Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza 2019-11-05, n. 201907543

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Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza 2019-11-05, n. 201907543
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 201907543
Data del deposito : 5 novembre 2019
Fonte ufficiale :

Testo completo

Pubblicato il 05/11/2019

N. 07543/2019REG.PROV.COLL.

N. 08120/2018 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 8120 del 2018, proposto da -OMISSIS-, rappresentato e difeso dall'avvocato P M, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato G C in Roma, via di Villa Pepoli, n. 4;

contro

Ministero dell’Economia e delle Finanze, Comando Generale della Guardia di Finanza, in persona dei rispettivi legali rappresentanti pro tempore , rappresentati e difesi dall’Avvocatura generale dello Stato, domiciliati ex lege in Roma, via dei Portoghesi, n. 12;

per la riforma

della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio – Sede di Roma, Sezione II-ter, n. -OMISSIS-, resa tra le parti, concernente l’irrogazione della sanzione disciplinare della perdita del grado per rimozione.


Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio delle Amministrazioni intimate;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 17 ottobre 2019 il Cons. L L e uditi per le parti l’avvocato Francesco Casertano su delega dell’avvocato P M e l’avvocato dello Stato Maurizio Greco;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO e DIRITTO

1. Il ricorrente, all’epoca dei fatti maresciallo della Guardia di Finanza, ha impugnato avanti il T.a.r. per il Lazio – Sede di Roma il provvedimento con cui gli è stata irrogata la sanzione disciplinare della perdita del grado per rimozione, a seguito di sentenza definitiva di condanna alla pena di -OMISSIS-per il delitto di -OMISSIS--.

Il ricorrente ha svolto le seguenti censure:

- superamento del termine procedimentale massimo fissato dalla legge per la conclusione del procedimento disciplinare (art. 9, comma 2, l. n. 19 del 1990);

- travisamento del fatto, “in quanto a fondamento della decisione disciplinare è posta la <<-OMISSIS->>, ma tale affermazione è totalmente smentita dalla sentenza del giudice penale che ha accertato, al contrario, che il ricorrente -OMISSIS-”;

- conseguente difetto di motivazione circa la corrispondenza fra l’addebito disciplinare e la sanzione irrogata.

2. Con la sentenza indicata in epigrafe il Tribunale ha rigettato in toto il ricorso.

In particolare, quanto alla prima doglianza il Tribunale ha sostenuto che, quando, come nella specie, l’Amministrazione abbia annullato in autotutela l’atto conclusivo del procedimento (ossia l’atto irrogativo di sanzione disciplinare), decorra ex novo il termine di 90 giorni stabilito dalla legge per la conclusione del procedimento, purché:

a) anche l’atto di autotutela sia stato adottato, come nella specie, entro il termine fissato dalla legge per la conclusione del procedimento;

b) la contestazione degli addebiti seguita all’annullamento in autotutela dell’atto irrogativo di sanzione sia stata, come nella specie, uguale a quella originaria.

Quanto agli altri due motivi, il Tribunale ha ritenuto che:

- il provvedimento abbia fornito “adeguata e precisa motivazione idonea a superare la statuizione riguardante-OMISSIS- del ricorrente al momento del fatto riconosciuto dalla sentenza penale”;

- la doglianza di sproporzione fra addebito e sanzione “ per come formulata, incide su aspetti di piena discrezionalità dell’Amministrazione che non risultano né illogici, né manifestamente abnormi e, come tale, è inammissibile ”.

3. Il ricorrente ha interposto appello, riproponendo criticamente le censure svolte in prime cure, ed ha chiesto la sospensione dell’esecutività della sentenza impugnata.

Si sono costituite le intimate Amministrazioni.

Alla camera di consiglio dell’8 novembre 2018 il ricorso è stato rinviato al merito “ con l’accordo della parte ricorrente … per una fissazione in pubblica udienza quanto possibile tempestiva ”.

In vista della trattazione nel merito non sono state versate in atti difese scritte.

Il ricorso è, quindi, stato discusso alla pubblica udienza del 17 ottobre 2019 e, all’esito, trattenuto in decisione.

