Consiglio di Stato, sez. III, sentenza 2021-08-03, n. 202105723
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Pubblicato il 03/08/2021
N. 05723/2021REG.PROV.COLL.
N. 01463/2021 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Terza)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 1463 del 2021, proposto dal Ministero dell’Interno e dall’Ufficio territoriale del Governo di Vibo Valentia, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentati e difesi ex lege dall’Avvocatura Generale dello Stato, con domicilio in Roma, via dei Portoghesi, n.12;
contro
la -OMISSIS-in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’avvocato D B con domicilio digitale come da pec da Registri di Giustizia
per la riforma
della sentenza del Tar Calabria, sede di Catanzaro, sez. I, -OMISSIS-, con la quale è stato accolto il ricorso proposto dalla-OMISSIS-avverso l’informazione antimafia interdittiva emessa dal Prefetto di Vibo Valentia con atto prot. n. -OMISSIS-e il contestuale diniego di iscrizione alla White List.
Visti il ricorso in appello e i rispettivi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio della -OMISSIS-
Viste le memorie depositate dalla-OMISSIS-in date 10 marzo 2021, 14 marzo 2021, 30 maggio 2021 e 23 luglio 2021;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza del giorno 29 luglio 2021, tenutasi in videoconferenza con collegamento da remoto ai sensi dell’art. 25, d.l. 28 ottobre 2020, n. 137, il Cons. Giulia Ferrari e uditi altresì i difensori presenti delle parti in causa, come da verbale;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
1. Con provvedimento del 28 ottobre 2019 la Prefettura di Vibo Valentia, in seguito alla richiesta inoltrata dalla-OMISSIS-nel febbraio 2018, ha comunicato l’informazione interdittiva antimafia e il contestuale diniego di iscrizione della società ricorrente nell’elenco dei fornitori, prestatori di servizi ed esecutori di lavori non soggetti a tentativo di infiltrazioni mafiose (c.d. White list).
2. Con ricorso proposto dinanzi al Tar Catanzaro la società-OMISSIS-ha impugnato con ricorso in primo grado il provvedimento interdittivo e il diniego di iscrizione alla White list lamentando l’eccesso di potere per manifesta illogicità sotto il profilo del travisamento dei fatti, nonché l’eccesso di potere, il difetto di motivazione e l’illogicità della stessa.
3. Con sentenza -OMISSIS- la sez. I del Tar Catanzaro ha accolto il ricorso sul rilievo che gli elementi posti a fondamento del provvedimento impugnato in primo grado non potessero assumere rilevanza dirimente sul piano del rischio infiltrativo in difetto di ulteriori indizi idonei a sostenere l’ipotesi di un condizionamento della società da parte della criminalità organizzata.
4. La sentenza del Tar Calabria -OMISSIS- è stata impugnata con appello notificato il 10 febbraio 2021 e depositato il successivo 18 febbraio 2021. Ad avviso del Ministero il giudice di primo grado avrebbe erroneamente valutato i presupposti dell’informativa prefettizia. Il provvedimento, infatti, sarebbe stato adottato sulla scorta di precisi elementi sintomatici ed indiziari dai quali, in forza del principio del più probabile che non, sarebbe desumibile il tentativo di infiltrazione mafiosa.
5. Si è costituita in giudizio la -OMISSIS-sostenendo l’infondatezza dell’appello.
6. Con ordinanza -OMISSIS- è stata respinta l’istanza di sospensione della sentenza del Tar Calabria, sede di Catanzaro, sez. I, -OMISSIS-.
7. All’udienza del 29 luglio 2021, tenutasi in videoconferenza con collegamento da remoto ai sensi dell’art. 25, d.l. 28 ottobre 2020, n. 137, la causa è stata trattenuta in decisione.
DIRITTO
1. La-OMISSIS-ha nella propria compagine sociale -OMISSIS-, in qualità di amministratore unico, e -OMISSIS-, già amministratore unico e poi socio.
L’interdittiva, e il conseguente diniego di iscrizione negli elenchi dei fornitori, prestatori di servizi ed esecutori non soggetti a tentativi di infiltrazione mafiosa di cui all'art. 1, comma 52, l. n. 190 del 2012, trae fondamento sulla figura di -OMISSIS-.
