Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza 2013-08-06, n. 201304113

Sintesi tramite sistema IA Doctrine

L'intelligenza artificiale può commettere errori. Verifica sempre i contenuti generati.Beta

Segnala un errore nella sintesi

Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza 2013-08-06, n. 201304113
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 201304113
Data del deposito : 6 agosto 2013
Fonte ufficiale :

Testo completo

N. 08724/2011 REG.RIC.

N. 04113/2013REG.PROV.COLL.

N. 08724/2011 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 8724 del 2011, proposto da
I A e P S, rappresentati e difesi dagli avvocati M C, G I e F I, con domicilio eletto presso il secondo in Roma, viale Bruno Buozzi 82;

contro

Banca d'Italia, in persona del legale rappresentante in carica, rappresentata e difesa dagli avvocati G A e F S, con domicilio eletto presso l’Ufficio Legale della Banca D'Italia in Roma, via Nazionale, 91;
Direttorio della Banca d'Italia;

per la riforma della sentenza del T.A.R. LAZIO – ROMA, SEZIONE III, n. 05696/2011, resa tra le parti, concernente IRROGAZIONE DELLE SANZIONI PECUNIARIE DI CUI ALL'ART.145 DEL D.

LGVO N.

385/1993


Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visto l'atto di costituzione in giudizio della Banca D'Italia;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 30 aprile 2013 il Cons. Gabriella De Michele e uditi per le parti gli avvocati Graziani per delega dell’avv. Costa e Sforza.;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue:


FATTO e DIRITTO

Con sentenza del Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, Roma, sez. III, n. 5696/11 del 27 giugno 2011 (che non risulta notificata) è stato respinto il ricorso proposto dai signori Antonio Iannotta – direttore generale della Banca di Credito Cooperativo di San Vincenzo La Costa – Vittorio Intorno e Stefano Pardino – componenti del Consiglio di Amministrazione della medesima Banca – avverso il provvedimento della Banca d’Italia in data 12 agosto 2010, concernente applicazione delle sanzioni amministrative, di cui all’art. 145 del d.lgs. 1 settembre 1993, n. 385 ( Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia ).

Quanto sopra, a seguito di accertamenti ispettivi, da cui sarebbero emerse numerose irregolarità puntualmente elencate, riferite sostanzialmente alle modalità di erogazione del credito, ai controlli relativi ed alle non tempestive segnalazioni all’organo di vigilanza.

Nella citata sentenza – rilevato il carattere non invalidante di alcune irregolarità formali , inerenti numero e data di protocollo, e valutato il carattere non perentorio del termine di duecentoquaranta giorni, per i procedimenti amministrativi di vigilanza in materia bancaria e finanziaria – si respingevano tutte le numerose censure prospettate, nei termini di seguito sintetizzati:

- possibilità del Governatore o di uno dei membri del Direttorio di adottare in via di urgenza i provvedimenti di competenza del Direttorio in composizione collegiale;

- adozione di provvedimento di urgenza, nel caso di specie, al fine di rispettare il termine previsto per l’adozione del provvedimento, in ogni caso con successiva ratifica del Direttorio;

- mero carattere integrativo dell’efficacia della notifica del provvedimento sanzionatorio;

- necessità di contraddittorio esclusivamente nella fase istruttoria e non anche in quella decisionale conclusiva innanzi al Direttorio, a pena di inutile aggravio del procedimento;

- pacifica ammissibilità di motivazione per relationem;

- inadeguatezza delle controdeduzioni, riferite al rilevato quadro di sofferenze dell’Istituto di credito in questione;

- assenza di esaustive argomentazioni difensive, in rapporto alle numerose irregolarità segnalate.

Avverso la predetta sentenza è stato proposto da due degli originari ricorrenti l’atto di appello in esame (n. 8724/11, notificato il 29 ottobre 2011), sulla base di censure reiterative di quelle proposte in primo grado, in un’ottica di erronea valutazione delle stesse da parte del giudice di primo grado.