Il ricorso non merita accoglimento.

4. La delibazione della prima censura impone al Collegio una ricostruzione diacronica degli eventi rilevanti ai fini di causa.

In sintesi:

- l’Amministrazione, avuta conoscenza ufficiale della sentenza di condanna definitiva del ricorrente in data 25 marzo 2002, ha avviato in data 11 settembre 2002 l’inchiesta formale, poi conclusa il successivo 15 ottobre 2002;

- con atto del 18 ottobre 2002 il ricorrente è stato, quindi, deferito al giudizio di una commissione di disciplina, contestualmente nominata e convocata;

- con delibera del 5 dicembre 2002 al ricorrente è stata irrogata la massima sanzione disciplinare di stato;

- con successivo provvedimento del 10 dicembre 2002, tuttavia, il Comando generale ha annullato in autotutela tutto il “ procedimento disciplinare di stato … a partire dalla determinazione n. 72866 in data 18 ottobre 2002, concernente l’ordine di deferimento, la nomina e la convocazione della commissione di disciplina ”, riscontrando una serie di illegittimità nel relativo operato;

- con atto del 18 dicembre 2002 il ricorrente è stato nuovamente deferito al giudizio di una commissione di disciplina, contestualmente nominata e convocata, e, quindi, in data 6 febbraio 2003 è stato emanato il provvedimento in questa sede impugnato.

Ciò premesso, il ricorrente osserva che dalla conoscenza ufficiale della sentenza di condanna (25 marzo 2002) all’emanazione del provvedimento conclusivo (6 febbraio 2003) è trascorso un periodo di tempo ben superiore al termine massimo di durata del procedimento disciplinare, fissato dall’art. 9, comma 2, l. n. 19 del 1990 (come interpretato dalle sentenze dell’Adunanza Plenaria di questo Consiglio nn. 7 ed 8 del 25 gennaio 2000) in 270 giorni.

Ne consegue, nella ricostruzione coltivata in ricorso, l’illegittimità dell’atto impugnato, alla luce sia del carattere perentorio del citato termine di 270 giorni, sia del fatto che, in linea generale, i termini indicati dalla legge a pena di decadenza non sono suscettibili di essere interrotti o sospesi, tanto più ad opera di un provvedimento (quale quello di annullamento in autotutela) che “ non costituisce un atto tipico del procedimento disciplinare ”.

In proposito, il Collegio rileva che effettivamente:

- dal 25 marzo 2002 al 6 febbraio 2003 sono trascorsi 318 giorni;

- il termine massimo di 270 giorni, fissato dall’art. 9, comma 2, l. n. 19 del 1990 come interpretato dalle sentenze dell’Adunanza Plenaria di questo Consiglio nn. 7 ed 8 del 25 gennaio 2000, ha carattere perentorio;

- di regola, i termini fissati dalla legge a pena di decadenza non sono suscettibili di essere interrotti o sospesi (cfr. art. 2964 c.c.), tanto più da parte della stessa Autorità investita del potere/dovere di provvedere.

Ne consegue che la motivazione articolata dal Tribunale a sostegno del rigetto del ricorso di prime cure non è condivisibile: il decorso dei termini qualificati dalla legge come perentori non è suscettibile di essere interrotto o sospeso in assenza di un’espressa previsione normativa, di cui nella materia de qua non vi è traccia.

Nel caso di specie, tuttavia, vi è un elemento che il ricorrente non ha considerato.

Invero, il citato annullamento in autotutela del 10 dicembre 2002 ha riguardato non semplicemente il provvedimento disciplinare in sé considerato, ma tutto il pregresso “ procedimento disciplinare di stato ” sin dal deferimento al giudizio di una commissione di disciplina: l’Amministrazione, infatti, ha espressamente annullato “ il procedimento ” sin dal 18 ottobre 2002.

Ne consegue che tutto quanto compiuto dal 18 ottobre 2002 al 10 dicembre 2002 è giuridicamente tamquam non esset , in quanto annullato con efficacia ex tunc .

