Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza 2015-03-31, n. 201501683

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Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza 2015-03-31, n. 201501683
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 201501683
Data del deposito : 31 marzo 2015
Fonte ufficiale :

Testo completo

N. 00041/2014 REG.RIC.

N. 01683/2015REG.PROV.COLL.

N. 00041/2014 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso in appello n. 41 del 2014, proposto da
Comune di Busto Arsizio, in persona del sindaco legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avv.ti D L e L M, ed elettivamente domiciliato presso quest’ultimo in Roma, via Confalonieri n. 5, come da mandato a margine del ricorso introduttivo;

contro

Immobiliare Gibrut di P G e Pli Alessandro s.n.c., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avv.ti C L S e A C, ed elettivamente domiciliata, unitamente ai difensori, presso lo studio Grez e associati in Roma, corso Vittorio Emanuele II n. 18, come da mandato a margine della comparsa di costituzione e risposta;

nei confronti di

Regione Lombardia, in persona del presidente legale rappresentante pro tempore, non costituita in giudizio;

per la riforma

della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia, sezione quarta, n. 1907 del 18 luglio 2013, resa tra le parti e concernente la condanna al risarcimento dei danni per illegittima apposizione del vincolo preordinato all'esproprio


Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visto l'atto di costituzione in giudizio di Immobiliare Gibrut Snc di P G e Pli Alessandro;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 13 gennaio 2015 il Cons. D S e uditi per le parti gli avvocati Lucchetti, Corselli e Scrosati;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO

Con ricorso iscritto al n. 41 del 2014, il Comune di Busto Arsizio propone appello avverso la sentenza del Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia, sezione quarta, n. 1907 del 18 luglio 2013, resa nel corso del giudizio iscritto al n. 1020 del 2001, con la quale è stata accolta l’istanza di condanna al risarcimento del danno formulata nel ricorso proposto da Immobiliare Gibrut di P G e Pli Alessandro s.n.c. per l'accertamento dell’illegittimità degli atti, provvedimenti e comportamenti delle amministrazioni intimate di imposizione di vincoli preordinati all’espropriazione o comportanti l’inedificabilità dell’area di proprietà della parte ricorrente, ovvero ostativi all’utilizzo della stessa, e di quelli collegati, in quanto presupposti e/o conseguenziali;
per il risarcimento del danno e l’indennizzo ex artt. 34 e 35 del d.lgs. n. 80/98, come modificato dalla legge n. 205/2000;
per la reintegrazione in forma specifica.

Dinanzi al giudice di prime cure, la società istante chiedeva, previa declaratoria della illegittimità dell’operato del Comune intimato per la reiterazione dei vincoli espropriativi apposti sull’area di sua proprietà, ostativi alla sua utilizzazione, nonché dell’inerzia posta in essere dal Comune a fronte dell’obbligo di pianificazione, la condanna della stessa al risarcimento del danno e alla corresponsione dell’indennizzo, nonché la reintegrazione in forma specifica, consistente nell’assegnazione alla P.A. di un termine per il riesame della destinazione impressa all’area, garantendo alla ricorrente la partecipazione al relativo procedimento di riesame, anche al fine della stipulazione di una convenzione per un’utilizzazione più proficua dell’immobile.

Si costituiva il comune di Busto Arsizio, che ha chiesto la reiezione del ricorso per infondatezza nel merito.

Con sentenza n. 3702/03 resa su altro ricorso in precedenza proposto dalla ricorrente, la sezione seconda del T.A.R. della Lombardia aveva ritenuto da una parte il vincolo apposto dalla nuova variante giustificato ed adeguatamente motivato, ma dall’altra aveva annullato il PRG in ragione dell’illegittimità del protrarsi dei vincoli, qualificati di natura espropriativa, per la mancata previsione di qualsivoglia indennizzo.

