Consiglio di Stato, sez. V, sentenza 2010-08-02, n. 201005067

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Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. V, sentenza 2010-08-02, n. 201005067
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 201005067
Data del deposito : 2 agosto 2010
Fonte ufficiale :

Testo completo

N. 04911/2008 REG.RIC.

N. 05067/2010 REG.DEC.

N. 04911/2008 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Quinta)

ha pronunciato la presente

DECISIONE

Sul ricorso numero di registro generale 4911 del 2008, proposto da:
M N, rappresentato e difeso dall'avv. M C, con domicilio eletto presso Studio Cacace Igino Mestichelli Chiara in Roma, via Conca D'Oro, 278;

contro

Comune di Rieti, rappresentato e difeso dagli avv. D D, M P, con domicilio eletto presso Goffredo Gobbi in Roma, via Maria Cristina N. 8;

nei confronti di

Coreco Regione Lazio;

per la riforma

della sentenza del T.A.R. LAZIO - ROMA: SEZIONE II BIS n. 04695/2007, resa tra le parti, concernente RICONOSCIMENTO DIRITTO AL TRATTAMENTO ECONOMICO PER MANSIONI SUPERIORI SVOLTE.


Visto il ricorso in appello con i relativi allegati;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 20 aprile 2010 il Cons. Filoreto D'Agostino e uditi per le parti gli avvocati Chiarinelli, su delega dell' avv. Cari, e Gobbi, su delega degli avv.ti Duranti e Pedetta;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO

Con ricorso al Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, il signor Nazzareno Micheli rappresentava di essere stato assunto presso il Comune di Rieti con III livello e tuttavia, per carenze di organico e per esigenze di funzionamento dell’ente, di aver svolto in via continuativa mansioni diverse e superiori da quelle proprie della qualifica formale di appartenenza.

Esponeva, infatti, l’inadeguatezza della pianta organica del Comune risalente al 1957. Entrato in vigore il d.P.R. n. 347 del 1983, di approvazione dell’accordo nazionale di lavoro degli enti locali, con delibera della G.M. n. 390 del 1985, l’amministrazione comunale intendeva dar applicazione all’art. 40 del medesimo decreto, con riserva di provvedere successivamente ai singoli atti di inquadramento del personale. Tuttavia, il Co.re.co. approvava solo in parte la delibera e, precisamente, con riguardo alla parte relativa al c.d. inquadramento a regime. Sicchè il C.c. di Rieti, con delibera n. 898 del 1989 inquadrava con effetto dall’1.1.83 nella IV q.f., attribuendo il relativo trattamento economico. Tuttavia, il Co.re.co. annullava gli atti deliberativi comunali sotto i profili dell’eccesso di potere per mancanza dei presupposti ed errata applicazione dell’all. A del d.P.r. n. 347 cit.. L’amministrazione riproponeva l’inquadramento, che era nuovamente annullato in sede di esame di legittimità, per essere atto già esaminato ed annullato dal Co.re.co..

In questa situazione, però, il comune continuava ad adoperare l’attività lavorativa del dipendente in mansioni superiori alla qualifica di appartenenza e pari alla V q.f..

Il ricorrente proponeva pertanto, un giudizio in sede civile per il riconoscimento delle mansioni superiori, che si concludeva con pronunzia di difetto di giurisdizione (SS.UU., n. 10797 del 1994).

Successivamente, l’istante, insieme ad altri dipendenti chiedeva il riconoscimento dell’art. 3, comma 6 bis, della l. n. 537 del 1993 con decorrenza giuridica ed economica dal 1°.1.1983.

L’istanza era accolta dall’amministrazione, con delibera, che, tuttavia, anch’essa era annullata dall’organo di controllo. Ancora, il Co.re.co. invalidava il provvedimento ulteriore per illegittimità costituzionale del comma 6 menzionato, dichiarata con sent. n. 1 del 1996 dalla Corte costituzionale.

