Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza 2017-09-01, n. 201704163

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Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza 2017-09-01, n. 201704163
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 201704163
Data del deposito : 1 settembre 2017
Fonte ufficiale :

Testo completo

Pubblicato il 01/09/2017

N. 04163/2017REG.PROV.COLL.

N. 10189/2014 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso NRG 10189/2014, proposto da I M, rappresentato e difeso dall'avv. A C, domiciliato ex art. 25 c.p.a. presso la segreteria di questa Sezione in Roma, p.za Capo di Ferro n. 13,

contro

l’Università degli studi di Genova, in persona del Rettore pro tempore , rappresentata e difesa per legge dall'Avvocatura generale dello Stato, domiciliata in Roma, via dei Portoghesi n. 12,

per la revocazione

della sentenza della Sezione n. 4227/2014, resa tra le parti e concernente la sospensione del sig. M dal servizio (ris. danni);

Visti il ricorso e i relativi allegati;

Visto l'atto di costituzione in giudizio dell’Università intimata;

Visti gli atti tutti della causa;

Relatore all'udienza pubblica del 27 giugno 2017 il Cons. Silvestro Maria Russo e udito altresì, per le parti, l’Avvocato dello Stato Urbani Neri;

Ritenuto in fatto e considerato in diritto quanto segue:


FATTO e DIRITTO

1. – Il dott. I M, ricercatore confermato a t.p. presso l’Università degli studi di Genova, a seguito di vari reati contestatigli dall’AGO fu sospeso dal servizio, dapprima in via obbligatoria (dal 12 dicembre 2003) e, quindi (2008), in via cautelare (stante sia la gravità in sé degli addebiti, sia la non attuabilità della prestazione di lavoro subordinato), mentre il procedimento disciplinare nei suoi riguardi fu subito avviato e sospeso fino alla definizione di quello penale.

Con sentenza del 7 giugno 2007, il Tribunale di Genova condannò il dott. M alla pena di sei anni di reclusione ed a € 500 di multa, con interdizione dai pubblici uffici. Tal condanna fu riformata in peius dalla sentenza n. 735 del 20 marzo 2009, con cui la Corte d’appello di Genova inflisse al dott. M otto anni e sei mesi di reclusione ed a € 430 di multa. La Corte suprema di cassazione, con sentenza n. 5402/2009, confermò in parte la sentenza n. 735/2009 (per falso ideologico in atto pubblico mediante induzione in errore di pubblico ufficiale, nonché per tentata estorsione), l'annullò senza rinvio per taluni reati ormai estinti per prescrizione e rinviò alla Corte d’appello la questione sul reato d’estorsione. Quest’ultima fu poi risolta a sfavore del dott. M con la sentenza n. 2142 del 2010, in base alla quale egli fu condannato a tre anni e sei mesi di reclusione.

2. – Il dispositivo di questa pervenne all’UNIGE il 28 luglio 2010, ma l’intera sentenza (poi cassata senza rinvio dalla Cassazione con la sentenza n. 671/2011) fu acquisita al protocollo riservato (prot. n. 25434) dell’Ateneo il 28 ottobre 2010.

Sicché, il 7 dicembre 2010, l’UNIGE riprese il procedimento disciplinare verso il dott. M, che era stato aperto il 6 ottobre 2008. Il Collegio di disciplina del CUN, già competente in materia in base all’art. 3 della l. 16 gennaio n. 18, comunicò allora al dott. M che la trattazione orale di tale procedimento si sarebbe tenuta il 26 gennaio 2011, data, questa, però coincidente col periodo in cui si sarebbero tenute le elezioni per il rinnovo del CUN stesso. Il Collegio di disciplina, con la nota n. 141 del 1° febbraio 2011, rese allora noto al dott. M il differimento di tal trattazione alla data del successivo 23 marzo.

