. 127, comma 1, lettera c) del T.U.I.C.S.

Ma il punto è che (sulla scorta di un consolidato e qui condiviso orientamento) il mero decorso del termine di legge determina l’automatica estinzione del rapporto d’impiego soltanto laddove esso risulti espressivo dell’inequivoca volontà del lavoratore di sottrarsi ai doveri d’ufficio e comunque risulti in radice incompatibile con la prosecuzione del rapporto (in tal senso: Cons. Stato, IV, 15 luglio 2013, n. 3859; id ., VI, 3 maggio 202, n. 3077).

Grava pertanto sull’amministrazione (anche nella consapevolezza delle gravissime conseguenze del provvedimento ex art. 127, cit. sulla sfera giuridica degli interessati) l’onere di verificare in concreto, e valutate tute le circostanze del caso, se l’assenza dal servizio sia espressiva della richiamata incompatibilità, in specie laddove dal comportamento del dipendente non possa desumersi con certezza l’intenzione di sottrarsi all’obbligo di prestare il servizio o possano sussistere dubbi circa l’effettiva volontà del dipendente di abbandonare il posto di lavoro (in tal senso: Cons. Stato, III, 27 ottobre 2014, n. 5311).

La giurisprudenza di questo Consiglio ha stabilito che, proprio al fine di accertare e valutare in modo adeguato il complesso delle circostanze nel cui ambito si è verificata l’assenza dal servizio del dipendente per un significativo lasso temporale, grava sull’amministrazione l’onere comunicare all’interessato l’avvio del procedimento di cui all’art. 127, cit.

Ciò in quanto il carattere costitutivo del provvedimento di decadenza rende operante una clausola risolutiva espressa del rapporto di impiego la quale si riconnette all’accertamento di due elementi coessenziali, ossia la circostanza oggettiva dell’assenza ingiustificata e il profilo soggettivo dell’imputabilità del comportamento, quanto meno a titolo di colpa (in tal senso: Cons. Stato, IV, sent. 3859 del 2013, cit.).

3.3. Ebbene, questo essendo il quadro fattuale e giuridico entro il quale inquadrare la vicenda per cui è causa, emergono gli effettivi profili di violazione di legge e difetto di istruttoria che hanno caratterizzato il contegno serbato dall’Amministrazione nel corso della complessiva vicenda.

Infatti le amministrazioni appellate (pur consapevoli del fatto che il procedimento di collocamento in quiescenza era ancora in corso al momento in cui il dott. P aveva revocato la relativa istanza), invece di definire il procedimento in questione, hanno percorso la diversa via della decadenza dal servizio, desumendone gli elementi giustificativi proprio da vicende occorse nella pendenza della (mai definita) istanza di collocamento in quiescenza su domanda dell’interessato.

Tuttavia, attraverso la richiamata mutatio libelli , le Amministrazioni appellanti hanno ravvisato la sussistenza di un’assenza dal servizio indicativa di una chiara volontà di non proseguire il rapporto proprio nel momento in cui il magistrato interessato aveva invece manifestato una volontà inequivoca di segno opposto ( i.e. : una volontà chiaramente volta alla prosecuzione del rapporto stesso).

E’ evidente che, nelle rappresentate circostanze, gravasse sull’amministrazione l’onere di far precedere l’adozione del provvedimento di decadenza da una comunicazione all’interessato volta a chiarire la propria posizione e una fattiva interlocuzione sulle circostanze rilevanti, nonché ad accertare la sussistenza o meno di una inequivoca volontà solutoria collegata alla – pregressa – assenza dal servizio.

3.4. Non avendo l’amministrazione operato in tal senso, essa ha realizzato una violazione di legge e un difetto di istruttoria idonei a determinare l’annullamento degli atti impugnati in primo grado.

4. La Sezione ritiene qui di svolgere alcune considerazioni conclusive circa i possibili esiti risarcitori della presente vicenda.

Ai sensi dell’articolo 34, comma 3 del cod. proc. amm., “ quando, nel corso del giudizio, l’annullamento del provvedimento impugnato non risulta più utile per il ricorrente, il giudice accerta l’illegittimità dell’atto se sussiste l’interesse ai fini risarcitori ”.

Potrebbe forse dubitarsi che in capo all’appellante (il quale si approssima al compimento del settantasettesimo anno di età) sussista un effettivo interesse alla rimozione degli atti impugnati in primo grado, atteso che in nessun caso lo stesso potrebbe conseguire la riammissione in servizio.

In tal caso potrebbe ritenersi che (ai sensi della richiamata disposizione codicistica) lo stesso possa vantare un interesse limitato al solo accertamento dell’illegittimità di tali atti al fine della coltivazione di una separata domanda risarcitoria.

Ma il punto è che non può ritenersi che l’interesse del dott. P resti limitato alla mera declaratoria di illegittimità degli atti con cui è stata disposta la sua decadenza dal servizio e non può allo stato ritenersi che lo stesso possa in futuro coltivare positivamente una domanda risarcitoria in relazione alla vicenda per cui è causa.

E’ infatti evidente che l’interesse perseguito dal dott. P nel corso dell’intera vicenda processuale non resti limitato all’impugnativa di atti che hanno impedito la prosecuzione del servizio da parte sua, ma si rivolga contro la permanenza nell’ordinamento di atti che ne hanno disposto la decadenza sulla base di un titolo idoneo ad inficiare, nella sua fase conclusiva, la continuità di una carriera certamente lodevole.

In definitiva l’interesse dell’appellato non può limitarsi – in una prospettiva meramente risarcitoria -

alla sola declaratoria di illegittimità dei richiamati atti, sussistendo invece un interesse effettivo e diretto alla loro rimozione.

Si osserva inoltre che, anche riguardando la questione sotto il versante risarcitorio, non emergono allo stato elementi i quali facciano propendere per il possibile esito favorevole di un’eventuale azione risarcitoria.

Si osserva in primo luogo al riguardo che l’appellato non ha allegato in atti alcun elemento che possa deporre nel senso della sussistenza degli elementi soggettivi e oggettivi forieri di un danno ingiusto foriero di obblighi risarcitori.

Si osserva in secondo luogo che il contegno certamente non del tutto lineare tenuto dallo stesso dott. P nella fase finale della propria carriera in relazione alla volontà o meno di essere collocato in quiescenza, se non ha contribuito in modo determinante all’adozione degli atti impugnati in primo grado, ha certamente concorso al realizzarsi di una vicenda non del tutto lineare nella sua genesi e nella sua evoluzione.

Si osserva in terzo luogo che il titolo della disposta decadenza dal servizio (assenza ingiustificata nelle settimane immediatamente precedenti il collocamento a riposo), se per un verso radica in capo all’interessato un indubbio interesse alla rimozione dall’ordinamento del relativo provvedimento, per altro verso non ha determinato a carico dell’interessato un effettivo danno in termini di immagine, collocandosi in un quadro del tutto conforme a quanto avviene spesso in casi analoghi (e in assenza di profili di disvalore a carico del dipendente).

4. Per le ragioni esposte il ricorso in appello deve essere accolto e conseguentemente, in riforma della sentenza appellata, deve essere disposto l’accoglimento del primo ricorso con conseguente annullamento degli atti in tale sede impugnati.

La peculiarità della controversia, così come delineata, giustifica l’integrale compensazione delle spese di lite fra le parti.

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