Con ricorso per motivi aggiunti la ricorrente aveva impugnato il provvedimento emesso dal Dirigente del Settore Urbanistico del comune di Busto Arsizio il 19 agosto 2004, con il quale l’amministrazione intimata, su istanza di nuovo azzonamento dell’area proposta dall’interessata ed in attesa dell’approvazione del nuovo strumento urbanistico generale, nonostante la pronuncia succitata, esplicitava l’operatività di una previsione ex lege di regolamentazione del comparto urbanistico, consistente nella disciplina di cui all’art. 4, ultimo comma, della legge n. 10/77, così come sostituito dall’art. 9, comma 1, lett. a), del d.P.R. n. 380/2001.

A sostegno del proprio ricorso l’istante aveva dedotto la violazione dell’art. 3 della legge n. 241/90 in relazione all’art. 7 della legge n. 1150/1942 e all’art. 2 della legge n. 1137/1968, della legge n. 10/77 e n. 1150/42 e della legge n. 1187/68, oltre all’eccesso di potere per difetto di motivazione e travisamento dei fatti, chiedendo nuovamente il risarcimento del danno e la reintegrazione in forma specifica.

Si costituiva il comune di Busto Arsizio, che eccepiva in via preliminare l’inammissibilità del ricorso per motivi aggiunti in relazione alla natura interna e ricognitiva del provvedimento oggetto di impugnazione, chiedendone, in ogni caso, la reiezione per infondatezza nel merito.

Il processo amministrativo veniva peraltro toccato da due diversi incidenti: per un verso, la ricorrente proponeva ricorso per regolamento di giurisdizione alle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, che, con ordinanza n. 4941/12 del 28 marzo 2012, qualificando come di natura sostanzialmente risarcitoria la pretesa vantata dalla ricorrente, dichiarava la giurisdizione del giudice amministrativo in relazione al presente gravame;
per altro verso, la stessa parte proponeva opposizione al decreto di perenzione, pronunciato in data 22 settembre 2011, ottenendone la revoca e la fissazione dell’udienza pubblica per la trattazione.

Dopo la presentazione di ulteriori memorie delle parti a sostegno delle rispettive difese, all’udienza pubblica del 18 aprile 2013 il ricorso veniva discusso e deciso con la sentenza appellata. In essa, il T.A.R. riteneva fondate le censure proposte, accogliendo quindi la domanda risarcitoria.

Contestando le statuizioni del primo giudice, la parte appellante evidenzia l’errata ricostruzione in fatto e in diritto operata dal giudice di prime cure, riproponendo le proprie difese.

Nel giudizio di appello, si è costituita la parte controinteressata, Immobiliare Gibrut di P G e Pli Alessandro s.n.c., chiedendo di dichiarare inammissibile o, in via gradata, rigettare il ricorso.

All’udienza del 4 febbraio 2014, l’istanza cautelare veniva accolta con ordinanza n. 543/2014.

Alla pubblica udienza del 13 gennaio 2015, il ricorso è stato discusso e assunto in decisione.

DIRITTO

1. - L’appello non è fondato e va respinto per i motivi di seguito precisati.

2. - La questione in scrutinio va complessivamente valutata sulla base delle diverse pronunce succedutesi nel tempo.

In primo luogo, deve prendersi l’avvio dalla sentenza del T.A.R. della Lombardia, sezione seconda, n. 3702 del 19 agosto 2003, resa su altro ricorso in precedenza proposto dall’attuale appellante, dove veniva richiesto l’annullamento in parte qua del PRG di Busto Arsizio, nella formulazione finale derivante dalla delibera regionale di approvazione n. VI/29298 del 12 giugno 1997. Dopo un lungo excursus ricostruttivo, il T.A.R. perveniva alla sua decisione, rigettando il ricorso nella parte in cui censurava l’illegittimità della reiterazione del vincolo e accogliendolo unicamente in merito alla mancata previsione di un indennizzo all’interno della stessa delibera in merito alla detta deliberazione.

La detta decisione dalla struttura bifasica (che attualmente non potrebbe essere più considerata conforme alla giurisprudenza prevalente, dopo la sentenza del Consiglio di Stato, ad.plen. n. 7 del 24 maggio 2007, in cui si è precisato che gli atti dei procedimenti di adozione e di approvazione di uno strumento urbanistico, contenente un vincolo preordinato all'esproprio, non devono prevedere la spettanza di un'indennità) evidenzia, da un lato, la correttezza della reiterazione del vincolo, cui consegue il diritto della parte a conseguire un indennizzo, ossia un ristoro per una attività conforme a legge, anche se lesiva, operata dalla PA e, dall’altro, un risarcimento del danno, derivante da un illecito dell’amministrazione, costituito dal non aver individuato nella delibera di approvazione del PRG l’indennizzo de qua.