Solo in dat 20.11.1997, l’amministrazione, sulla base della nuova pianta organica, provvedeva all’indizione del concorso interno, cui conseguiva il riconoscimento della q.f. V al ricorrente, che tuttavia, chiedeva nuovamente all’amministrazione la corresponsione del trattamento economico asseritamene spettante per lo svolgimento delle mansioni superiori non contestate dall’amministrazione, con decorrenza dal 1983. In mancanza di un esito alla richiesta avanzata, l’istante esponeva di aver subito un danno patrimoniale quantificabile nella somma complessiva di lire 77.986.781 oltre accessori, chiedendo al giudice adito di:

- accertare lo svolgimento di mansioni di fatto rientranti nella superiore q.f. per il periodo sopra indicato;

- accertare l’illegittimità dell’operato della p.a.;

- dichiarare il diritto dello stesso a percepite le differenze retributive per il periodo di svolgimento delle superiori mansioni, oltre alle somme accessorie;

- condannare l’amministrazione al pagamento delle predette somme.

Pertanto, l’istante deduceva i seguenti motivi di ricorso:

1 – violazione dell’art. 31, d.P.R. n. 3 del 1957 e dell’art. 56, d.lgs. n. 29 del 1993 e succ. mod. sotto il profilo dell’illegittima adibizione del ricorrente a mansioni diverse dalla qualifica di appartenenza ed al di fuori di episodi che rivestano il carattere dell’eccezionalità;

2 – violazione dell’art. 40, d.P.R. n. 347 del 1983, avendo l’amministrazione, ritenuto erroneamente interpretando la norma menzionata, di poter sanare le anomalie della propria pianta organica attraverso l’applicazione del predetto art. 40;

3 – violazione e falsa applicazione degli artt. 97, comma 3° e 51 co. 1° Cost., art. 24 d.P.R. n. 347 del 1983, art. 72 comma 2° d.P.R. n. 268 del 1987, art. 50, d.P.R. n. 333 del 1990, art. 36, d.lg. n. 29 del 1993;

4 – violazione dell’art. 97 co. 1° Cost. per aver proceduto l’amministrazione al di fuori del principio costituzionale e della regola del buona andamento e dell’imparzialità ;

5 – violazione dell’art. 72, comma 4° d.P.R. n. 268 del 1987, dell’art. 50, d.P.R. n. 333 del 1990, dell’art. 56, d.lg. n. 29 del 1993, per aver violato, la p.a., il principio di retribuibilità delle mansioni superiori svolte dal ricorrente fissato per il pubblico impiego asseritamene dall’art. 72 co.4° menzionato e confermato dal successivo d.P.R. del 1990 ed ancora successivamente disciplinato dall’art. 56, d.lg. n. 29 del 1993, nel testo sostituito dall’art. 25 d.lg. n. 80 del 1998, poi modificato dall’art. 15, d.lg. n. 387 del 1998;

6 – violazione dell’art. 36 Cost., degli artt. 2103 e 2126 c.c. e dell’art. 33, d.P.R. n. 3 del 1957, spettando anche nel campo del lavoro pubblico, asseritamente il diritto alla retribuzione delle mansioni superiori svolte dal dipendente;

7 – violazione degli artt. 1218 e 1175 c.c. per inadempimento contrattuale della p.a. anche in relazione al ritardo nell’indizione delle procedure per la copertura di posti vacanti;

7 bis – violazione dell’art. 2043 c.c. sotto il profilo della responsabilità per danno da illecito extracontrattuale per omissione colposa e ritardo colposo delle procedure di copertura dei posti vacanti;

8 – violazione dell’art. 2041 c.c. per essersi l’amministrazione arricchita senza giusta causa della prestazione lavorativa del dipendente;

9 – eccesso di potere sotto i profili dello sviamento dell’atto dal fine e della disparità di trattamento, nonché dell’ingiustizia manifesta;

Si costituiva il comune, chiedendo il rigetto della domanda. In primo luogo, controdeduceva la carenza dei presupposti essenziali per addivenire al pagamento in difetto dell’impugnazione dei provvedimenti di annullamento adottati dal Co.re.co. ed ulteriormente per l’inapplicabilità nel pubblico impiego dei principi civilistici in materia di mansioni superiori. Ancora l’amministrazione contestava l’applicabilità nella specie degli artt. 1218 e 1175 c.c. in relazione all’inadempimento contrattuale, nonché dell’art. 2043 a titolo di responsabilità aquiliana, eccependo in merito anche il difetto di giurisdizione del giudice adito. Infine, controdeduceva l’inconferenza del richiamo all’istituto dell’indebito arricchimento, non essendovi stata alcuna diminuzione patrimoniale del dipendete. Da ultimo, in via subordinata, eccepiva l’intervenuta prescrizione.