Ancora una volta, infatti, si ribadiva l’inesistenza, o, comunque l’invalidità di un atto non protocollato e nemmeno inserito nel sistema di gestione informatica della Banca d’Italia, in violazione di quanto disposto dall’art. 55 del d.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445 con ulteriore impossibilità di conoscere l’effettiva data di conclusione del procedimento, di modo che nemmeno la ratifica del Direttorio avrebbe potuto sanare la procedura, ad ogni modo conclusasi dopo la scadenza del termine di duecentoquaranta giorni. Detto termine, previsto dal regolamento della Banca d’Italia, dovrebbe inoltre ritenersi perentorio e non ordinatorio, come statuito nella sentenza appellata, per le esigenze di garanzia connesse ad ogni esercizio di “potere autoritativo e punitivo della p.a.” . La denegata valenza perentoria del termine stesso, d’altra parte, renderebbe illogico l’esercizio in via surrogatoria dei poteri esercitati dalla dott.ssa T, per ragioni di urgenza ricondotte all’esigenza di rispettare il termine stesso. Il rispetto del termine in questione, inoltre, avrebbe dovuto comprendere anche gli atti di comunicazione del provvedimento adottato. La ratifica, inoltre, avrebbe potuto sanare il vizio di incompetenza per insussistenza delle asserite ragioni di urgenza, ma non anche gli altri vizi segnalati, che avrebbero richiesto specifica individuazione e motivata convalida. La regolarità del procedimento sanzionatorio, peraltro, avrebbe imposto la partecipazione al procedimento dei soggetti interessati non solo nella fase istruttoria, ma anche in quella successiva, innanzi all’organo decidente, dovendo la normativa interna della Banca d’Italia al riguardo (atto n. 473799 del 27 aprile 2006) essere coordinata con il disposto dell’art. 24, comma 2, della legge 28 dicembre 2005, n. 262 ( Disposizioni per la tutela del risparmio e la disciplina dei mercati finanziari ).

Quanto alle sanzioni in concreto irrogate, si ribadiva l’inapplicabilità del relativo cumulo, in presenza di una pluralità di violazioni contestate e di condotte, pertanto, distinte.

Con riferimento alle contestazioni mosse al Direttore Generale, per sconfinamento dai poteri delegati per la linea di credito, in particolare, la prova di tale sconfinamento sarebbe stata erroneamente individuata nel generico riferimento, operato dal medesimo Direttore Generale, al continuo scambio di informazioni, intrattenuto dallo stesso con il Consiglio di Amministrazione.

I verbali del Risk Controller – ufficio interno della B.C.C. – sarebbero stati comunque sempre trasmessi al Consiglio di Amministrazione, né risulterebbero individuati casi, in cui interventi correttivi suggeriti non fossero stati attuati, per scelta imputabile esclusivamente al Direttore. Fermamente contestata, inoltre, è stata l’accusa mossa al medesimo Direttore di avere tenuto in sospeso assegni privi di copertura, oltre la scadenza dei termini per il relativo protesto, mentre per tali assegni avrebbe dovuto tenersi conto di una pluralità di circostanze, quali la considerazione di bonifici in arrivo, l’affidabilità del traente e così via. Per tali operazioni, poi, non sarebbe mai derivato alcun pregiudizio alla B.C.C. di San Vincenzo La Costa. Nessuna sofferenza patrimoniale, peraltro, sarebbe stata riscontrabile per la Banca di cui trattasi, di modo che le presunte sofferenze accertate dagli ispettori sarebbero state assorbite, mentre ogni singola operazione autorizzata dal Direttore avrebbe avuto, comunque, adeguata copertura, anche fideiussoria o ipotecaria.