-OMISSIS-, originariamente amministratore unico della -OMISSIS-è stato sottoposto all'avviso orale di pubblica sicurezza ed il successivo 26 giugno 2017 è stato tratto in arresto dal NOR della Compagnia Carabinieri di Gonzaga (MN) in esecuzione dell'ordine di custodia cautelare emessa dal GIP del Tribunale di Vibo Valentia poiché, unitamente ad altri 16 soggetti, tra i quali -OMISSIS-, esponente dell'omonima cosca mafiosa), si era reso responsabile di spaccio di sostanze stupefacenti ex art. 73, commi 1 e 4, d.P.R. n. 309 del 1990. A seguito di tali vicende penali, in data 7 giugno 2017 si è dimesso dalla carica di responsabile della società, assunta poi da -OMISSIS-. Lo stesso -OMISSIS- è stato controllato più volte con soggetti controindicati, alcuni dei quali gravati da vicende di polizia per associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti, violazioni di norme in materia dì sostanze stupefacenti, favoreggiamento personale ed altro.
Infine, è convivente con Piera Tounsi, che ha un carico pendente presso la Procura della Repubblica di Vibo Valentia, per produzione e spaccio di stupefacenti (art. 73, d.P.R. n. 309 del 1990).
Il Tar Catanzaro ha accolto il ricorso.
Ha richiamato preliminarmente, e correttamente, i principi elaborati da una ormai costante giurisprudenza del giudice amministrativo sull’istituto della interdittiva ma ne ha tratto conclusioni non condivisibili, ritenendo che “il coinvolgimento negli episodi criminosi indicati nell’ordinanza custodiale concernenti lo spaccio e la coltivazione di stupefacenti in concorso, assieme a numerosi soggetti, con il figlio di un esponente mafioso, di per sé solo non può assumere rilevanza dirimente sul piano del rischio infiltrativo in difetto, come nel caso di specie, di qualsivoglia ulteriore elemento o indizio idoneo a sostenere l’ipotesi di una conduzione collettiva della società ovvero l’assunto che le scelte dell’imprenditore possano rappresentare un veicolo di infiltrazione delle organizzazioni criminali nelle funzioni della pubblica amministrazione ovvero, ancora, che l’attività dell’impresa dia luogo ad agevolazione, aiuto, supporto, anche solo logistico, pur indiretto, agli interessi e agli affari di tali associazioni”.
2. Il Collegio, proprio alla luce dei principi che governano la materia in esame, ritiene invece sufficienti gli indizi posti dalla Prefettura di Vibo Valentia alla base del provvedimento del 28 ottobre 2019, potendo dagli stessi trarre la conclusione che è “più probabile che non” il percolo di infiltrazione mafiosa nella società.
Come più volte affermato dalla Sezione (30 giugno 2020, n. 4168;25 giugno 2020, n. 4091), pur essendo necessario che nell’interdittiva antimafia siano individuati (ed indicati) idonei e specifici elementi di fatto, obiettivamente sintomatici e rivelatori di concrete connessioni o possibili collegamenti con le organizzazioni malavitose, che sconsigliano l’instaurazione di un rapporto dell’impresa con la Pubblica amministrazione, non è invece necessario un grado di dimostrazione probatoria analogo a quello richiesto per dimostrare l’appartenenza di un soggetto ad associazioni di tipo camorristico o mafioso, potendo l’interdittiva fondarsi su fatti e vicende aventi un valore sintomatico e indiziario e con l’ausilio di indagini che possono risalire anche ad eventi verificatisi a distanza di tempo.
La verifica della legittimità dell’informativa deve essere effettuata sulla base di una valutazione unitaria degli elementi e dei fatti che, visti nel loro complesso, possono costituire un’ipotesi ragionevole e probabile di permeabilità della singola impresa ad ingerenze della criminalità organizzata di stampo mafioso sulla base della regola causale del “più probabile che non”, integrata da dati di comune esperienza, evincibili dall’osservazione dei fenomeni sociali (quale è quello mafioso), e che risente della estraneità al sistema delle informazioni antimafia di qualsiasi logica penalistica di certezza probatoria raggiunta al di là del ragionevole dubbio (Cons. St., sez. III, 18 aprile 2018, n. 2343).
Ai fini dell’adozione dell’interdittiva occorre, da un lato, non già provare l'intervenuta infiltrazione mafiosa, bensì soltanto la sussistenza di elementi sintomatico-presuntivi dai quali – secondo un giudizio prognostico latamente discrezionale – sia deducibile il pericolo di ingerenza da parte della criminalità organizzata;d’altro lato, detti elementi vanno considerati in modo unitario, e non atomistico, cosicché ciascuno di essi acquisti valenza nella sua connessione con gli altri (Cons. St., sez. III, 18 aprile 2018, n. 2343).
