Consiglio di Stato, sez. VII, sentenza 2023-11-20, n. 202309913
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Testo completo
Pubblicato il 20/11/2023
N. 09913/2023REG.PROV.COLL.
N. 10404/2018 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Settima)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 10404 del 2018, proposto da:
R A, rappresentato e difeso dagli avvocati F T e S S, con domicilio digitale come da PEC dei Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio del primo difensore in Roma, largo Messico, 7;
contro
Commissione di garanzia dell’attuazione della legge sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali e Presidenza del Consiglio dei ministri, rappresentati e difesi dall’Avvocatura generale dello Stato, presso i cui uffici in Roma, via dei Portoghesi 12, sono domiciliati ex lege ;
Collegio dei Revisori dei Conti della Commissione di garanzia dell'attuazione della legge sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali, non costituito in giudizio;
per la riforma
della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Prima) n. 9328/2018.
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio della Presidenza del Consiglio dei ministri con la Commissione di garanzia dell’attuazione della legge sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali;
Visti tutti gli atti della causa;
Visto l'art. 87, comma 4 bis , c.p.a.;
Relatore il Cons. Laura Marzano;
Udito, all'udienza straordinaria del giorno 10 novembre 2023, in collegamento da remoto, l’avvocato S S per l’appellante;
Ritenuto e considerato in fatto e in diritto quanto segue.
FATTO e DIRITTO
1. L’appellante - già dirigente presso la Presidenza del Consiglio dei ministri con la qualifica di Consigliere – ha ricoperto la carica di Presidente della Commissione di garanzia dell’attuazione della legge sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali (di seguito: la Commissione) dal 21 novembre 2011 al 13 aprile 2016.
Con ricorso depositato avanti al TAR per il Lazio il ricorrente ha impugnato la nota n. 4732 dell’8 aprile 2015 con cui la Commissione, in esito a diverse richieste dell’interessato, ha disposto l’accantonamento in via cautelativa dei compensi eccedenti il limite del 25% del trattamento economico riconosciuto dall’amministrazione di appartenenza di cui all’art. 23 ter , comma 2, del decreto legge n. 201/2011, chiedendo l’annullamento della suddetta nota e la condanna dell’amministrazione al pagamento della differenza tra quanto corrisposto e quanto, a suo dire, effettivamente dovuto.
Il TAR adito, con sentenza n. 9328 del 13 settembre 2018, ha respinto il ricorso, sulla base delle motivazioni che seguono.
In primo luogo il primo giudice ha escluso che la carica presidenziale ricoperta dal ricorrente possa inquadrarsi nel novero delle funzioni di indirizzo politico-amministrativo, rientrando invece nella previsione del comma 2 dell’art. 23 ter citato, il quale stabilisce il limite del 25% solamente in relazione al personale chiamato “all’esercizio di funzioni direttive, dirigenziali o equiparate”.
Sul punto ha osservato che le Autorità amministrative indipendenti - nel cui genus deve ritenersi ricompresa la Commissione - si caratterizzano per la loro neutralità e indipendenza rispetto al potere politico.
Ha, inoltre, evidenziato che i compiti del Presidente, descritti nel Regolamento di organizzazione della Commissione, consistono in attività di indirizzo e controllo tipicamente annoverabili tra le mansioni di carattere direttivo.
In secondo luogo il TAR ha escluso qualsivoglia violazione del principio del legittimo affidamento di cui agli artt. 3, 117 Cost. e 6 CEDU.
Infatti l’art. 23 ter citato, nel prevedere, in via non retroattiva, un limite massimo alle retribuzioni di chi esercita pubbliche funzioni, ha inteso fronteggiare la crisi finanziaria dell’epoca, in ossequio ai principi di proporzionalità e ragionevolezza.
Infine ha respinto la censura di disparità di trattamento che esisterebbe tra i presidenti delle Autorità amministrative indipendenti citate dall’art. 7 del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 23 marzo 2012, a suo dire soggetti unicamente al limite massimo di cui al comma 1 dell’art. 23 ter, D.L. n. 201/2011, e il Presidente della Commissione, assoggettato invece al più deteriore regime di cui al comma 2 della stessa disposizione.
Sul punto il TAR ha sottolineato che il comma 2 dell’art. 23 ter trova applicazione con riguardo a tutti i titolari di incarichi di vertice delle Autorità amministrative indipendenti che conservino il trattamento retributivo dell’amministrazione di appartenenza.
Avverso l’indicata sentenza il ricorrente ha proposto appello, ritualmente notificato il 18 dicembre 2018, e depositato il successivo 20 dicembre.
Con il primo motivo l’appellante censura la sentenza nella parte in cui ha ritenuto che egli abbia svolto “funzioni direttive, dirigenziali o equiparate”.