Emerge così dalla decisione, ed è molto limpido, un doppio profilo di responsabilità dell’amministrazione, che si articola su canali differenti per fondamento e disciplina e, tra loro, non surrogabili: da un lato, la responsabilità per il fatto lecito della protrazione del vincolo e, dall’altro, la responsabilità aquiliana per il fatto illecito della mancata previsione dell’indennizzo. I titoli di responsabilità diversi corrispondono così a ragioni fondanti diverse e, in particolare, evidenziano come la domanda risarcitoria non possa sovrapporsi a quella indennitaria e ciò non solo per ragioni dogmatiche (questa presuppone un comportamento illecito mentre l’altra uno conforme a legge), ma anche per il rischio di sovrapposizione delle poste liquidabili (in concreto, lo stesso titolo, ossia l’indennizzo, potrebbe essere invocato in una domanda davanti al giudice civile per conseguire quella posta oppure davanti al giudice amministrativo per ottenere lo stesso indennizzo, ma questa volta come elemento del danno risarcibile).

Insomma, i due canali sono differenziati, per ragioni sistematiche e per ragioni pratiche, come quella di evitare una ingiusta locupletazione dei vantaggi, e non sovrapponibili tra loro. E se la previsione dell’indennizzo serve a ristorare il proprietario del vincolo apposto, l’indicazione di un ulteriore profilo risarcitorio deve quindi riferirsi a aspetti lesivi ulteriori, da questo diversi e autonomi, da dimostrare partitamente nella loro esistenza e entità.

La detta differenziazione è evincibile anche dalla pronuncia resa dalla Corte di Cassazione a Sezioni Unite nell’ordinanza n. 4981 del 2012 la quale, si badi bene, chiamata a pronunciarsi ad iniziativa dell’attuale appellata e sulla sola questione del riparto di giurisdizione, ha evidenziato come la società istante “non ha richiesto affatto l’indennizzo per la ‘reiterazione del vincolo’ F2/a sul suo terreno, costituente secondo la giurisprudenza di legittimità il fatto costitutivo del diritto suddetto, ma il risarcimento del danno per l’illegittima apposizione dello stesso nonché per il suo avvenuto annullamento, più volte (essendo stato in seguito nuovamente apposto) da parte del giudice amministrativo. Al quale d’altra parte non può essere sottratta neppure la richiesta di dichiarare illegittima l’inerzia del comune che malgrado apposita istanza non abbia provveduto alla ripianificazione della zona e dell’area gravata dal vincolo annullato: ben potendo il privato, ove vi abbia interesse, promuovere gli interventi sostitutivi della Regione, oppure reagire attraverso la procedura di messa in mora per far accertare l’illegittimità del silenzio;
ed in caso di persistente inerzia della P.A. potendosi configurare la lesione del bene della vita identificabile nell’interesse alla certezza circa la possibilità di razionale e adeguata utilizzazione della proprietà. Con conseguente facoltà di richiedere anche a questo titolo, il risarcimento del danno”.

La Suprema Corte, al fine di individuare i temi oggetto di contesa, ha così individuato in concreto le fattispecie da cui la parte deduceva l’esistenza di un danno, elencandole nelle voci del risarcimento del danno per l’illegittima apposizione del vincolo e del risarcimento per illegittima inerzia del Comune sulla ripianificazione della zona e dell’area gravata dal vincolo annullato. Trattandosi di fatti conseguenti all’azione amministrativa autoritativa, la Cassazione ha quindi radicato la giurisdizione presso il giudice amministrativo, senza peraltro, data la natura della sua pronuncia, indicare alcun elemento di fondatezza della pretesa, che va quindi valutata secondo gli ordinari criteri.