Il Tribunale amministrativo regionale con la pronuncia su indicata respingeva il

ricorso e avverso tale sentenza è stato proposto appello.

DIRITTO

1. L’appello è infondato nel merito e va respinto (il che permette di prescindere dall’esame della prescrizione eccepita pure in secondo grado), dovendosi condividere l’orientamento dei primi giudici, che correttamente hanno disatteso la dedotta eccezione d’inammissibilità, dato che nel ricorso introduttivo erano state sostanzialmente condivise le ragioni addotte dall’organo di controllo a supporto dell’annullamento, mentre l’azionata pretesa patrimoniale risultava ancorata a presupposti diversi e distinti, compatibili con detto annullamento.

2. Quanto al diritto del dipendente allo svolgimento delle mansioni proprie della qualifica rivestita, tale principio vale a giustificare l’eventuale rifiuto del dipendente di svolgere mansioni diverse, ma da esso non può farsi derivare, in mancanza di disposizioni legislative o contrattuali in tal senso, anche il diritto alle relative differenze retributive nel caso in cui tali diverse mansioni vengano esercitate: il C.S., Ad. pl., con dec. 24/3/2006 n. 3, ha chiarito le problematiche ed i dubbi relativi alla retroattività delle norme introdotte dal 1993 in poi, ribadendo che al pubblico dipendente che abbia svolto mansioni superiori rispetto alla qualifica ricoperta, le differenze retributive spettano, in via generale, mancando in precedenza un’esplicita disposizione in tal senso, solo dal momento dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 387/1998.

La questione di diritto poggia sulla natura dell’art. 15, d.lgs. n. 387/1998, che ha modificato l’art. 56, comma 6, d.lgs. n. 29/1993, eliminando il riferimento alle differenze retributive, il cui diritto era rinviato al momento dell’entrata in vigore dei contratti collettivi nazionali di lavoro.

La cit. pronuncia ha ribadito che la norma non è retroattiva, così negando ogni riconoscimento economico al dipendente che abbia svolto mansioni superiori prima del 22/11/98 (data dell’entrata in vigore della modificazione di cui all’art 15, cit.), al contrario di quanto ritenuto da questa sezione V del Consiglio di Stato, con la decisione n. 2099 del 14 aprile 2006, per il periodo antecedente al d.lgs. n. 387/1998, che va pertanto rimeditata alla luce della giurisprudenza prevalente e costante nel tempo.

La qualifica, intesa come modalità formale ed astratta di classificazione del personale, in quanto derivazione di una pianta organica predefinita ed immodificabile con gli ordinari atti di gestione, rimane privilegiata rispetto alla considerazione dell’attività effettivamente svolta dal dipendente.

3. L’art. 56, d.lgs. n. 29/1993, prima della modificazione apportata nel 1998, imponeva di adibire il prestatore alle mansioni proprie della qualifica di appartenenza, per il perseguimento degli obiettivi di lavoro, per cui questi poteva essere adibito a compiti specifici non prevalenti della qualifica superiore, se richiesto dal dirigente, occasionalmente o ciclicamente.

L’art. 57, poi, precisava che l’assegnazione a mansioni immediatamente superiori era giustificata solo dalla vacanza del posto in organico o dalla necessità di sostituzione di altro dipendente assente o impedito.

Lo stesso art. 57 prevedeva un procedimento formale per l’assegnazione a mansioni superiori, che doveva essere disposta con provvedimento motivato dal dirigente preposto all’unità organizzativa, presso cui il dipendente prestava servizio;
tale atto poteva essere impugnato dal lavoratore che avesse ritenuto di non accettare le mansioni superiori (comma 3);
la norma precisava, altresì, che non costituiva esercizio di mansioni superiori “l’attribuzione di alcuni soltanto dei compiti propri delle mansioni stesse” (comma 4).

Solo la disciplina del 1998, pertanto, aveva riformulato la materia ammettendo uno jus variandi del datore di lavoro, nel processo di armonizzazione ed avvicinamento al settore privato, fissando, tuttavia, i casi in cui ciò poteva accadere.

Non può applicarsi, alla questione sottesa alla controversia in esame, l’art. 72, d.P.R. n. 268/1987, che si riferisce esclusivamente alle massime strutture organizzative dell’ente e non appare, dunque, compatibile con il caso in oggetto.

Per quanto, poi, riguarda l’illegittimità del comportamento tenuto dal comune, nel tentativo di riconoscere le mansioni di fatto ex art. 40, d.P.R. n. 347/1983, con atti poi annullati in sede di controllo, non può certamente trarsene la conseguenza che l’esercizio di mansioni superiori dia titolo al riconoscimento delle richieste differenze retributive.

4. Quanto all’omesso avvio delle procedure concorsuali, risulta dagli atti di causa che, all’epoca dell’adozione degli annullati provvedimenti applicativi del d.P.R. n. 347/1983, i relativi posti non erano previsti nella pianta organica dell’ente e non potevano, quindi, essere messi a concorso.

In particolare, risulta che alla data del 1°/1/1983, cui risalirebbe il contestato comportamento del comune di Rieti, doveva escludersi la sussistenza di vacanze organiche corrispondenti alle mansioni superiori in quel periodo attribuite a molti dipendenti, posto che le ragioni di tale situazione andavano ricercate nella “inadeguatezza della pianta organica del Comune stesso, formalmente ferma al 1957”: v. deliberazioni del luglio 1989, con le quali il Consiglio comunale, nel procedere all’inquadramento nella qualifica superiore ex art. 40, d.P.R. n. 347/1983, di una serie di dipendenti (v. deliberazioni successivamente annullate dal Comitato di controllo), affermava che la normativa contrattuale applicata per gli inquadramenti “attribuisce ... agli interessati una pretesa giuridica soggettiva che non ammette alcuna negativa incisione in funzione dell’attuale assetto della pianta organica”.

Né i pretesi posti vacanti potevano essere ricollegati alla mera evoluzione delle esigenze organizzative dell’ente, essendo di tutta evidenza che le variazioni della pianta organica, con la conseguente creazione di nuovi posti da ricoprire, non potevano prescindere da un formale provvedimento, adottato solo con le deliberazioni consiliari n. 165 del 12/11/1991 e nn. 136-137 del 3/11/1993, a seguito delle quali si erano potuti effettuare alcuni inquadramenti in qualifiche superiori e si erano indetti alcuni concorsi interni.

La giurisprudenza amministrativa ha ampiamente chiarito che la normativa previgente all’entrata in vigore del d.lgs. n. 387/1998 rifletteva la specialità del rapporto di pubblico impiego rispetto a quello privato, in ragione della natura indisponibile degli interessi pubblici coinvolti e della circostanza che l’attribuzione delle mansioni doveva trovare il presupposto indefettibile nel provvedimento di nomina o di inquadramento, non rientrando nella libera determinazione dei funzionari amministrativi.

5. A ciò si aggiunga che:

a) l’art. 36, Cost., non può trovare incondizionata applicazione nel pubblico impiego, perché enuncia solo un principio informatore della normativa in materia di retribuzione dei lavoratori, destinato al legislatore ordinario ed alla p.a., nell’esercizio del suo potere regolamentare, e da armonizzarsi con altri principi di pari rilevanza costituzionale, come quelli sanciti dagli artt. 97 e 98 (cfr. C.S., Ad. pl., dec. n. 22/1999);

b) l’art. 2126, c.c., che afferma il principio della retribuibilità del lavoro prestato in base ad un atto nullo o annullato, riguarda lo svolgimento di attività lavorativa da parte di chi non sia qualificabile come pubblico dipendente e, quindi, un fenomeno del tutto diverso (C.S., Ad. pl., dec. n. 22/1999, cit.);