Per vero, il Collegio di disciplina del CUN erroneamente sì dichiarò estinto a causa dell’entrata in vigore della riforma universitaria ex l. 30 dicembre 2010 n. 240 in data 29 gennaio 2011, tant’è che in un primo tempo restituì gli atti inerenti al dott. M all’UNIGE. Tuttavia, il Collegio stesso si ricostituì in attesa della formazione dei collegi di disciplina presso i singoli Atenei ai sensi dell’art. 10 della l. 240/2010 e, ripreso il procedimento de quo , il 21 settembre 2011 lo concluse e propose la sanzione della sospensione di un anno dal servizio e dallo stipendio verso il dott. M.

Con decreto n. 668 del giorno successivo, il Rettore dell’UNIGE irrogò a questi la sanzione statuita, riammettendolo nondimeno in servizio (poiché il periodo della di lui sospensione cautelare aveva superato la durata della sanzione stessa) e disponendo al contempo, ma con distinto provvedimento (n. 669 di pari data), la ricostruzione della di lui carriera.

3. – Il dott. M, nelle more di tal sanzione, era già insorto innanzi al TAR Liguria con il ricorso n. 1226/2008 (gravame introduttivo) contro gli atti di diniego della propria riammissione in servizio. Inoltre, egli aveva proposto un primo atto per motivi aggiunti (depositato il 26 novembre 2010) nei confronti della mancata sua riammissione, un secondo atto (del 30 gennaio 2011) inerente alla sua permanenza nella sospensione, un terzo atto del 27 maggio 2011 ed un quarto (del 3 settembre 2011) contro la sua sottoposizione alla ripresa del procedimento disciplinare. Con il quinto atto per motivi aggiunti, depositato il 19 ottobre 2011, il dott. M impugnò quindi la ricostruzione della carriera come disposta nel DR n. 669/2011 e la sua riammissione in servizio.

L’adito TAR, con sentenza n. 633 del 9 maggio 2012, in parte dichiarò improcedibili le questioni prospettate e le respinse per la restante parte, segnatamente laddove fu computato in modo corretto, da parte dell’Ateneo intimato, il dies a quo dell’attivazione del procedimento disciplinare (solo, cioè, dall’acquisizione completa della sentenza della CDA di Genova n. 2412/2010), fu ritenuta del pari corretta la sospensione ope legis ex art. 3, c. 3, II per. della l. 18/2006 (sull’attività del Collegio di disciplina del CUN) e fu considerata legittima l’azione dell’Ateneo durante tutte le fasi di detto procedimento.

Appellò quindi il dott. M, con il ricorso NRG 4837/2012, deducendo l’erroneità dell’impugnata sentenza per: 1) – non aver rettamente indicato, a causa della forma succintamente motivata di essa, per quali provvedimenti impugnati fosse intervenuta la declaratoria d’improcedibilità;
2) – aver indicato solo ellitticamente il dies a quo per l’attivazione del procedimento disciplinare alla data, non meglio specificata, d’acquisizione della sentenza n. 2412/2010;
3) – l’insussistenza di ragioni impeditive ex art. 3, c. 3 della l. 18/2006 in capo al Collegio di disciplina del CUN;
4) – non aver ben valutato la dedotta autonoma ipotesi estintiva di tal procedimento per violazione dell’art. 120, I c. del DPR 10 gennaio 1957 n. 3 (TUICS);
5) – non aver ben inteso le regole relative alla predetta ricostruzione, né l’omessa notifica degli atti che sospesero i termini e li fecero decorrere ex novo .

La Sezione, con sentenza n. 4223 dell’8 luglio 2014, ha respinto l’appello de quo per tutti i profili.