Conclusivamente, ritornata la decisione dinanzi al primo giudice, il T.A.R. avrebbe dovuto valutare: a) l’esistenza di un profilo risarcitorio dovuto alla illegittima reiterazione del vincolo (evenienza questa esclusa dalla sentenza dello stesso giudice n. 3702 del 19 agosto 2003);
b) la possibilità dogmatica che un fatto fonte d’indennizzo (ossia legittimo secondo la legge) fosse posto a base di una fattispecie aquiliana (che postula invece un fatto contra ius);
c) la sussistenza di altre diverse e autonome voci di danno, idonee a configurare quelle poste ulteriori, diverse da quella derivante dal mancato indennizzo, di cui parla l’ordinanza della Suprema Corte e che sono basate sulla pronuncia demolitoria del T.A.R. del 2003.

3. - Individuati i capisaldi argomentativi e prima ancora di vagliare i singoli motivi di appello, può ora passarsi all’esame della sentenza qui gravata, considerata sulla base della griglia argomentativa appena tracciata.

Nella sentenza in esame, i detti profili teorici appaiono messi in ombra. In concreto, il T.A.R. ha semplicemente affermato che “l’elemento del danno è, infatti, certamente sussistente, non avendo la società ricorrente ricevuto alcun indennizzo nonostante il protrarsi sull’area di sua proprietà sin dal 1975 di un vincolo di sostanziale natura espropriativa (così espressamente definito dalla succitata sentenza, passata in giudicato), più volte reiterato.” Per cui, secondo il primo giudice, danno e indennizzo diventano sostanzialmente assimilabili e, almeno dal punto di vista della quantificazione, fungibili.

Sebbene la Sezione esprima seri dubbi sulla correttezza di tale costruzione dogmatica, il decisum della sentenza va comunque confermato, atteso che, da un lato, i motivi di diritto dedotti attengono a profili diversi della decisione e si dimostrano tutti infondati e, dall’altro, l’entità del danno considerato risarcibile è stato fatto corrispondere dal primo giudice all’indennizzo comunque spettante, dando giustizia sostanziale ed evitando alla parte privata l’ulteriore onere di un altro giudizio dinanzi al giudice civile.

Residua ovviamente il pericolo della più volte citata locupletazione, che potrebbe determinarsi qualora venisse proposta una diversa azione dinanzi al giudice civile per il solo indennizzo, ma tale evento pare agevolmente fronteggiabile con le ordinarie eccezioni processuali, sulla base dell’effettivo soddisfo della pretesa privata.

4. - Inquadrato quindi il tema della questione sottoposta, i presupposti dati dalle pregresse decisioni e il concreto contenuto della sentenza del T.A.R., possono qui essere scrutinati i motivi di appello che, in relazione alla loro infondatezza, possono valutarsi sinteticamente.

4.1. - Con il primo motivo di diritto, articolato su più profili, si censura la sentenza per violazione e falsa applicazione dell’art. 2043 del cod.civ., eccesso di potere sotto vari profili, violazione del giusto procedimento e correttezza dell’azione amministrativa.

La parte censura la sentenza nella parte in cui ha ritenuto come fatto fonte di responsabilità aquiliana la mancata previsione di un indennizzo, evidenziando come “in realtà mancano totalmente i presupposti della ingiustizia del danno in quanto la destinazione urbanistica appare congrua, motivata e coerente con l’area, mentre la previsione economica relativa all’indennizzo, pur in modo generico, viene comunque indicata nella Relazione Economica “ (pag. 14 dell’atto di appello).

La doglianza è corretta ma irrilevante per incidere sulla valutabilità del percorso decisionale del giudice.

Come sopra evidenziato, era ed è del tutto scontato che la reiterazione del vincolo fosse stata legittima, come affermato dalla sentenza n. 3702 del 19 agosto 2003, e quindi potesse dare spazio solo ad un indennizzo. Ma il T.A.R. non ha affermato che spettasse un risarcimento per questo, ha invece ritenuto che il risarcimento richiesto dalla parte potesse comprendere anche il detto indennizzo. In altre parole, non vi è stata una diversa qualificazione del titolo (infatti, il T.A.R. afferma che l’elemento del danno è costitutito dal non avere “la società ricorrente ricevuto alcun indennizzo”), solo che il primo giudice ha ritenuto che l’indennizzo potesse essere inglobato, come elemento costitutivo, nella domanda genericamente risarcitoria sulla quale era stato chiamato a pronunciarsi a seguito dell’ordinanza della Corte di Cassazione, sez. un., n. 4981 del 2012. La censura proposta non intacca quindi la ragione sostenuta dal primo giudice, agendo su un profilo, ossia la natura del fatto indennitario, su cui questi non si è pronunciato.

Per altro verso, non è neppure fondata la questione dell’asserita assenza di colpa dell’amministrazione, in quanto la corresponsione di un indennizzo per la reiterazione di un vincolo è dato consolidato dello statuto della proprietà, quanto meno a far data dalla sentenza della Corte costituzionale 20 maggio 1999, n. 179. L’inescusabilità dello scostamento tra il comportamento esigibile in capo alla PA e quello effettivamente tenuto rende del tutto palese l’esistenza del requisito della colpa (sulla possibilità di elementi scusanti in favore dell’amministrazione, qui non sussistenti, vedi Consiglio di Stato, sez. VI, 14 novembre 2014 n. 5600 che li identifica nell’esistenza di: a) contrasti giurisprudenziali sull'interpretazione di una norma;
b) una formulazione incerta di norme da poco entrate in vigore;
c) una rilevante complessità del fatto;
d) una illegittimità derivante da una successiva dichiarazione di incostituzionalità della norma applicata).

4.2. - Con il secondo motivo di diritto, anch’esso articolato su più profili, si censura la sentenza in relazione alla idoneità e coerenza della motivazione relativa alla destinazione urbanistica.

Si tratta, come evidenziato sopra, di un argomento inconferente, atteso che la sentenza non ha considerato illegittima la reiterazione del vincolo espropriativa, ma ha ritenuto il solo indennizzo come elemento idoneo per la quantificazione del danno subito.

4.3. - Con il terzo motivo di diritto si lamenta la violazione e falsa applicazione della legge, in relaione al principio processuale della domanda di cui all’art. 112 c.p.c..

Il motivo è infondato, atteso che, stante la natura di diritto soggettivo del richiesto risarcimento del danno, la domanda ben poteva essere introdotta con una diversa domanda e con motivi aggiunti nel corso dello stesso processo.

Del tutto inconferenti sono invece le valutazioni sull’operato del T.A.R. in relazione alla sentenza n. 3702 del 19 agosto 2003, trattandosi di decisione coperta dal giudicato.

4.4. - Infondato è anche il quarto motivo di diritto, dove si lamenta l’eccesso di potere per indeterminatezza dei calcoli dell’indennizzo, atteso che il T.A.R., equiparando il risarcimento dovuto all’indennizzo che il Comune avrebbe dovuto corrispondere, ha fatto riferimento alle previsioni normative in materia, per cui la invocata indeterminatezza è sciolta per relationem alla disciplina di rango primario applicabile.

4.5. - Irrilevante è anche il quinto motivo di diritto, sulla natura dei vincoli de qua, atteso che anche tale statuizione risulta coperta del giudicato, derivando dalla più volte evocata sentenza n. 3702 del 19 agosto 2003.

5. - Le questioni appena vagliate esauriscono la vicenda sottoposta alla Sezione, essendo stati toccati tutti gli aspetti rilevanti a norma dell’art. 112 c.p.c., in aderenza al principio sostanziale di corrispondenza tra il chiesto e pronunciato (come chiarito dalla giurisprudenza costante, ex plurimis, per le affermazioni più risalenti, Cassazione civile, sez. II, 22 marzo 1995 n. 3260 e, per quelle più recenti, Cassazione civile, sez. V, 16 maggio 2012 n. 7663). Gli argomenti di doglianza non espressamente esaminati sono stati dal Collegio ritenuti non rilevanti ai fini della decisione e comunque inidonei a supportare una conclusione di tipo diverso.

6. - L’appello va quindi respinto. Le spese processuali seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.

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