c) l’art. 2103, c.c., è applicabile nel settore del pubblico impiego soltanto nei limiti previsti da norme speciali, trattandosi di disposizione di carattere supplementare ed integrativo (C.S., Ad. pl.., dec. n. 22/1999, cit.), fermo restando che avevano potuto conseguire efficacia solo gli inquadramenti (successivamente) disposti entro i limiti delle effettive vacanze organiche e che analogo limite valeva per i concorsi interni banditi a seguito della modificazione della pianta organica.

Donde il condivisibile rigetto del capo di domanda relativo alla prospettata responsabilità contrattuale della p.a., anch’essa ricollegata all’illegittima assegnazione di mansioni superiori ed al mancato avvio di procedure concorsuali per la copertura di pretesi posti vacanti, poiché una volta escluso, in base alla disciplina del rapporto di pubblico impiego, che lo svolgimento di mansioni superiori avesse rilevanza ai fini retributivi, non poteva configurarsi al riguardo un inadempimento degli obblighi contrattuali della p.a. nei confronti del dipendente.

6. Quanto, poi, all’ulteriore prospettazione dell’istanza risarcitoria da illecito extracontrattuale, va pure condivisa la rilevata l’infondatezza dell’eccezione di difetto di giurisdizione, sollevata dall’amministrazione resistente in primo grado.

Le norme introdotte dalla legge n. 205/2000 hanno attribuito alla giurisdizione amministrativa le controversie risarcitorie, indipendentemente dalla natura (contrattuale od aquiliana) della responsabilità, rilevando unicamente l’eventuale esistenza di un collegamento della pretesa con il rapporto affidato alla giurisdizione esclusiva (o con un provvedimento soggetto alla giurisdizione generale di legittimità: cfr. C.S., sez. V, dec. n. 5414/2002).

L’attuale appellante, pur invocando l’obbligo del neminem laedere, di cui all’art. 2043, c.c., ricollegava la propria pretesa non già alla violazione dei doveri della p.a.. verso la generalità dei cittadini, bensì alla lesione di una propria posizione giuridica soggettiva (diritto soggettivo o interesse legittimo), il cui momento genetico sarebbe individuabile nel rapporto di lavoro, trattandosi sempre del lamentato impiego del personale in mansioni superiori senza il tempestivo avvio delle procedure concorsuali per la copertura dei posti vacanti.

Nel merito, la domanda era palesemente infondata, attesa la sua genericità, oltre all’assenza di elementi di prova del danno asseritamente derivato dallo svolgimento di mansioni di livello superiore, cui si sarebbe potuto reagire con i rimedi anche giurisdizionali consentiti dall’ordinamento, mentre, per quanto riguarda la questione dei concorsi, oltre alla già rilevata insussistenza dei pretesi posti vacanti, la loro eventuale copertura era riservata all’apprezzamento discrezionale dell’amministrazione comunale, in relazione alle proprie esigenze organizzative e funzionali, senza alcuna contrapposta posizione soggettiva tutelata dei soggetti desiderosi di ricoprirli.

Infine, il diritto del pubblico dipendente al corrispettivo, per l’espletamento di mansioni superiori, non può fondarsi sull’ingiustificato arricchimento dell’amministrazione, atteso che l’esercizio (tanto più se invito domino, come deve sempre presumersi fino a prova contraria, nella specie assente) di mansioni superiori a quelle della qualifica rivestita, svolte durante l’ordinaria prestazione lavorativa, non risulta aver arrecato alcuna effettiva diminuzione patrimoniale ai danni del dipendente (art. 2041, c.c.: cfr. C.S., Ad. pl., dec. n. 12/2000).

Conclusivamente, l’appello principale va respinto, con salvezza dell’impugnata sentenza e declaratoria d’improcedibilità di quello incidentale del comune (che non ha più alcun interesse a coltivarlo), a spese ed onorari del secondo grado di giudizio interamente compensati per giusti motivi tra le parti costituitevi.

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