Ciò che connota la regola probatoria del “più probabile che non” non è un diverso procedimento logico, ma la (minore) forza dimostrativa dell’inferenza logica, sicché, in definitiva, l’interprete è sempre vincolato a sviluppare un’argomentazione rigorosa sul piano metodologico, “ancorché sia sufficiente accertare che l’ipotesi intorno a quel fatto sia più probabile di tutte le altre messe insieme, ossia rappresenti il 50% + 1 di possibilità, ovvero, con formulazione più appropriata, la c.d. probabilità cruciale” (Cons. St., sez. III, 26 settembre 2017, n. 4483).
Il pericolo – anche quello di infiltrazione mafiosa – è per definizione la probabilità di un evento.
L’introduzione delle misure di prevenzione, come quella qui in esame, è stata dunque la risposta cardine dell’Ordinamento per attuare un contrasto all’inquinamento dell’economia sana da parte delle imprese che sono strumentalizzate o condizionate dalla criminalità organizzata.
Una risposta forte per salvaguardare i valori fondanti della democrazia.
La sopra richiamata funzione di “frontiera avanzata” dell’informazione antimafia nel continuo confronto tra Stato e anti-Stato impone, a servizio delle Prefetture, un uso di strumenti, accertamenti, collegamenti, risultanze, necessariamente anche atipici come atipica, del resto, è la capacità, da parte delle mafie, di perseguire i propri fini. E solo di fronte ad un fatto inesistente od obiettivamente non sintomatico il campo valutativo del potere prefettizio, in questa materia, deve arrestarsi (Cons. St., sez. III, 30 gennaio 2019, n. 758).
Negare però in radice che il Prefetto possa valutare elementi “atipici”, dai quali trarre il pericolo di infiltrazione mafiosa, vuol dire annullare qualsivoglia efficacia alla legislazione antimafia e neutralizzare, in nome di una astratta e aprioristica concezione di legalità formale, proprio la sua decisiva finalità preventiva di contrasto alla mafia, finalità che, per usare le parole della Corte europea dei diritti dell’uomo nella sentenza 23 febbraio 2017 (ric. n. 43395/09, nel caso De Tommaso c. Italia), consiste anzitutto nel “tenere il passo con il mutare delle circostanze” secondo una nozione di legittimità sostanziale. Ma, come è stato recentemente osservato anche dalla giurisprudenza penale, il sistema delle misure di prevenzione è stato ritenuto dalla stessa Corte europea in generale compatibile con la normativa convenzionale poiché “il presupposto per l’applicazione di una misura di prevenzione è una ‘condizione’ personale di pericolosità, la quale è desumibile da più fatti, anche non costituenti illecito, quali le frequentazioni, le abitudini di vita, i rapporti, mentre il presupposto tipico per l’applicazione di una sanzione penale è un fatto-reato accertato secondo le regole tipiche del processo penale” (Cass. pen., sez. II, 9 luglio 2018, n. 30974).
Come condivisibilmente affermato nella sentenza -OMISSIS-, il sistema della prevenzione amministrativa antimafia non costituisce e non può costituire, in uno Stato di diritto democratico, un diritto della paura, perché deve rispettare l’irrinunciabile principio di legalità, non solo in senso formale ma anche sostanziale, sicché il giudice amministrativo, chiamato a sindacare il corretto esercizio del potere prefettizio nel prevenire l’infiltrazione mafiosa, deve farsi attento custode delle irrinunciabili condizioni di tassatività sostanziale e di tassatività processuale di questo potere per una tutela giurisdizionale piena ed effettiva di diritti aventi rango costituzionale, come quello della libera iniziativa imprenditoriale (art. 41 Cost.), nel necessario, ovvio, bilanciamento con l’altrettanto irrinunciabile, vitale, interesse dello Stato a contrastare l’insidia delle mafie. La libertà “dalla paura”, obiettivo al quale devono tendere gli Stati democratici, si realizza anche, e in parte rilevante, smantellando le reti e le gabbie che le mafie costruiscono, a scapito dei cittadini, delle imprese e talora anche degli organi elettivi delle amministrazioni locali, imponendo la legge del potere criminale sul potere democratico, garantito e, insieme, incarnato dalla legge dello Stato, per perseguire fini illeciti e conseguire illeciti profitti.