4. – Il dott. M propone quindi, col ricorso in epigrafe, la revocazione della testé citata sentenza e deduce la sussistenza dell’ errore di fatto revocatorio ex art. 395, I c., n. 4) c.p.c. per: A) – aver supposto la sentenza della CDA di Genova n. 2412/2010 (a differenza della sentenza n. 735/2009, in parte confermata dalla Cassazione), come condanna irrevocabile, invece che un proscioglimento, donde l’irrilevanza del riferimento ad altra o diversa data della condanna vera e propria, ossia il 21 luglio 2010 (e non il successivo giorno 28, erroneamente indicato come quella in cui fu assunta la sentenza stessa al protocollo riservato del predetto Ateneo);
B) – aver quindi calcolato malamente i giorni di esatta durata del procedimento disciplinare, il dies a quo di questo in realtà essendo il 21 luglio 2010 ( e non il 28 ottobre 2010), dal che il superamento del termine massimo di 270 giorni, anche a volervi computare la sospensione ex art. 3 della l. 18/2006;
C) – aver ritenuto sussistente tal sospensione legale, esclusa invece sia dalla convocazione dell’incolpato effettuata dal Collegio di disciplina del CUN per la seduta del 23 marzo 2011, dalla nota UNIGE prot. n. 6459 del precedente giorno 10 (con cui fu comunicata la ricusazione, da parte di tal Collegio, della propria competenza e non siffatta sospensione);
D) – aver dato per certe la sospensione del procedimento (ipotizzando la piena applicabilità dell’art. 10 della l. 240/2010) e la concomitante vigenza dello Statuto UNIGE.

Resiste in giudizio l’Università intimata, che conclude in modo articolato per l’inammissibilità dei motivi rescindenti e, comunque, per l’infondatezza d’ogni questione nuovamente dedotta.

Alla pubblica udienza del 27 giugno 2017, su conforme richiesta del patrono dell’Ateneo intimato, il ricorso in epigrafe è assunto in decisione dal Collegio.

5. – Il ricorso per revocazione è inammissibile e va disatteso, per le ragioni di cui appresso.

È assai nota la ferma giurisprudenza di questo Giudice, tale da esimere il Collegio da ogni citazione, per cui, in base all’art. 395, I c., n. 4), c.p.c. ed all’art. 106 c.p.a., la c.d. "revocazione per errore di fatto" ricorre quando tal errore: a) derivi da una pura e semplice errata od omessa percezione del contenuto soltanto materiale degli atti del giudizio, che ha indotto l'organo giudicante a decidere sulla base di un falso presupposto di fatto, facendo cioè ritenere un fatto per tabulas escluso oppure inesistente un fatto provato e viceversa;
b) attenga ad un punto non controverso della lite e sul quale la sentenza revocanda non ha espressamente motivato;
c) sia stato un elemento decisivo di questa, onde deve sussistere un rapporto di stretta causalità tra l'erronea presupposizione e detta pronuncia. È parimenti fermo l’avviso per cui tal errore deve apparire con immediatezza ed essere di semplice rilevabilità, senza necessità di un’argomentazione induttiva o di indagini ermeneutiche, poiché esso non può esser se non una svista o un abbaglio dei sensi, che in sé ha provocato l'errata percezione del contenuto del fatto o del documento ritualmente acquisiti agli atti di causa. Pertanto, l’errore de quo si ha solo se determini il contrasto tra due diverse proiezioni dello stesso oggetto, l'una che si legge nella sentenza e l'altra che risulta dagli atti e documenti di causa.

Da ciò l’impossibilità di confondere l’errore revocatorio sul fatto con tutto ciò che, corretto o meno che sia (al più s’avrà un errore di diritto, non deducibile col presente ricorso), coinvolge l'attività valutativa operata in concreto dal Giudice. Solo in questo modo è ammissibile il peculiare mezzo di gravame previsto dal legislatore per eliminare quell'ostacolo materiale che si frapponga tra la realtà del processo e la percezione che di essa ha avuto l’organo giudicante, proprio a causa della svista o abbaglio dei sensi.

Già alla luce di tali brevi premesse, che compendiano l’oggetto e la ratio della revocazione, nel caso in esame non costituisce deduzione per errore di fatto quella di cui al quarto motivo di gravame. In base ad essa, il dott. M lamenta che la Sezione ha supposto la sospensione di detto procedimento disciplinare ipotizzando l’applicazione dell’art. 10 della l. 240/2010 e la concomitante vigenza dello Statuto dell’UNIGE. Qualunque cosa voglia significare tal ultimo assunto e perché egli lo colleghi al primo, il ricorrente comunque lo riferisce al II cpv. del § 5) (pag. 13) della sentenza, dalla serena lettura del quale s’evince solo la ragione giuridica della non operatività immediata del citato art. 10 con riguardo alla necessità dell’adeguamento attuativo mediante detto Statuto. Sicché tanto il primo, quanto il secondo aspetto considerati dalla sentenza (ai §§ 4 e 5) e qui contestati come errori su fatti pacifici, ben lungi dall’esser poco chiari, in realtà decidono su un punto controverso della causa con una precisa (e, peraltro, esatta) qualificazione giuridica del regime transitorio applicabile a seguito dell’abrogazione dell’art. 3 della l. 18/2006.

Che NON si tratti, dunque, d’un errore revocatorio, ne sono prova, ove mai vi fossero dubbi (cfr. le pagg. 14/15 del ricorso in epigrafe), la deduzione sull’irretroattività, o meno, del ripetuto art. 10 e dello Statuto d’Ateneo e, soprattutto quella sull’uso di tali fonti a giustificazione postuma della sospensione del procedimento disciplinare, entrambe le quali non sono se non censure di falsa ed errata applicazione della legge al caso in esame e, quindi e sempre ammesso che lo sia, un errore di diritto (in realtà inesistente, sol che s’interpreti in buona fede la sentenza impugnata).

6. – Né basta, ché anche i tre restanti motivi sono inammissibili.

6.1. – Invero, in ordine al primo di essi, è tranciante l’errore di fatto, questo sì vero abbaglio dei sensi e non errore d’interpretazione, nel quale incorre il ricorrente nell’asserire la sentenza della CDA di Genova n. 2142/2010 come un proscioglimento e non una condanna. In un secondo tempo, tale sentenza, resa su rinvio per il solo capo d’imputazione M (estorsione) e con il vincolo della continuazione dopo che la Cassazione aveva confermato i capi E, F e J, fu a sua volta cassata senza rinvio. E tanto sebbene la stessa Suprema Corte avesse statuito al riguardo un nuovo giudizio su tal punto, nonché la rideterminazione della pena residua.

Già tutto questo inficia in radice il valore stesso della censura, nel senso che, con ogni evidenza, elide il denunciato errore revocatorio. Infatti, l’Ateneo intimato fornì l’esatta lettura ictu oculi evincibile dalla sentenza n. 2142/2010 come statuizione di condanna e riavviò di conseguenza il procedimento disciplinare.

Parimenti corretto e non irretito da errori fu il calcolo del dies a quo di quest’ultimo solo a far data della ricezione di detta sentenza (28 ottobre 2010) in forma integrale (su tal aspetto, cfr. per tutti Cons. St., IV, 9 ottobre 2009 n. 6224;
id., 27 novembre 2010 n. 8278;
id., III, 17 maggio 2012 n. 2878;
id., IV, 19 agosto 2016 n. 3652), essendo all’uopo ben noto che la P.A. deve aver esatta cognizione dei fatti accertati in sede penale, onde contestarli al dipendente e valutarli in sede disciplinare, senza con ciò incorrere in decadenze.

6.2. – Sicché, con ciò confutando anche il secondo mezzo di gravame, non vi fu errore materiale nel computo del termine massimo di 270 gg. per la conclusione del procedimento disciplinare a carico del ricorrente.

Né tampoco si ravvisa erroneo in fatto il riferimento della stessa UNIGE, quale dies a quo per il procedimento disciplinare (e ben rilevante, stante la natura condannatoria della citata sentenza n. 2142/2010) alla data del 28 ottobre 2010, anziché a quella del precedente 21 luglio, cose, queste, su cui la sentenza impugnata s’è ben soffermata.

A ben vedere, pure qui il ricorrente dissimula un vero e proprio motivo di diritto attraverso una censura di errore materiale. Egli non s’avvede che la doglianza ha riguardato un punto non pacifico, ma assai controverso tra le parti, propugnando una diversa (quantunque erronea) interpretazione giuridica della fattispecie. In altre parole, il ricorrente censura il significato della (e con esso, la data in cui si forma la) piena conoscenza della P.A. sull’irrevocabilità della condanna come affermato dalla Sezione e ne propugna una diversa che, a tutto concedere, non è però condivisibile alla luce dei prevalenti arresti di questo Consiglio.

6.3. – Anche il terzo motivo in realtà è una censura di diritto e non su un’erronea percezione di vicende di fatto.

In sostanza, il ricorrente si duole che, ferma la soggezione del suo procedimento disciplinare all’art. 3 della l. 18/2006 (come d’altronde fu), il Collegio di disciplina del CUN avrebbe dovuto mantenere la propria competenza in soggetta materia, in base al principio di continuità dell’organo fino alla sua sostituzione con quelli previsti dall’art. 10 della l. 240/2010. Ma ciò non tien conto né del fatto che il CUN a quel tempo era sottoposto al rinnovo elettorale, né che detto Collegio ritenne la propria estinzione automatica per effetto dell’entrata in vigore della riforma universitaria. È evidente che il Collegio stesso, dapprima ope legis e, quindi, per motivi di non irragionevole incertezza sulla successione nel tempo delle due leggi citate e su qual regime fosse prevalente, subì la sospensione di tutte le sue attività anche a cagione del decentramento delle funzioni disciplinari presso i singoli Atenei.

Si può discettare se sia stata corretta tal interpretazione e se il dubbio sulla prorogatio del Collegio del CUN avesse un qualche serio fondamento. Ma, a favore della tesi dell’interruzione, soccorre in primo luogo il tenore non perspicuo del citato art. 10, laddove rinviò alle modalità degli Statuti l’attivazione dei singoli Collegi d’Ateneo (sebbene solo per la loro composizione) in presenza, però, di regole già ben dettagliate direttamente dalla fonte primaria. Inoltre, la questione sulle ragioni di tal sospensione ha formato oggetto di delibazione e di valutazione da parte di questo Giudice in entrambi i gradi di giudizio. In questa sede, per vero, è nuovamente ribadita non per l’effettiva e concreta esistenza di errori materiali, ma solo per far constare qual dovesse essere l’interpretazione più corretta del diritto intertemporale.

È solo da soggiungere che non assurgono ad errori di fatto né la convocazione del dott. M per la seduta collegiale del 23 marzo 2011 (poi differita), né la comunicazione dell’UNIGE del precedente giorno 10 sulla ricusazione delle proprie attribuzioni da parte del Collegio stesso. Il primo atto, per vero, non manifestò alcuna contraddizione con la volontà di detto Organo di non continuare il suo funzionamento dopo l’entrata in vigore della l. 240/2010, avendo disposto (il 1° febbraio 2011) solo il mero rinvio d’una seduta che si sarebbe dovuta tenere sì il precedente 26 gennaio, ma in un tempo in cui v’erano le elezioni per il rinnovo del CUN. Il secondo atto non fu che la naturale conseguenza della restituzione, avvenuta il 22 febbraio 2011 da parte del predetto Collegio all’UNIGE (cioè, in un momento in cui ancora non era stata tenuta la seduta per la trattazione orale di tal procedimento), degli atti di quest’ultimo proprio per la volontà del Collegio stesso di non proseguire altrimenti. In tal caso, ben lo si vede, la sentenza impugnata non ha supposto alcunché di falso o erroneo, ma s’è limitata a dar atto della scansione di tali eventi e a dar loro una data qualificazione giuridica che, quantunque sia sgradita al ricorrente, non si sostanzia in un errore di fatto.

7. – In definitiva, il ricorso in epigrafe è inammissibile, senz’uopo d’ulteriore disamina sul merito rescissorio. Tutte le questioni fin qui viste esauriscono la vicenda sottoposta all’esame del Collegio, essendo stati toccati tutti gli aspetti rilevanti a norma dell'art. 112 c.p.c. e che gli argomenti di doglianza non esaminati espressamente sono stati ritenuti dal Collegio non rilevanti ai fini della decisione e, comunque, inidonei a fondare una conclusione di segno diverso.

Le spese del presente giudizio seguono, come di regola, la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo.

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