Consiglio di Stato, sez. V, sentenza 2010-05-10, n. 201002758

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Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. V, sentenza 2010-05-10, n. 201002758
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 201002758
Data del deposito : 10 maggio 2010
Fonte ufficiale :

Testo completo

N. 07297/2009 REG.RIC.

N. 02758/2010 REG.DEC.

N. 07297/2009 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Quinta)

ha pronunciato la presente

DECISIONE

Sul ricorso numero di registro generale 7297 del 2009, proposto da:
M S, rappresentato e difeso dall'avv. L A, con domicilio eletto presso L A in Roma, via della Scrofa 47;

contro

Comune di Roma, rappresentato e difeso dall'R R, domiciliata per legge in Roma, via del Tempio di Giove,21;

per la riforma

della sentenza del T.A.R. LAZIO - ROMA: SEZIONE II TER n. 06571/2009, resa tra le parti, concernente della sentenza del T.A.R. LAZIO - ROMA: SEZIONE II TER n. 06571/2009, resa tra le parti, concernente DINIEGO PROSECUZIONE ATTIVITA' DI VENDITA..


Visto il ricorso in appello con i relativi allegati;

Visto l'atto di costituzione in giudizio di Comune di Roma;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 19 gennaio 2010 il dott. F C e uditi per le parti gli avvocati gli avv.ti Anelli e Rocchi;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue:


FATTO

Con atto stragiudiziale del 16.9.2008 la società a responsabilità limitata Maxsim comunicava al Municipio I-Centro Storico del Comune di Roma il trasferimento della propria attività commerciale da via delle Quattro Fontane n. 38 a via Nazionale n. 71.

Con determinazione dirigenziale del successivo 22 settembre il Comune comunicava, ai sensi dell’art. 10 bis della legge 7 agosto 1990 n. 241, preavviso di diniego al trasferimento dell’esercizio, con la motivazione che nei locali di via Nazionale n. 71 fino al 5.7.2006 era svolta un’attività di vendita (libreria) tutelata ai sensi dell’art. 6, comma 1, lett. d), della delibera 6.2.2006 n. 36 del Consiglio Comunale. A tale preavviso faceva seguito il provvedimento del 3 novembre 2008, n. 2743, con il quale il Comune, aveva fatto divieto alla Maxsim s.r.l. di proseguire l’attività di vendita nel locale di via Nazionale n. 71.

Con la sentenza appellata i Primi Giudici hanno respinto il ricorso, integrato da successivi motivi aggiunti, proposto dalla società avverso la determinazione in parola ed il paiano comunale a monte. .

Maxim s.r.l, propone appello con il quale contesta gli argomenti posti a fondamento del decisum.

Resiste il Comune di Roma.

Le parti hanno affidato al deposito di apposite memorie l’ulteriore illustrazione delle rispettive tesi difensive.

All’udienza del 19 gennaio 2010 la causa è stata trattenuta per la decisione.

DIRITTO

1. Viene in discussione la legittimità degli atti con il quale il Comune di Roma si è negativamente pronunciato sulla comunicazione del 16.9.2008 con la quale la società a responsabilità limitata Maxsim aveva comunicato al Municipio I-Centro Storico del Comune di Roma il trasferimento della propria attività commerciale da via delle Quattro Fontane n. 38 a via Nazionale n. 71.

2. Con il primo motivo di ricorso parte appellante torna a ribadire la tesi secondo cui, in ordine alla comunicazione di trasferimento dell’esercizio commerciale, si sarebbe formato il silenzio assenso a seguito dell’infruttuoso spirare del termine di trenta giorni di cui al primo comma dell’art. 7 del D.Lgs. 31.3.1998 n. 114, con la conseguente invalidità della determinazione negativa tardivamente intervenuta.

Il motivo non è fondato

Giova premettere che, mentre per le domande di trasferimento di sede delle medie e delle grandi strutture di vendita è contemplato l’istituto del silenzio assenso per la conclusione dell’iter procedurale amministrativo di valutazione (artt. 8 e 9 u.c. del D.Lgs. n. 114/1998), il trasferimento degli esercizi di vicinato nonché l’apertura e l’ampliamento di superficie dei medesimi sono subordinati alla sola comunicazione del gestore all’amministrazione locale e possono avere luogo decorsi i entro trenta giorni dalla stessa (art. 7, comma 1).

Nella specie, prima del decorso del termine stabilito dalla legge, è intervenuta la tempestiva nota comunale del 22.9.2008 recante una puntuale indicazione delle regioni ostanti all’intrapresa dell’attività denunciata. Detta nota, per un verso, ha interrotto i termini per la definizione del procedimento, alla stregua della regola sottesa all’art. 10 bis della legge n. 241/1990l, estensibile, per idenità di ratio, anche alla fattispecie della denuncia di inizio attività oltre che al silenzio assenso;
sotto altro, assorbente, profilo,ha impedito la maturazione del legittimo affidamento in ordine alla possibilità di esercitare l’attività comunicata. Ne deriva, alla stregua di tali considerazioni, che, con il provvedimento adottato il successivo 3 novembre, l’amministrazione comunale ha fatto uso del generale potere di controllo concessole dall’ordinamento giuridico sulle attività denunciate, senza incontrare i limiti che derivano, sul piano di una puntuale valutazione comparativa degli interessi in gioco, dalla maturazione sdi un affidamento legittimo in base ai principi comunitari oggi recepiti dall’art. 1, comma 1, della legge n. 241/1990, alla luce delle modifiche apportate dall’art. 21, comma 1, lett. a, della legge 11 febbraio 2005, n, 15.