Veniva prospettato, infine, un motivo aggiunto di gravame, con riferimento alle denuncia presentata nei confronti della Banca d’Italia per abuso di potere, con riferimento agli atti pretestuosi che avevano portato alla liquidazione coatta amministrativa della B.C.C. di San Vincenzo la Costa e la consequenziale cessione della stessa ad altro Istituto bancario (Banca Sviluppo s.p.a.). Il procedimento penale, al riguardo avviato, si sarebbe trovato – all’atto della proposizione dell’impugnativa – nella fase di opposizione alla richiesta di archiviazione.

Si è costituita nel presente giudizio la Banca d’Italia, fornendo ampie controdeduzioni a tutte le tesi difensive dell’appellante, in precedenza sintetizzate, nonché proponendo appello incidentale per la condanna alle spese non intervenuta in primo grado.

Premesso quanto sopra, il Collegio ritiene, in primo luogo, di non doversi discostare dall’indirizzo recentemente assunto da questa Sezione del Consiglio di Stato con sentenza 29 gennaio 2013, n. 542 circa la natura perentoria del termine di duecentoquaranta giorni, previsto dal regolamento della Banca d’Italia del 25 giugno 2008, per i procedimenti sanzionatori di cui all’art. 145 del d.lgs. 1 settembre 1993, n. 385 ( Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia ). Va infatti considerato – visto anche l’indirizzo della Corte di Cassazione (es. Cass. SS.UU., 27 aprile 2006, n. 9591, secondo cui il termine per la conclusione del procedimento amministrativo dell’art. 2, comma 3, l. 7 agosto 1990 n. 241 non è applicabile ai procedimenti di irrogazione delle sanzioni amministrative disciplinati dalla l. 24 novembre 1981 n. 689) – che il procedimento sanzionatorio affidato ad una pubblica amministrazione e regolato dalla l. 24 novembre 1981, n. 689, ha caratteristiche speciali che lo distinguono dal procedimento amministrativo come disciplinato dalla lo. 7 agosto 1990, n. 241, e che sono tali da imporre la perentorietà del termine per provvedere, al fine di assicurare l’effettività del diritto di difesa, con generalizzazione al riguardo dei principi sanciti dalla giurisprudenza.

Una volta rilevata la perentorietà del termine in questione, d’altra parte, vengono in considerazione le censure, riferite a non avvenuto – o non comprovato – rispetto del termine stesso.

Cadono invece, pressoché automaticamente, le ulteriori argomentazioni riferite alle ragioni di urgenza, con cui era stata giustificata – a norma dell’art. 22 dello statuto della Banca d’Italia – l’emanazione del provvedimento impugnato a firma del Vice Direttore Generale, con solo successiva deliberazione a convalida del Direttorio.

La decorrenza del ricordato termine di duecentoquaranta giorni, dalla stessa parte appellante indicata al 17 dicembre 2009, rendeva infatti prossima, nella prima metà del mese di agosto 2010, la scadenza del termine per la conclusione del procedimento: per l’emanazione dell’atto impugnato – che reca la data del 12 agosto 2010 – l’urgenza era dunque sussistente in re ipsa.

Una diversa questione, tuttavia, investe la forma dell’atto, in quanto alla data, apposta sul medesimo con un timbro, non corrisponde l’apposizione di un numero di protocollo: il provvedimento dunque, secondo l’appellante, sarebbe invalido, o privo di data certa cui ancorare il rispetto del termine decadenziale. Detto termine, inoltre, dovrebbe essere valutato con riferimento alla data di recezione dell’atto stesso.

Nessuna di tali prospettazioni è condivisa dal Collegio.