Ora, l’annullamento di tutto il pregresso procedimento assolveva chiaramente, nella logica perseguita dall’Amministrazione, ad una duplice funzione: non solo eliminare l’atto finale irrogativo della sanzione, ma anche sottrarre dal complessivo termine per la conclusione del procedimento il tempo consumato sin dal deferimento dell’incolpato al giudizio di una commissione di disciplina.

Altrimenti detto, l’annullamento in questione serviva tanto ad uno scopo per così dire strutturale (demolire l’atto finale illegittimo), quanto ad uno scopo funzionale (sterilizzare il tempo speso nel pregresso procedimento a decorrere dal deferimento dell’incolpato al giudizio di una commissione di disciplina).

Tale logica, invero, è intrinseca alla scelta lessicale adottata nel provvedimento ed alla stessa latitudine annullatoria ivi contenuta.

Di norma, l’annullamento si riferisce ad uno specifico atto, quello conclusivo del procedimento, poiché solo esso veicola all’esterno la spendita del potere ( recte , solo esso costituisce in sé, nella sua dimensione attizia, l’espressione del potere) e, quindi, solo con esso si manifestano all’esterno i tratti di illegittimità dell’azione amministrativa che si intendono rimuovere.

Nella specie, viceversa, l’Amministrazione ha espressamente riferito l’annullamento a tutto il pregresso procedimento sin dal 18 ottobre 2002.

In termini generali, tale dizione è non solo giuridicamente impropria (si annullano specifici atti, non genericamente un intero procedimento da una certa data in avanti), ma anche funzionalmente ultronea: il ripristino della legalità, infatti, è ottenibile con la semplice eliminazione del solo atto finale della serie procedimentale, a prescindere dal momento in cui si sono manifestati i vizi.

Nel particolare caso dei procedimenti disciplinari, se il provvedimento irrogativo della sanzione è ritenuto illegittimo a causa – come nella specie – dell’illegittimo operato della commissione di disciplina, l’Amministrazione può e deve limitarsi ad annullare il solo provvedimento finale, specificando che l’atto è illegittimo a causa dei vizi manifestatisi nel corso del propedeutico procedimento.

Tale modus procedendi determina ugualmente l’effetto di far riprendere il procedimento dal momento in cui si sono manifestati i vizi che poi, a valle, hanno determinato l’illegittimità dell’atto conclusivo del procedimento.

Le esposte osservazioni trovano, nel caso de quo , un’ulteriore e decisiva conferma.

Invero, osserva con ulteriore approfondimento il Collegio, dal citato atto di annullamento in autotutela del 10 dicembre 2002 si evince che i vizi ascrivibili all’operato della commissione di disciplina si sono, in realtà, manifestati solo nella fase dell’emissione del verdetto, espresso nella seduta del 5 dicembre 2002.

La commissione, infatti, avrebbe in tale occasione omesso di confezionare un’idonea motivazione ed avrebbe altresì precisato, nel verbale relativo alle operazioni compiute, che il verdetto era stato assunto all’unanimità, in tal modo “ facendo venir meno la necessaria segretezza del voto in palese violazione dell’art. 74 della l. 599/1954 ”.

Tali considerazioni rendono vieppiù evidente l’effettivo scopo perseguito dall’Amministrazione con l’esposta estensione pro praeterito dell’annullamento in autotutela: in sostanza, a fronte di vizi occorsi soltanto nella seduta del 5 dicembre 2002, l’Amministrazione ha annullato tutto il procedimento sin dal deferimento dell’incolpato al giudizio della commissione, risalente al 18 ottobre 2002.

Non a caso, rileva il Collegio, il provvedimento di autotutela, pur astrattamente vantaggioso per il ricorrente in quanto eliminativo di un atto per lui sfavorevole, recava la specifica indicazione delle modalità di impugnazione (ricorso straordinario al Presidente della Repubblica ovvero ricorso giurisdizionale di fronte al T.a.r.), in tal modo evidenziando all’interessato la lesività dell’atto ( scilicet , in parte qua ).

