Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza 2014-11-27, n. 201405878
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Testo completo
N. 05878/2014REG.PROV.COLL.
N. 04989/2007 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 4989 del 2007, proposto da:
BA srl, in persona del legale rappresentante “pro tempore”, rappresentata e difesa dagli avvocati Stefano Dall'Argine, Cesare Trebeschi e Ilaria Romagnoli, con domicilio eletto presso quest’ultima in Roma, via Livio Andronico, 24;
contro
Ministero per i beni e le attivita' culturali (in seguito anche MIBAC), in persona del Ministro “pro tempore”, rappresentato e difeso per legge dall'Avvocatura generale dello Stato, domiciliata “ex lege” in Roma, via dei Portoghesi, 12;
per la riforma
della sentenza del T.A.R. EMILIA -ROMAGNA -SEZIONE STACCATA DI PARMA, n. 427/2006, resa tra le parti, concernente dichiarazione di interesse particolarmente importante di immobili;
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del 21 ottobre 2014 il cons. Marco Buricelli e uditi per le parti gli avvocati Romagnoli e Garofoli;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO e DIRITTO
1. Con la sentenza in epigrafe il TA di Parma ha respinto i ricorsi, riuniti, n. 51 del 1998 e n. 372 del 1999, proposti dalla s.r.l. BA avverso e per l’annullamento:
-quanto al ricorso n. 51/98, del decreto in data 31 ottobre 1997 con il quale il Ministero dei beni culturali, in base alla proposta in data 5 agosto 1997 del Soprintendente per i beni archeologici di Bologna, aveva dichiarato di interesse (archeologico) particolarmente importante gli immobili di proprietà della società siti in Piacenza, Via Gregorio X, e
-quanto al ricorso n. 372 del 1999, del decreto in data 22 aprile 1999 con il quale il Ministero aveva dichiarato di interesse (archeologico) particolarmente importante un altro immobile, sempre di proprietà della società ricorrente, adiacente ai primi e sito in Piacenza, Via Genocchi, angolo Via Gregorio X.
Il TA ha rigettato le numerose censure mosse con i ricorsi rilevando, in sintesi, quanto segue.
1.1. Quanto al ricorso n. 51/98, anzitutto, il decreto di vincolo del 1997 non è viziato da motivazione insufficiente e da istruttoria carente, dato che la relazione tecnico -scientifica del 14 luglio 1997 allegata al decreto e che ne costituisce parte integrante evidenzia l’importanza dell’area proprio sulla base dell’importanza e della vastità dei reperti venuti alla luce in occasione di scavi effettuati dalla società ricorrente. Il decreto impugnato risulta adottato in base a concreti ritrovamenti di reperti archeologici e non, come sostiene la società ricorrente, in via astratta sulla base di un’unica fonte bibliografica e senza alcuna verifica “in loco”. A conferma dell’entità e della vastità dei reperti venuti alla luce nell’area depongono anche i fatti che hanno avuto il loro epilogo in sede penale con la condanna del rappresentante legale della società in quanto riconosciuto colpevole del reato di danneggiamento di materiale archeologico per avere, il medesimo e le sue maestranze, continuato le operazioni di scavo nonostante l’emersione di numerosi reperti archeologici e nonostante i ripetuti inviti di un’ispettrice della Soprintendenza presente sul posto a far cessare l’attività delle ruspe. Inoltre il fatto – accertato in sede penale – che numerosi reperti di rilevanti dimensioni quali strutture murarie e pavimentazioni siano andati distrutti o trasportati in discarica assieme al terreno rimosso a causa dell’illecita prosecuzione di detti lavori non può costituire valida argomentazione a supporto della tesi con cui la difesa della ricorrente, nel rilevare l’esiguità e la trascurabile importanza dei reperti non distrutti dalle ruspe, in concreto contesta la stessa sussistenza dell’oggetto del vincolo archeologico.
Il TA ha proseguito osservando che l’entità e la tipologia dei reperti andati distrutti dimostrano, “a contrario”, che effettivamente l’area riveste la particolare importanza, sotto il profilo archeologico, che l’Amministrazione ha attribuito alla stessa con il decreto impugnato e ciò soprattutto in funzione della concreta possibilità di ulteriori ritrovamenti. La documentata rilevanza dei ritrovamenti giustifica pienamente sia l’individuazione dell’area, che non può essere posta sullo stesso piano di aree viciniori nelle quali però non risultano essere stati rinvenuti reperti archeologici, sia il sacrificio imposto alla proprietà mediante l’adozione del vincolo, con l’interesse del privato correttamente valutato dall’ Amministrazione procedente come recessivo rispetto all’interesse pubblico alla tutela e alla salvaguardia di beni archeologici di particolare importanza.