Deve essere in primo luogo ravvisata, infatti, la natura di atto pubblico del documento di cui trattasi, in quanto sottoscritto da un dirigente della Banca d’Italia, pubblico ufficiale nell’esercizio di una funzione autoritativa di controllo sugli istituti bancari, nell’interesse generale alla corretta gestione dei medesimi per la relativa incidenza sull’economia nazionale. L’atto in questione – ex art. 2700 Cod. civ. – era pertanto da considerare costitutivo di “piena prova, fino a querela di falso, della provenienza del documento dal pubblico ufficiale che lo ha formato, nonché […] degli altri fatti che il pubblico ufficiale attesta avvenuti in sua presenza o da lui compiuti” : tra tali “fatti” non poteva che essere compresa la data di sottoscrizione del documento, ulteriormente attestata nell’atto di convalida del Direttorio in data 24 agosto 2010.

L’omessa registrazione di protocollo del medesimo atto, prevista dall’art. 53 del d.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445 “per ogni documento ricevuto o spedito dalle pubbliche amministrazioni” non può ritenersi inoltre, come prospettato, causa di nullità o annullabilità del provvedimento. La prima ipotesi (nullità) è infatti pacificamente da escludere a norma dell’art. 21- septies della legge n. 241 del 1990, che riconduce tale forma speciale di invalidità alla mancanza degli elementi essenziali e comunque ai soli casi indicati dalla legge (cfr. anche Cons. Stato, VI, 28 febbraio 2006, n. 891). La seconda (annullabilità) è da escludere per i vizi da ritenere non invalidanti, come delineati dall’art. 21- octies della medesima legge n. 241 del 1990, che sostanzialmente amplia la platea delle cosiddette mere irregolarità del provvedimento, escludendo l’interesse a coltivare un giudizio, da cui non discenderebbe per il proponente alcuna utilità, ove il vizio dedotto non implichi modifica del contenuto del provvedimento stesso (cfr. in tal senso, fra le tante, Cons. Stato, V, 23 gennaio 2008, n. 143;
Cons. St., sez. VI, 4 settembre 2007, n. 4614).

La catalogazione in ordine cronologico degli atti amministrativi, tramite apposizione di un numero progressivo, cosiddetto di protocollo, riportato in un registro costituisce elemento non irrilevante di buon andamento dell’Amministrazione per l’ordinata conservazione e l’agevole reperibilità nel tempo degli atti stessi;
ma non può considerarsi requisito di validità del provvedimento, i cui elementi costitutivi – motivazione, dispositivo, data di emanazione – sono riportati nell’atto stesso ed attestati dalla firma dell’autorità competente.

Nella situazione in esame – non essendo intervenuta querela finalizzata a dimostrare la falsità della data apposta al provvedimento e dovendo quest’ultimo essere emesso – non anche comunicato – entro duecentoquaranta giorni dalle controdeduzioni fornite dagli interessati, non può che ravvisarsi la tempestività della misura sanzionatoria. Non incide sulle conclusioni sopra raggiunte la denuncia proposta in sede penale (già oggetto di archiviazione, ma con opposizione pendente al riguardo): non risulta chiarito, infatti, in base a quali elementi di fatto si potrebbe supporre una condotta scorretta dei soggetti intervenuti a vario titolo (anche esecutivo) nella formazione del provvedimento, sotto il profilo della data in cui il medesimo sarebbe stato sottoscritto. Non risultando pendente, pertanto, alcun procedimento penale a carattere pregiudiziale e non essendo stato fornito, nella presente sede, alcun principio di prova, atto a far dubitare della possibile falsità di un documento, assistito da presunzione di legittimità come tutti i provvedimenti amministrativi (soggetti per tale motivo a consolidazione, ove non contestati entro brevi termini di decadenza), la data in discussione non può che essere assunta come corretta, benché non regolarizzata con registrazione di protocollo.