In particolare sostiene che alla Presidenza della Commissione spettino unicamente funzioni di indirizzo politico-amministrativo, e che ricadano invece sul Segretario generale le funzioni direttive e gestorie dell’Autorità. Contesta quindi l’affermazione, contenuta nella sentenza di primo grado, secondo cui i poteri di controllo e di vigilanza in concreto spettanti al Presidente della Commissione sarebbero riconducibili alla più generale attività di direzione dell’ente.
Sottolinea inoltre che – contrariamente a quanto statuito dal TAR – la distinzione tra funzioni gestorie e di indirizzo politico esisterebbe anche all’interno delle Autorità amministrative indipendenti, come si evincerebbe dal parere del Consiglio di Stato dell’11 aprile 2013 (all. n. 17 al ricorso di primo grado).
Richiama anche il contenuto della delibera ANAC n. 144 del 7 ottobre 2014 la quale, nel circoscrivere gli obblighi di pubblicazione afferenti agli organi di indirizzo politico delle amministrazioni, annovera anche le Autorità indipendenti.
Con il secondo motivo deduce la violazione dei principi del legittimo affidamento e di certezza del diritto ex artt. 3, 117 cost. e 6 CEDU, per aver l’amministrazione illegittimamente decurtato l’indennità di spettanza dell’appellante in assenza di base legale.
Con il terzo motivo lamenta la violazione dell’art. 3 cost. sotto il profilo della disparità di trattamento che sussisterebbe tra il trattamento economico del Presidente della Commissione e i Presidenti delle altre Autorità amministrative indipendenti nominate dall’art. 7 DPCM 23 marzo 2012.
In sintesi sostiene che la disciplina di cui al citato art. 7 rappresenti una deroga ad hoc al regime previsto in via generale dal decreto legge n. 201/2011, sicché ai Presidenti delle Autorità amministrative indipendenti nominate dal DPCM citato sarebbe arbitrariamente consentita la percezione della totalità degli emolumenti spettanti, senza soggiacere al limite del 25 % di cui all’art. 23 ter comma 2, DL n. 201/2011.
La Commissione e la Presidenza del Consiglio dei ministri si sono costituite in appello con atto depositato il 29 gennaio 2019.
Con successiva memoria del 30 gennaio 2019 le amministrazioni appellate hanno svolto le seguenti argomentazioni difensive.
Quanto alla natura delle funzioni svolte dal Presidente della Commissione, si osserva che il peculiare ruolo delle Autorità indipendenti nel nostro ordinamento precluderebbe la possibilità di considerare il loro Presidente quale organo politico.
Circa l’asserito contrasto con gli artt. 3, 117 cost. e 6 CEDU, la parte appellata ribadisce che il contestato art. 23 ter ha introdotto un limite generalizzato, non retroattivo e non irragionevole, tenuto conto delle ineludibili esigenze di contenimento della spesa pubblica.
Infine, con riferimento all’invocata disparità di trattamento economico tra i Presidenti delle Autorità amministrative indipendenti, l’amministrazione condivide l’affermazione del TAR, secondo cui deve escludersi che l’art. 7 DPCM 23 marzo 2012 rappresenti un limite all’applicabilità dell’art. 23 ter , comma 2, DL n. 201/2011.
Con memoria depositata il 28 ottobre 2019 l’appellante ha riproposto e specificato in chiave critica, rispetto alle deduzioni avversarie, le medesime censure già oggetto dell’atto di appello, insistendo per l’accoglimento del gravame.
Con atto depositato il 23 marzo 2023 l’appellante si è costituito a mezzo di nuovo difensore affiancato al primo, cui ha conferito mandato disgiunto dallo stesso “ribadendo le ragioni di fatto e di diritto esposte nei precedenti scritti difensivi” e, con memoria del 6 ottobre 2023, ha articolato le seguenti ulteriori censure.
In primo luogo rappresenta che l’accantonamento delle somme eventualmente spettantigli era stato disposto dalla Commissione in attesa di “un definitivo chiarimento in ordine al corretto ambito soggettivo di applicazione della disciplina in materia di trattamenti economici”. Tuttavia, poiché tale chiarimento, nonostante siano trascorsi ormai 8 anni dall’emanazione del provvedimento di accantonamento, non sia mai intervenuto, sostiene che l’atto impugnato non possa qualificarsi come definitivo diniego alla sua istanza illo tempore presentata. All’esito di tale ricostruzione lamenta la violazione dell’art. 34, comma 2 c.p.a., in quanto la sentenza avrebbe pronunciato su poteri non ancora esercitati dall’amministrazione.
A seguire l’appellante prospetta una possibile illegittimità costituzionale dell’art. 23 ter comma 2, DL n. 201/2011 per violazione del principio di progressività nel prelievo fiscale ex art. 53 cost., dal momento che l’applicazione delle disposizioni ivi contenute, così come interpretate dall’amministrazione e dal TAR, si risolverebbe a suo dire in un vero e proprio prelievo tributario nei confronti dell’appellante qualificabile come “doppia imposizione interna”.
In via subordinata chiede anche la rimessione di una questione pregiudiziale alla Corte di