La giurisprudenza della Sezione ha quindi enucleato – in modo sistematico a partire dalla sentenza n. 1743 del 3 maggio 2016 e con uno sforzo ‘tassativizzante’ – le situazioni indiziarie, tratte dalle indicazioni legislative o dalla casistica giurisprudenziale, che possono costituire altrettanti ‘indici’ o ‘spie’ dell’infiltrazione mafiosa, non senza precisare che esse, per la loro stessa necessaria formulazione aperta, costituiscono un catalogo aperto e non già un numerus clausus in modo da poter consentire all’ordinamento di poter contrastare efficacemente l’infiltrazione mafiosa all’interno dell’impresa via via che essa assume forme sempre nuove e sempre mutevoli. Basti qui ricordare a mo’ di esempio, nell’ambito di questa ormai consolidata e pur sempre perfettibile tipizzazione giurisprudenziale, le seguenti ipotesi, molte delle quali tipizzate, peraltro, in forma precisa e vincolata dal legislatore stesso: a) i provvedimenti “sfavorevoli” del giudice penale;b) le sentenze di proscioglimento o di assoluzione, da cui pure emergano valutazioni del giudice competente su fatti che, pur non superando la soglia della punibilità penale, sono però sintomatici della contaminazione mafiosa, nelle multiformi espressioni con le quali la continua evoluzione dei metodi mafiosi si manifesta;c) la proposta o il provvedimento di applicazione di taluna delle misure di prevenzione previste dallo stesso d.lgs. n. 159 del 2011;d) i rapporti di parentela, laddove assumano una intensità tale da far ritenere una conduzione familiare e una “regia collettiva” dell’impresa, nel quadro di usuali metodi mafiosi fondati sulla regia “clanica”, in cui il ricambio generazionale mai sfugge al “controllo immanente” della figura del patriarca, capofamiglia, ecc., a seconda dei casi;e) i contatti o i rapporti di frequentazione, conoscenza, colleganza, amicizia;f) le vicende anomale nella formale struttura dell’impresa;g) le vicende anomale nella concreta gestione dell’impresa, incluse le situazioni, recentemente evidenziate in pronunzie di questa Sezione, in cui la società compie attività di strumentale pubblico sostegno a iniziative, campagne, o simili, antimafia, antiusura, antiriciclaggio, allo scopo di mostrare un “volto di legalità” idoneo a stornare sospetti o elementi sostanziosi sintomatici della contaminazione mafiosa;h) la condivisione di un sistema di illegalità, volto ad ottenere i relativi “benefici”;i) l’inserimento in un contesto di illegalità o di abusivismo, in assenza di iniziative volte al ripristino della legalità.
3. Ciò preliminarmente chiarito, e tornando al caso sottoposto all’esame del Collegio è ben vero che alla base della interdittiva è solo la figura di -OMISSIS-, ma è anche vero che proprio attorno a tale figura si concentrano una serie di elementi, quali la vicinanza con soggetti controindicati nonché, attraverso questi e attraverso la figura della compagna convivente, il mondo dello spaccio di stupefacenti, nonché la vicinanza alla locale cosca mafiosa dei -OMISSIS-.
Poco rileva che -OMISSIS- non sia più l’amministratore unico della società.
Come insegna una costante giurisprudenza di questa Sezione (2 maggio 2019, n. 2855) alcune operazioni societarie possono disvelare una attitudine elusiva della normativa antimafia ove risultino in concreto inidonee a creare una netta cesura con la pregressa gestione subendone, anche inconsapevolmente, i tentativi di ingerenza (Cons. St., sez. III, 27 novembre 2018, n. 6707;7 marzo 2013, n. 1386).
Contrariamente a quanto afferma il giudice di primo grado, tale operazione, se collegata alla persona del -OMISSIS-, assume un significato pregnante, stante gli ulteriori elementi che rendono “più probabile che non” la sua cointeressenza con gli ambienti della criminalità organizzata.
Aggiungasi la rilevanza che assume la frequentazione con soggetti controindicati ai fini antimafia, tutt’altro che generica, essendo ben individuati nella nota della legione Carabinieri “Calabria”, Comando provinciale di Vibo Valentia del 20 marzo 2018 i nominativi e i carichi penali, almeno alcuni dei quali resistono alle contestazioni dell’appellata.
Privo di pregio il riferimento, contenuto nelle memorie dell’appellata, alla non attualità di alcuni episodi.