1.2.Per quanto riguarda il ricorso n. 372/99, proposto contro il secondo decreto, adottato nel 1999, gravante su un’area della ricorrente contigua a quella già soggetta a tutela archeologica, il TA ha in primo luogo respinto la censura di violazione dell’art. 7 della l. n. 241/90, in relazione alla affermata omessa comunicazione dell’avvio del procedimento alla proprietaria dell’area, rilevando che dagli atti risulta che il legale rappresentante della ricorrente era pienamente a conoscenza del ritrovamento di reperti archeologici nella sua area, dato che l’attività di scavo è stata svolta dalla stessa società previo accordo con la Soprintendenza e con la vigilanza sul posto di personale dell’Amministrazione, il che ben consentiva alla proprietaria dell’area di partecipare alla successiva attività procedimentale dell’amministrazione, con conseguente inutilità dell’invio dell’avviso ex art. 7 cit. . Anche le rimanenti censure, riproposte sulla falsariga dei motivi dedotti contro il precedente decreto, e incentrate in sostanza sui vizi di difetto di motivazione, insufficiente istruttoria, falsa descrizione dei fatti, illogicità manifesta e irragionevolezza, sono state respinte per le ragioni su esposte al p. 1.1. , specificandosi in sentenza che, come si ricava dalla relazione tecnica 6 dicembre 1998 allegata al secondo decreto, la motivazione della decisione dell’Amministrazione s’incentra essenzialmente sulla quantità e sull’importanza dei reperti portati alla luce dagli scavi “sorvegliati” e non su quanto riportato nelle fonti bibliografiche consultate dall’Amministrazione. Di qui la reiezione dei ricorsi riuniti e la condanna della ricorrente alla rifusione delle spese e degli onorari di lite in favore del MIBAC.
3. Con ricorso in appello tempestivamente notificato e depositato la s.r.l. BA ha contestato statuizioni e argomentazioni del TA, premettendo che, a differenza di quanto affermato dal TA in sentenza, il legale rappresentante della società appellante non è stato condannato in sede penale ma risulta invece assolto ex art. 530, comma 2, c.p.p., poiché il fatto non costituisce reato, dalle imputazioni ex articoli 48 e 59 della l. n. 1089/1939 di omessa denuncia del rinvenimento di materiale d’interesse archeologico e di prosecuzione dei lavori mentre, per il reato di danneggiamento, ex art. 635 c. p. , l’A. G. ha dichiarato di non doversi procedere, sicché l’epilogo penale sarebbe opposto a quello su cui il TA ha fondato la sua decisione. L’appellante ha quindi formulato nove motivi d’appello, sintetizzabili come segue: I) illogicità e contraddittorietà manifesta –falso presupposto di fatto: ciò in quanto il TA, come si è appena detto, avrebbe fondato la sua decisione su fatti travisati, dato che l’epilogo penale della vicenda è dato dalla sentenza della Corte suprema di Cassazione n. 30052 del 22 maggio 2003 di assoluzione del legale rappresentante della società; II) violazione degli articoli 3 e 7 della l. n. 241/90. Nel contestare il passaggio motivazionale della sentenza con cui si ritiene che la “conoscenza avvenuta sul campo” ben consentisse alla proprietaria dell’area di partecipare alla successiva attività procedimentale della P. A. , l’appellante rimarca che lo scavo era stato sospeso in via autonoma, che la Soprintendenza ne aveva consentito la ripresa e che quindi il privato non aveva consapevolezza di partecipare a un procedimento di imposizione di un vincolo, né aveva il minimo sentore dell’intenzione della P. A. di apporre un secondo vincolo, tra l’altro emesso e notificato a notevole distanza di tempo dal primo e dai fatti. Il secondo vincolo non poteva certo dirsi preannunciato dal vincolo apposto in precedenza; III) difetto dei presupposti, di istruttoria e di motivazione; travisamento dei fatti, illogicità, perplessità e e ingiustizia manifesta. L’appellante lamenta l’assenza di una motivazione specifica dell’atto lesivo, diretta a evitare l’imposizione di un vincolo sproporzionato al pubblico interesse; IV) violazione dell’art. 1 della l. n. 1089/1939 ed eccesso di potere per illogicità manifesta. Si sostiene che un elementare senso critico esigeva una verifica in ordine all’interesse storico –archeologico dell’immobile basata su una fonte diversa dalla bibliografia della stessa Soprintendente autrice dell’atto. Sotto una diversa angolazione, proprio nell’àmbito dello studio effettuato, la stessa Soprintendente aveva ritenuto lo specifico immobile non meritevole di vincolo; V) violazione della l. n. 1089/1939 ed eccesso di potere per contraddittorietà manifesta e falsa