Non può infine ritenersi che, nei duecentoquaranta giorni previsti – decorrenti dalla notifica della contestazione – il provvedimento dovesse essere non solo emesso, ma anche comunicato agli interessati. La ratio della ravvisata perentorietà del termine, infatti, va ricondotta all’esigenza di non comprimere le possibilità di difesa degli interessati nei procedimenti sanzionatori, per i quali tempi molto dilatati potrebbero non solo risultare di per sé penalizzanti, ma anche rendere più difficoltosa la predisposizione di adeguati strumenti di difesa. Appare evidente come tale ratio sia integralmente soddisfatta dalla tempestiva emanazione del provvedimento finale, mentre corrisponderebbe ad eccessiva dilatazione delle garanzie, accordate ai destinatari di tale provvedimento (a scapito dell’interesse pubblico, cui lo stesso corrisponde), la ricomprensione nel termine anzidetto dei tempi – non integralmente controllabili dall’Amministrazione – per la comunicazione dell’atto conclusivo del procedimento (comunicazione da cui dipende, come per tutti gli atti a carattere recettizio, solo l’efficacia del provvedimento emesso).

Per le ragioni esposte, appare evidente che l’atto di convalida del Direttorio della Banca d’Italia ha solo comportato – come previsto per tale tipologia di atti – assunzione da parte dell’organo competente delle determinazioni di altro organo, chiamato a provvedere in via provvisoria per ragioni di urgenza, salvo appunto ratifica del contenuto delle decisioni assunte, senza che detta ratifica fosse, nel caso di specie, riferibile non alla mera competenza, ma ad altri vizi che, secondo gli appellanti, avrebbero richiesto “specifica individuazione e motivata convalida” .

La natura della convalida, d’altra parte, non implicava una rinnovata partecipazione degli interessati al procedimento, trattandosi di assumere le conclusioni di un’istruttoria già compiuta e di condividere, o meno, la proposta formulata dagli uffici di vigilanza. Non è contestato dagli stessi appellanti, d’altra parte, che la normativa interna della Banca d’Italia disciplini il contraddittorio nella sola fase istruttoria. Tale disciplina, ad avviso del Collegio, non richiede adeguamento ai sensi dell’art. 24, comma 2 della legge 28 dicembre 2005, n. 262 ( Disposizioni per la tutela del risparmio e la disciplina dei mercati finanziari ), come viene prospettato, limitandosi detta norma a specificare il contenuto della motivazione, necessaria per gli atti conclusivi dei procedimenti, ma “in relazione alle risultanze dell’istruttoria” , ovvero – deve ritenersi – senza reiterazione delle le fasi interne di quest’ultima, implicanti recezione dell’apporto partecipativo dei soggetti interessati.

Restano da esaminare i motivi di gravame, reiterativi di quelli di cui numeri 7. 8, 9, 10, 11, 12 e 13 del ricorso di primo grado, circa la correttezza delle sanzioni concretamente irrogate. A tale questione gli appellanti fanno precedere, tuttavia, quella dell’applicabilità del cumulo giuridico delle sanzioni., in quanto riferite a condotte distinte, che avrebbero implicato valutazioni diverse, rapportate al grado di colpa ed all’apporto del singolo soggetto coinvolto.

A tale riguardo il Collegio condivide le argomentazioni dell’ente appellato, secondo cui la valutazione congiunta di una serie di irregolarità – globalmente indicatrici di carenze dell’intero impianto organizzativo e rese oggetto di sanzione pecuniaria – ha giovato agli interessati, per alcune delle condotte contestate implicando una sommatoria inferiore a quella, corrispondente alle sanzioni minime previste per ciascuna di tali condotte. Appare ragionevole inoltre – tenuto conto della discrezionalità assegnata all’organo di controllo – che sia stata ritenuta equivalente la responsabilità degli ex amministratori diversi dal Presidente del Consiglio di Amministrazione, con valutazione di maggiore responsabilità solo a carico di quest’ultimo. Non appare condivisibile, in ogni caso, la prospettazione degli appellanti, secondo cui ad ogni condotta individuata come infrazione avrebbe dovuto corrispondere una sanzione, con possibile esplicazione al riguardo delle difese degli interessati: appare infatti evidente che, nella situazione in esame, sono state rilevate infrazioni di tipo gestionale, intrinsecamente riconducibili ad una sommatoria di comportamenti, dal cui insieme soltanto possono emergere con chiarezza le irregolarità contestate e la relativa gravità.