Come chiarito dalla Sezione (21 gennaio 2019, n. 515), il mero decorso del tempo, di per sé solo, non implica la perdita del requisito dell’attualità del tentativo di infiltrazione mafiosa e la conseguente decadenza delle vicende descritte in un atto interdittivo, né l’inutilizzabilità di queste ultime quale materiale istruttorio per un nuovo provvedimento, donde l’irrilevanza della ‘risalenza’ dei dati considerati ai fini della rimozione della disposta misura ostativa, occorrendo, piuttosto, che vi siano tanto fatti nuovi positivi quanto il loro consolidamento, così da far virare in modo irreversibile l'impresa dalla situazione negativa alla fuoriuscita definitiva dal cono d'ombra della mafiosità.
E’ evidente che il momento in cui l’interdittiva è adottata non fotografa l’inizio della vicinanza della società agli ambienti della criminalità organizzata, che possono trovare la loro genesi anche in epoca di gran lunga antecedente.
Non rileva neanche dove è ubicata la sede operativa della società (provincia di Mantova), essendo ben note le ramificazioni in tutta Italia della influenza della criminalità organizzata.
In conclusione, riprendendo quanto chiarito in ordine ad una visione complessiva degli elementi che la Prefettura ha posto a supporto del nuovo provvedimento interdittivo, la legittimità di quest’ultimo si fonda sul principio secondo cui i fatti valorizzati dal provvedimento prefettizio devono essere valutati non atomisticamente, ma in chiave unitaria, secondo il canone inferenziale – che è alla base della teoria della prova indiziaria - quae singula non prosunt, collecta iuvant, al fine di valutare l’esistenza o meno di un pericolo di una permeabilità della struttura imprenditoriale a possibili tentativi di infiltrazione da parte della criminalità organizzata, secondo la valutazione di tipo induttivo che la norma attributiva rimette al potere cautelare dell’amministrazione, il cui esercizio va scrutinato alla stregua della pacifica giurisprudenza di questa Sezione.
E’ proprio, dunque, la visione di insieme dei diversi fattori ed elementi istruttori che può consentire di coglierne l’esatta portata indiziaria, la quale viceversa rischierebbe di sfuggire ad una loro diagnosi ripartita e atomistica.
Tutti gli elementi richiamati nel provvedimento prefettizio dell’ottobre 2019, ove pure non assurgano – ognuno singolarmente – ad elementi di prova indiretta, costituiscono certamente un serio quadro indiziario sufficiente – secondo la regola dell’id quod plerumque accidit – a supportare l’interdittiva che, come è stato chiarito sub 2, ha finalità di prevenire una condotta penalmente rilevante e non di sanzionarla.
E’, infatti, di tutta evidenza come la ricostruzione delle possibili implicazioni rinvenienti dalla trama dei legami o dalle frequentazioni interpersonali, pur impingendo in elementi di fatto, è affidata a valutazioni di ordine logico presuntivo che inevitabilmente riflettono un margine di opinabilità in quanto si fondano sulla interpretazione di elementi di non univoca lettura e che, pur traendo alimento da modelli e comportamenti di vita tratti dalle regole di esperienza, vanno di volta in volta validati con riferimento al singolo caso concreto attraverso la disamina delle peculiari circostanze del contesto di riferimento, non sempre però agevolmente intelligibili.
Il quadro indiziario di forte pregnanza non è scalfito dai rilievi svolti dall’appellata che possono al più indebolire alcuni dei fatti richiamati dall’interdittiva ma non la visione di insieme dei diversi fattori ed elementi istruttori che può consentire di coglierne l’esatta portata indiziaria, la quale viceversa rischierebbe di sfuggire ad una loro diagnosi ripartita e atomistica.
E’ proprio la visione di insieme dei diversi fattori ed elementi istruttori che può consentire di coglierne l’esatta portata indiziaria, la quale viceversa rischierebbe di sfuggire ad una loro diagnosi ripartita e atomistica.
Dunque, il metodo della lettura organica e sistematica del quadro istruttorio presenta una indubbia valenza “euristica” - e non puramente descrittiva - laddove capace di far emergere, nella interpolazione di dati apparentemente spuri, una possibile trama di collegamenti e relazioni, fattuali o deduttive, capaci di illuminare la consistenza singola e complessiva degli elementi che compongono l’intero compendio probatorio.
4. In conclusione, per i suesposti motivi, l’appello va accolto e va, dunque, annullata la sentenza del Tar per la Calabria, sede di Catanzaro, sez. I, -OMISSIS-, che ha accolto il ricorso di primo grado.
Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo.