Consiglio di Stato, sez. V, sentenza 2010-08-10, n. 201005568

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Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. V, sentenza 2010-08-10, n. 201005568
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 201005568
Data del deposito : 10 agosto 2010
Fonte ufficiale :

Testo completo

N. 08491/2006 REG.RIC.

N. 05568/2010 REG.DEC.

N. 08491/2006 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Quinta)

ha pronunciato la presente

DECISIONE

sul ricorso n. 8491/2006, proposto da:
M R, rappresentato e difeso dall'avv. N V, con domicilio eletto presso Luca Fiormonte in Roma, via Bafile 5;

contro

Asl 1 Avezzano Sulmona, rappresentata e difesa dall'avv. T M, con domicilio eletto presso lo studio del Prof. Avv. M S in Roma, viale Parioli, 180;

per la riforma

della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per l’Abruzzo n. 215/2006.


Visto il ricorso in appello con i relativi allegati;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 11 maggio 2010 il Cons. Marco Lipari e uditi per le parti gli avvocati Veninata e Marchese;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO e DIRITTO

La sentenza impugnata ha respinto il ricorso proposto dall’attuale appellante per l’annullamento dei seguenti provvedimenti, adottati dalla Azienda Unità Sanitaria Locale di Avezzano-Sulmona:

- lettera del 1 agosto 2000, n. 114 D.G;

- deliberazione del direttore generale n. 508 del 22 giugno 1999, limitatamente alla posizione del ricorrente;

- deliberazione del direttore generale n. 142 del 27 marzo 1997.

La sentenza appellata ha respinto altresì le domande dirette ad ottenere l’accertamento del diritto del ricorrente a vedersi computati tutti gli anni di servizio, compreso il periodo di sospensione cautelare, al fine della ricostruzione della carriera, e, per la condanna dell’amministrazione al pagamento di tutti gli emolumenti a lui dovuti per il periodo di sospensione cautelare dal servizio, oltre ad interessi legali e rivalutazione monetaria.

L’appellante ripropone le censure disattese dal tribunale.

L’amministrazione resiste al gravame e richiama tutte le eccezioni preliminari non esaminate dal TAR, deducendo anche l’inammissibilità dell’appello.

In linea di fatto, va premesso che l’appellante è dipendente della Azienda Sanitaria Locale di Avezzano - Sulmona, a far data dal 1973, con la qualifica di assistente tecnico, presso l’Ospedale di Avezzano;

Con deliberazione del Comitato di gestione dell’Ospedale di Avezzano n. 9328 del 17.10.1978, l’appellante era sospeso cautelarmente dal servizio, poiché tratto in arresto in seguito all’esecuzione di provvedimento restrittivo della libertà personale adottato dall’Autorità Giudiziaria.

Successivamente, l’appellante era condannato per il reato di frode in pubbliche forniture, con sentenza divenuta definitiva in seguito alla decisione della Corte di Cassazione del 3 aprile 1986.

L’azienda sanitaria avviava il procedimento disciplinare.

Tuttavia, con deliberazione del 14.5.1987, n. 966, l’amministrazione resistente, annullava il suo deferimento alla Commissione di disciplina, disponeva la revoca della sospensione cautelare e provvedeva alla reintegrazione in servizio dell’interessato, “con decorrenza immediata”.

Con nota del 12 luglio 1999, l’interessato chiedeva alla A.U.S.L. resistente di rivalutare la sua posizione nella graduatoria di cui all’art. 45 del vigente C.C.N.L. del comparto sanità, approvata con deliberazione n. 508 del 22.6.1999, lamentando l’omessa valutazione del periodo nel quale egli era stato sospeso cautelarmente dal servizio, dal 17.10.1978 al 22.05.1987.

L’Azienda sanitaria, con nota del 1° agosto 2000, prot. n. 114/D.G., impugnata in primo grado, confermava la posizione nella graduatoria attribuita all’attuale appellante, richiamando le deliberazioni nn. 28/P del 17.10.1978 e n. 966 del 14.5.1987.

La sentenza appellata ha respinto il ricorso, svolgendo la seguente motivazione.

“ il Collegio, ritenendo di poter prescindere dalle opposte eccezioni pregiudiziali, non può che rilevare l’infondatezza della pretesa attorea;

- che, per tabulas, è dato rilevare che il ricorrente dipendente di ruolo dell’intimata A.U.S.L. con provvedimento n. 28 del 17.10.1978 è stato obbligatoriamente sospeso dal servizio con effetto immediato in quanto sottoposto a misura restrittiva della sua libertà personale ad opera dell’Autorità giudiziaria competente;

- che, all’esito del susseguente procedimento penale, il ricorrente è stato definitivamente condannato per il reato di frode in pubbliche forniture con sentenza del Tribunale di Avezzano del 17.2.1983, confermata in appello nonché divenuta definitiva a seguito di sentenza della Corte Suprema di Cassazione del 3.4.1986;

- che l’Amministrazione sanitaria, con deliberazione del Comitato di gestione n. 966 del 14.5.1987, ha annullato deferimento dell’odierno ricorrente per non essere stato il procedimento disciplinare iniziato tempestivamente entro il termine di centottanta giorni dalla data in cui la sentenza è divenuta irrevocabile;

- che secondo la tesi di parte ricorrente, ai sensi dell’art. 97 del D.P.R. n. 3 del 1957, l’omesso inizio da parte dell’Amministrazione del procedimento disciplinare entro il termine di centottanta giorni dal termine in cui la sentenza penale è divenuta irrevocabile, nonché l’adozione della deliberazione n. 966 del 15.5.1987 con la quale è stato annullato il suo deferimento alla Commissione di disciplina e disposta la sua reintegrazione in servizio, giustificherebbe la pretesa della stessa alla ricostruzione della carriera con la restitutio in integrum sotto il profilo economico-retributivo;

- che, al fine del decidere, giova rilevare che, ai sensi dell’art. 91 del D.P.R. n. 3 del 1957, l’impiegato sottoposto a procedimento penale può essere sospeso dal servizio quando la natura del reato sia particolarmente grave, mentre deve essere sospeso, come nel caso di specie (provvedimento n. 28/P del 1978), allorquando sia destinatario di misure restrittive della libertà personale;

- che, a norma dell’art. 97 del succitato regolamento, la sospensione cautelare che sia stata disposta in dipendenza di procedimento penale che si concluda con sentenza di proscioglimento o di assoluzione è revocata con conseguente diritto dell’imputato a godere di tutti gli assegni non percepiti, escluse le indennità, le prestazioni per lavoro straordinario, salva deduzione dell’assegno alimentare percepito nel corso del periodo di sospensione;
che nel caso in cui il procedimento penale si concluda con sentenza di proscioglimento o di assoluzione passata in giudicato per motivi differenti da quelli di cui al comma 1 del citato art. 97, la sospensione può essere mantenuta qualora venga iniziato apposito procedimento disciplinare, entro il termine di centottanta giorni dalla data in cui la sentenza sia divenuta irrevocabile;

- che non appare normativamente disciplinata l’ipotesi in cui il dipendente, sospeso ex art. 91 del D.P.R. n. 3 del 1957, sia destinatario, come nella fattispecie in esame, di sentenza definitiva di condanna;

- che il Collegio da un esame sistematico delle disposizioni innanzi menzionate ritiene che, in ipotesi di sospensione cautelare dal servizio connessa alla pendenza di un procedimento penale, la misura sospensiva ed i relativi effetti devono considerarsi sussistenti anche nel caso in cui la P.A. non abbia dato inizio al procedimento disciplinare, limitatamente all’ipotesi che il dipendente sia destinatario di una sentenza penale di condanna, nel caso di specie passata in giudicato;

- che, pertanto, ad avviso del Tribunale il dipendente sospeso cautelarmente dal servizio ha diritto ad una restitutio in integrum delle sostanze non percepite limitatamente al caso in cui sia destinatario, ex art. 97, comma 1, del succitato regolamento, di una sentenza di proscioglimento e di assoluzione passata in giudicato perché il fatto non sussiste o perché l’impiegato non lo ha commesso;
che, pertanto la sentenza di condanna del pubblico dipendente, anche quando non scontata, determina l’interruzione del rapporto di lavoro per fatto imputabile allo stesso, con conseguente insussistenza dei presupposti, peraltro ex lege definiti, idonei a giustificare il ripristino dello status quo ante dell’impiegato a suo tempo sospeso”.

L’appellante, con l’atto di impugnazione della sentenza di primo grado, deduce la violazione degli articoli 96 e 97 del D.P.R. n. 3/1957, richiamando anche i principi interpretativi espressi dall’Adunanza Plenaria 16 giugno 1999, n. 15, secondo la quale “Nei confronti del dipendente pubblico, condannato in sede penale dopo essere stato sospeso cautelarmente per pendenze di tale procedimento, il periodo di sospensione cautelare deve essere computato nella sospensione sanzionatoria irrogata in esito al procedimento disciplinare successivo alla condanna penale ed inoltre la ricostruzione della posizione giuridica ed economica per il periodo di sospensione cautelare è possibile, nonostante l'intervenuta condanna definitiva, previa deduzione dei periodi corrispondenti alla condanna penale inflitta, ancorché non scontata per eventuale sospensione condizionale della pena”.

Come eccepito dall’amministrazione intimata, peraltro, si tratta di una censura del tutto nuova, proposta per la prima volta in grado di appello, che introduce una questione non riferibile alle domande proposte in primo grado.

Con il ricorso introduttivo del giudizio dinanzi al tribunale, l’interessato si era limitato a menzionare gli atti adottati dall’amministrazione e a chiedere il riconoscimento, anche ai fini retributivi, del periodo della sospensione cautelare dal servizio.

Sotto questo aspetto, quindi, a dire dell’amministrazione appellata, il ricorso di primo grado risulterebbe comunque generico e del tutto indeterminato nella individuazione dei suoi esatti presupposti giuridici.

Anche prescindendo dai prospettati dubbi di genericità, la domanda proposta dinanzi al tribunale si basa unicamente sull’affermazione secondo cui “con il provvedimento di riassunzione, la USL ha posto in essere una chiara volontà non solo di non perseguire disciplinarmente il soggetto, ma anche di togliere qualsiasi valore e consistenza giuridica al provvedimento cautelare”.

Dunque, la domanda dell’appellante, proposta in primo grado, si basa unicamente sull’asserzione secondo cui l’amministrazione, in sede di autotutela, avrebbe stabilito di elidere ogni conseguenza giuridica della precedente sospensione cautelare, ripristinando, con efficacia retroattiva, il rapporto di servizio sospeso.

Il motivo è privo di pregio, poiché, contrariamente a quanto ritenuto dall’appellante, l’indicata determinazione della USL, per il suo significato letterale e per la sua evidente finalità era chiaramente rivolta a determinare solo la cessazione dello stato di sospensione e a provocare la riammissione in servizio del dipendente.

Nell’atto è assente qualsiasi riferimento all’intento di operare la ricostruzione della carriera o alla volontà di cancellare qualsiasi effetto giuridico della sospensione cautelare, anche in via retroattiva.

L’atto del 1987, infatti, è espressamente qualificato quale “revoca” (e non già come “annullamento” come erroneamente affermato dal TAR).

Si tratta di una terminologia che indica la normale decorrenza non retroattiva degli effetti dell’atto di autotutela, come si può evincere, sul piano sistematico, anche dalla disciplina dell’articolo 21-quinquies della legge n. 241/1990 (“La revoca – riferita al solo provvedimento amministrativo ad efficacia durevole - determina la inidoneità del provvedimento revocato a produrre ulteriori effetti”).

In questa parte, quindi, il Collegio ritiene di non condividere l’affermazione svolta dalla precedente decisione della Sezione n. 185/1994, richiamata in primo grado dall’attuale appellante, concernente altro dipendente della stessa amministrazione sanitaria, anch’egli riammesso in servizio in seguito alla “revoca” della sospensione cautelare.

Infatti, la delibera di riammissione, nel disporre la “revoca” del provvedimento di sospensione cautelare precedentemente adottato, non indica affatto la portata retroattiva degli effetti. Al contrario, la stessa delibera stabilisce che la reintegrazione in servizio ha “decorrenza immediata”, lasciando chiaramente intendere che essa è destinata ad operare per il futuro, mediante il ripristino del rapporto di impiego sospeso.