Anche in rapporto alle considerazioni che seguono si deve premettere che – con diffuse argomentazioni difensive – le parti appellanti tentano di spostare nella presente sede apprezzamenti discrezionali, che potevano ricevere adeguata trattazione solo nella competente sede di merito, dovendosi viceversa evidenziare, ai fini del giudizio di legittimità, solo quei travisamenti dei fatti o quei vizi logici delle conclusioni assunte dall’Autorità competenti, che potessero assumersi come vizi funzionali degli atti compiuti.

Nella maggior parte delle predette argomentazioni, viceversa, gli interessati non contestano i fatti, nell’oggettiva consistenza dei medesimi, ma propongono degli stessi una diversa, non ammissibile lettura nel merito, o ritengono inadeguate motivazioni, che al contrario appaiono formulate a conclusione di un iter logico complesso ma lineare, implicante delicate competenze tecniche in materia di svolgimento e di controllo dell’attività bancaria.

Non sembra inutile sottolineare come il presente giudizio riguardi misure sanzionatorie, applicate a taluni soggetti responsabili della predetta attività, con riferimento ad un istituto bancario (Banca di Credito Cooperativo di San Vincenzo La Costa), sottoposto a procedura di amministrazione straordinaria con decreto del Ministero dell’economia e delle finanze n. 958 del 27 novembre 2009. Detto decreto risulta contestato ma confermato, da ultimo, con sentenza del Consiglio di Stato, IV, 11 novembre 2010, n. 8016, con conseguente, inoppugnabile rilevazione di carenze gestionali, da riferire all’assetto organizzativo ed ai controlli interni da parte del Direttore, del Consiglio di Amministrazione e del Collegio sindacale, con effetti rilevabili nelle fasi di istruttoria, erogazione, gestione e controllo del credito, nelle previsioni di perdite non segnalate all’Organo di Vigilanza, nonché nella riduzione del patrimonio al di sotto del limite minimo richiesto per legge. In tale contesto si inserivano gli accertamenti ispettivi, il cui esito sul piano sanzionatorio è oggetto del presente giudizio, mentre ulteriori conseguenze sono state poi registrate nel progressivo aggravamento della situazione di deficit, tanto da indurre la stessa Banca d’Italia, nel 2011, a proporre al Ministro dell’Economia e delle Finanze l’adozione del provvedimento di liquidazione coatta amministrativa, con finale emanazione da parte del predetto Ministro del decreto n. 499 del 26 maggio 2011, con cui è stata revocata alla BCC di San Vincenzo La Costa l’autorizzazione a svolgere attività bancaria, con avvio della fase di liquidazione;
il ricorso al riguardo proposto è stato respinto dal Tribunale amministrativo el Lazio con sentenza 14 giugno 2012, n. 5492 di cui il Consiglio di Stato ha negato la sospensione, con ordinanza n. 4836/12 del 12 dicembre 2012.

Appare significativo, in particolare, che nella citata sentenza n. 8016/2010 – nel sottolineare l’ampia discrezionalità della Banca d’Italia, nella valutazione dei presupposti legittimanti il commissariamento (con insindacabilità nel merito delle valutazioni compiute, se non per manifesta erroneità o irragionevolezza) – si sottolinei “la sussistenza effettiva di una serie di circostanze” , proprio con riferimento alle verifiche ispettive condotte tra il 2006 e il 2009: circostanze, che nella stessa sentenza vengono riferite ad erogazione di crediti a soggetti non assistiti da adeguate garanzie, ad amplimenti di fidi esistenti a soggetti già in sofferenza, nonché a mancata attivazione nei confronti di clienti in situazione di rilevante passività e che non sarebbero state smentite nella sostanza dai soggetti responsabili, i quali avrebbero soltanto rappresentato una propria differente visione di strategia aziendale. Nel contrasto di valutazioni, tuttavia, il giudice amministrativo non potrebbe non riconoscere la prevalenza di quelle dell’Organo tecnico di controllo, “purché non erronee né irrazionali” . La situazione attualmente in esame investe quindi, in buona parte, questioni già oggetto di giudicato, quanto meno per ciò che concerne la sussistenza di gravi irregolarità, la cui valutazione era rimessa in via esclusiva, nel merito, alla Banca d’Italia, in quanto in possesso delle delicate competenze tecniche, necessarie per valutare l’impatto delle condotte rilevate sul corretto funzionamento dell’Istituto di credito. Come per i provvedimenti delle autorità garanti, in effetti, anche per le operazioni di controllo della Banca d’Italia può parlarsi, ad avviso del Collegio, di un sindacato di eccesso di potere essenzialmente incentrato sula verifica della ragionevolezza e la coerenza tecnica della decisione amministrativa, in quanto per determinati settori, come quello delle predette autorità e così dunque per la Banca d’Italia, il sindacato giurisdizionale necessariamente incontra il limite della specifica competenza tecnica, della posizione di indipendenza e dei poteri propri spettanti delle istituzioni in questione, il cui giudizio ha come parametri di riferimento non regole scientifiche esatte e non opinabili, ma valutazioni, anche di ordine prognostico, a carattere economico, sociale, o comunque non ripercorribile in base a dati univoci (cfr. in tal senso Cons. Stato, VI, 23 aprile 2002, n. 2199;
1 ottobre 2002, n. 5156;
2 marzo 2004, n. 926;
7 novembre 2005, n. 6152;
Cons. Stato, III, 25 marzo 2013, n. 1645).

Appare dunque evidente la non condivisibilità di argomentazioni che, nell’atto di appello, si riferiscono genericamente ad arbitrarietà delle determinazioni degli organi ispettivi, in quanto collegate non a fatti, ma appunto a “valutazioni”, come quelle riferite alla non confutabilità delle irregolarità riscontrate, attraverso il richiamo allo “scambio continuo di informazioni” , intervenuto fra il Direttore Generale ed il Consiglio di Amministrazione, nonché al mantenimento in sospeso di assegni privi di copertura, anche oltre il termine per il relativo protesto. La prima di tali circostanze si traduce infatti in un mero richiamo ai dati reali, relativi ad irregolarità che non cessavano di essere tali, solo perché oggetto di informativa interna. Quanto alle scelte operate su situazioni di scopertura, inoltre, non appaiono convincenti giustificazioni legate alla valutazione di rischio per l’azienda, con riferimento alle garanzie offerte dal cliente, non risultando smentito in via di fatto che le sofferenze dell’Istituto bancario di cui trattasi – a sostanziale conferma di valutazioni prognostiche non corrette dei relativi dirigenti – hanno portato ad un commissariamento dell’istituto stesso, riconosciuto come legittimo con sentenza passata in giudicato ed assorbente, ad avviso del Collegio, rispetto alle ulteriori considerazioni, riferite alle regole di valutazione dell’adeguatezza patrimoniale della Banca, in rapporto agli utili conseguiti. Gli appellanti sostengono, in particolare, che la contestata insufficienza patrimoniale non sussisterebbe, dovendo ritenersi non più sussistente il requisito patrimoniale aggiuntivo del 7%, imposto dalla Banca d’Italia nel 1996. Tale requisito, tuttavia, non risulta revocato e deve ritenersi conforme alla potestà dell’Organo di vigilanza di richiedere maggiori garanzie patrimoniali, in presenza di progressivo deterioramento degli equilibri aziendali, come previsto dall’art. 53, comma 3 del d.lgs. n. 385 del 1993.

Analitici e dettagliati, inoltre, risultano i riscontri riferiti al ridimensionamento degli utili, rispetto alle previsioni di perdite di esercizio (per il 2009, in misura pari a 16,1 milioni di euro), nonché alle cause degli scompensi rilevati, come rappresentati dalla parte resistente (affidamenti per i quali non era stata effettuata revoca, sussistendone i presupposti, esposizioni verso alcuni clienti protestati, linee di credito ad andamento anomalo ed ingenti previsioni di perdite, per importi molto superiori agli utili segnalati: circostanze, tutte, confermate in una dimensione di anche maggiore gravità dopo l’emanazione degli atti in questa sede contestati, tanto da condurre, come già ricordato, alla liquidazione coatta amministrativa dell’Istituto bancario).

Considerazioni del tutto analoghe a quelle in precedenza svolte inducono ad escludere la fondatezza di ulteriori specifiche censure, riferite ad agevolazioni concesse alla società Elen’s Beer s.a.s., nonché alla linea di credito accordata all’imprenditore Guido Annibale, emergendo anche in questi casi divergenti valutazioni degli appellanti rispetto a quelle degli organi ispettivi, senza quegli elementi che consentirebbero di individuare vizi funzionali nei discrezionali apprezzamenti di questi ultimi (apprezzamenti, peraltro, che appaiono fondati su dati di fatto non controversi, quali un’almeno parziale incompletezza delle informazioni fornite alla Banca d’Italia nel primo caso – concernente l’escussione di una garanzia fideiussoria – e l’oggettivo ampliamento di un fido bancario – dai 200.000 euro del 2005 ad 1,3 milioni di euro a marzo 2009, con reale utilizzo debordato a 1,7 milioni di euro – a favore di un imprenditore in difficoltà, con percentuale di assegni insoluti “pari, nel biennio 2007/2008, a oltre il 70% dei titoli versati in c/c” ). Sembra appena il caso di rilevare infine come, in un quadro generale di crisi economica, criteri di prudenza nella gestione del credito potessero ritenersi congrui e giustificassero l’applicazione rigorosa dei criteri di vigilanza da parte degli organi ispettivi, in presenza di situazioni fattori di criticità, confermati dalla successiva cessazione dell’attività bancaria. Non si può che confermare la sentenza di primo grado, inoltre, anche per quanto riguarda le censure ritenute inammissibili per genericità, in particolare per quanto riguarda le carenti segnalazioni alla Centrale rischi per mancato rientro alla scadenza di fidi e linee di credito temporanee in conto corrente, per i quali le indicazioni contenute nella lettera di contestazione appaiono più dettagliate e comprensibili (con riferimento a pregresse comunicazioni intercorse fra le parti) rispetto al segnalato carattere “generico e pretestuoso” che alla contestazione stessa è attribuito nell’atto di appello, per pretesa mancata indicazione di casi specifici.

Inammissibile deve ritenersi, infine, quello che viene proposto come “motivo aggiunto” , in base alla sussistenza di presunti “fatti nuovi e successivi” , che sarebbero stati portati a conoscenza dell’autorità giudiziaria penale e che dovrebbero configurare la “perpetrazione definitiva del disegno illecito più volte denunciato” , culminato con la liquidazione coatta amministrativa. Sembra appena il caso di precisare infatti che – in assenza di un procedimento penale in corso su fatti pregiudiziali – le indimostrate affermazioni di cui sopra non possono avere alcuna influenza sul processo amministrativo in corso, fatta salva – ove in seguito ne emergessero i presupposti, allo stato non ravvisabili – l’applicabilità dell’art. 395 Cod. proc. civ..

Per le ragioni esposte, in conclusione, il Collegio ritiene che l’appello debba essere respinto. Le spese giudiziali, da porre in solido a carico delle parti soccombenti, vengono liquidate nella misura complessiva di €. 6.000,00 (euro seimila/00).

Iscriviti per avere accesso a tutti i nostri contenuti, è gratuito!
Hai già un account ? Accedi