3. Sono altresì infondate le censure di ordine sostanziale, suscettibili di esame unitario alla luce della stretta connessione che avvince i vari profili di doglianza.

Assume valore dirimente la considerazione che il provvedimento negativo finale, al pari del preavviso che lo ha preparato, costituisce applicazione vincolata della deliberazione del Consiglio comunale n. 36 del 6 febbraio 2006, e successive modifiche, che, all’art. 6, comma 2 - recante un piano di tutela di alcune attività tradizionali per la città storica, suddiviso a sua volta in tessuti territoriali, zone di rispetto e zone omogenee - che consente, in caso di cessazione delle attività tutelate nelle zone localizzate nel Municipio Roma 1, la sola attivazione, per l’arco temporale di cinque anni, di una o più delle medesime attività appartenenti al medesimo settore alimentare o non alimentare.

Detta delibera consiliare sfugge, a sua volta, ai rimproveri mossi al suo indirizzo dall’appellante sotto il duplice profilo della mancanza di una base normativa di legittimazione e del contrasto con i principi, nazionali e comunitari, in materia di liberalizzazione degli esercizi commerciali.

Sotto la prima angolazione, i Primi Giudici, con motivazione condivisibile, hanno messo in rilievo che, nel perseguire la finalità istituzionale di salvaguardia dei caratteri tradizionali dei centri storici contrastando il rischio di degrado e snaturamento, il Comune ha esercitato una sua competenza che trova alimento nelle previsioni legislative regionali di massima per la tutela dei centri storici del Lazio mediante localizzazioni di strutture di vendita tradizionali (legge della Regione Lazio n. 33/1999, art. 20) e del centro di Roma in particolare (L.R. n. 22/2001);
nonché, sul piano statale, nelle disposizioni che richiamano le competenze delle regioni per la tutela dei centri storici attraverso la salvaguardia e la riqualificazione delle attività commerciali e artigianali in grado di svolgere un servizio di vicinato (artt. 6 e 10 del D.Lgs. n. 114/1998 cit.).

La normativa regolamentare comunale risponde, peraltro, agli indirizzi impartiti della Regione Lazio nella delibera 6.11.2002 n. 131 del Consiglio Regionale, il cui art. 8 statuisce che i comuni possono limitare nei centri storici l’insediamento di attività che non siano tradizionali e/o qualitativamente rapportabili ai caratteri storici, architettonici e urbanistici dei centri medesimi.

Il piano risponde, altresì, ai principi generali e di programmazione di cui alle delibere C.C. 29.9.2003 n. 187 e 27.3.2002 n. 41.

Si deve allora convenire con il Primo Giudice che la delibera consiliare n. 36/2006 è adeguatamente sorretta da normativa di ordine superiore (statale e regionale), da regolamentazione e programmazione locale vigente e dall’esigenza di salvaguardare le tradizioni di vendita nei centri urbani.

Le finalità e la portata delle misure pianificatorie di cui è stata fatta applicazione con il provvedimento impugnato consentono di confutare anche le censure che mettono l’accento sull’incompatibilità delle scelte comunali con le norme nazionali di liberalizzazione in materia commerciale e con i principi comunitari e costituzionali che le sorreggono.

La normativa del cd. “decreto Bersani” (D.L. n. 223/2006) mira, infatti, alla liberalizzazione delle attività commerciali, escludendo che agli esercizi autorizzati possano essere posti limiti quantitativi e qualitativi di vendita delle merci (art. 3), ma non osta alla possibilità che i Comuni tutelino le attività tradizionali nei centri storici con disposizioni che non impediscono l’esercizio nei centri storici di attività diverse da quelle tradizionali anche se riservano a queste ultime i locali in cui erano svolte in precedenza.

Gli stessi principi costituzionali e comunitari in materia di libertà di iniziativa economica e di tutela della concorrenza non escludono che esigenze di tutela di valori sociali di rango parimenti primario possano suggerire condizionamenti e temperamenti al dispiegarsi dei diritti individuali. Detti limiti sono vieppiù costituzionalmente compatibili, oltre che in ragione dei confini temporali che li perimetrano, anche in virtù della considerazione che al titolare dell’esercizio dell’attività cessata non è imposto un puntuale sbarramento merceologico in quanto gli è consentito di intraprendere da subito qualsiasi attività appartenente al medesimo genere, alimentare o non alimentare, di quella venuta meno.

Va soggiunto che le misure in esame, senza imporre limitazioni quantitative e qualitative incompatibili con la disciplina nazionale, perseguono la concorrente finalità di tutelare il consumatore garantendo la permanenza, negli ambiti territoriali tutelatiti, di un’offerta variegata di beni e servizi che non sia depauperata di attività tradizionali altrimenti a rischio di estinzione.

4. L’appello è, in definitiva, infondato.

Sussistono, tuttavia, giusti motivi per compensare, tra le parti, le spese del giudizio.

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