Va osservato, poi, che la censura articolata in primo grado non contiene alcun riferimento alla possibile violazione delle norme di cui agli articoli 96 e 97 del testo unico degli impiegati civili dello Stato, né svolge alcuna argomentazione giuridica riconducibile ai principi espressi dall’Adunanza Plenaria n. 15/1999 o dalla giurisprudenza conforme a tale decisione.

Infatti, il ricorso di primo grado non sostiene affatto che, anche in caso di condanna, il dipendente abbia diritto alla ricostruzione della carriera riguardante il periodo di sospensione dal servizio, ma si basa unicamente sull’errato assunto che l’amministrazione sanitaria, di propria iniziativa, avrebbe inteso privare di effetti la precedente determinazione riguardante la sospensione del servizio.

Pertanto, le nuove deduzioni difensive prospettate dall’appellante in questo grado di giudizio, determinano un mutamento sostanziale della domanda, con la conseguente inammissibilità dell’appello, ai sensi dell’articolo 345 del codice di procedura civile.


Va osservato, poi, che le censure articolate in primo grado, oltre ad essere infondate nel merito, non risultano riproposte in questo grado di giudizio, posto che l’appello risulta affidato, integralmente, solo alla asserita violazione degli articoli 96 e 97 del testo unico degli impiegati civile dello Stato.

In ogni caso, il collegio ritiene che sia evidente l’inammissibilità e la tardività del ricorso di primo grado.

Infatti, l’atto del 1 agosto 2000, adottato dall’amministrazione appellata, risulta meramente confermativo delle precedenti determinazioni relative all’applicazione dell’articolo 45 del contratto collettivo, riguardanti la formazione delle graduatorie dei dipendenti.

Tale atto, a sua volta, si collega allo status giuridico ed economico del dipendente, definito, autoritativamente, attraverso il provvedimento di riammissione in servizio e le successive determinazioni dell’amministrazioni.

È appena il caso di osservare, al riguardo, che gli atti del 1987, concernenti la posizione dell’appellante, sono stati adottati nel vigore della disciplina pubblicistica del rapporto di lavoro dei dipendenti.

Pertanto, l’interessato avrebbe dovuto impugnare tempestivamente le determinazioni ritenute sfavorevoli, ma ormai divenute inoppugnabili, nella parte in cui la riammissione in servizio non è stata accompagnata dalla rivendicata restitutio in integrum, correlata alla cessazione degli effetti della sospensione cautelare.

Al riguardo, la Sezione ritiene di confermare il consolidato indirizzo interpretativo, secondo cui va dichiarata inammissibile la domanda del pubblico dipendente volta all'accertamento ed alla declaratoria del diritto alla ricostruzione giuridica ed economica della carriera e dell'inquadramento in difetto della tempestiva impugnazione dell'atto autoritativo con cui è stata determinata la contestata posizione retributiva, a nulla rilevando che il provvedimento possa considerarsi espressione di attività vincolata, avendo nondimeno esso carattere autoritativo, impugnabile esclusivamente nell'ordinario termine di decadenza di cui all'art. 21 l. 6 dicembre 1971 n. 1034 (Consiglio Stato, sez. IV, 25 marzo 2005 , n. 1283).

In ogni caso, poi, anche prescindendo dalla prescrizione delle domande a contenuto patrimoniale prospettabili dall’amministrazione appellata, la domanda dell’appellante deve ritenersi tardiva e inammissibile anche se fosse ritenuta riconducibile al disposto dell'art. 9 comma 2 secondo e terzo periodo l. n. 19 del 1990. Tale normativa prevede che "quando vi sia stata sospensione cautelare dal servizio a causa del procedimento penale, la stessa conserva efficacia, se non revocata, per un periodo di tempo comunque non superiore ad anni cinque. Decorso tale termine la sospensione cautelare è revocata di diritto".

Infatti, la norma richiamata è entrata in vigore dopo la cessazione dello stato di sospensione cautelare dell’interessato e, pertanto, non risulta idonea a regolare la fattispecie in questione.

In definitiva, quindi, per le motivazioni indicate, la sentenza appellata deve essere confermata.

Le spese dei due gradi possono essere compensate.

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