Orbene, nell’interpretare gli atti amministrativi, il Giudice è tenuto a ricercarne l’oggettivo scopo, in base al tenore lessicale della motivazione ed alle coordinate sostanziali del decisum : l’irrilevanza di tali elementi può essere assunta solo allorché sia aliunde chiaro l’esatto intendimento amministrativo e sia, di converso, palese che le espressioni contenute nell’atto (in motivazione o in dispositivo) conseguano ad una mera improprietà espositiva.

Nella specie, la locuzione “ procedimento ” cui è espressamente riferita (tanto in motivazione, quanto in dispositivo) la voluntas annullatoria dimostra che il fine perseguito dall’Amministrazione, nel procedere alla spendita del potere di autotutela, risiedeva ( recte , non poteva logicamente che risiedere) non solo nell’annullare l’atto conclusivo del procedimento, ma anche (forse soprattutto) nell’escludere tutto il periodo successivo al 18 ottobre 2002 dal computo del termine massimo per la conclusione del procedimento: l’Amministrazione, in sostanza, mirava ad estendere l’arco temporale utile per addivenire alla conclusione del procedimento, sterilizzando il decorso del pregresso periodo.

Argomentare diversamente, ossia negare che tale fosse l’intendimento dell’Amministrazione, significa obliterare, senza concrete ragioni, la precisa scelta lessicale contenuta nel provvedimento di autotutela ed omettere di considerare l’ampio ambito di annullamento ivi esplicitamente individuato.

Né il Giudice può procedere ex officio ad un’interpretazione per così dire correttiva: nei casi in cui è evidente l’illegittimità dell’azione amministrativa, infatti, non vi sono spazi per esegesi di carattere (o, comunque, di effetto) legittimizzante, espressione di un potere costitutivo di cui il Giudice è in radice privo.

La censura di superamento del termine, dunque, presupponeva la specifica impugnazione, quanto meno nell’ambito del presente giudizio, del pregresso atto di annullamento in autotutela del 10 dicembre 2002 nella parte in cui, lungi dall’annullare il solo atto del 5 dicembre 2002, estendeva l’effetto demolitorio a tutto il pregresso procedimento sin dal 18 ottobre 2002.

Tuttavia, il provvedimento in esame non è stato impugnato con il ricorso introduttivo del presente giudizio, né, a quanto consta, è stato gravato autonomamente.

La mancata impugnazione di tale atto, in parte qua oggettivamente illegittimo, ne rende, dunque, inoppugnabili le statuizioni e, pertanto, impone di escludere il periodo 18 ottobre 2002 – 10 dicembre 2002 dal computo del termine massimo fissato dalla legge per la conclusione del procedimento disciplinare.

Il provvedimento del 6 febbraio 2003, quindi, risulta emanato tempestivamente, essendo decorsi (non dovendosi computare il suddetto periodo) complessivi 264 giorni dalla comunicazione ufficiale della sentenza di condanna.

In conclusione sul punto, il Collegio ribadisce che la mancata inclusione nel termine massimo di durata del procedimento del periodo 18 ottobre 2002 – 10 dicembre 2002 non si fonda su un (inconfigurabile) effetto sospensivo (tanto meno interruttivo) proprio dell’atto di annullamento in autotutela, bensì sulla mancata impugnazione di tale ultimo atto nella parte in cui l’Amministrazione, estendendo illegittimamente l’effetto demolitorio a tutto il precedente “ procedimento ”, escludeva il periodo in questione dal computo dei termini massimi.

5. Con riferimento alle altre doglianze, è sufficiente rilevare che la sentenza di condanna ha riconosciuto al ricorrente l’-OMISSIS-

Come noto, tale condizione ricorre allorché il soggetto agente, “-OMISSIS-”.

Un tale stato, dunque, non esclude, nell’an, l’imputabilità, ma incide semplicemente sul quantum della pena: invero, il fatto commesso in siffatta -OMISSIS-è qualificato come reato ed al responsabile è comminata una pena, sia pure ridotta.

E’ del tutto conseguente, pertanto, la motivazione spesa dall’Amministrazione sul punto: proprio in quanto-OMISSIS-è stata ritenuta, dai Giudici penali, grandemente scemata, ma non tout court esclusa, è corretto affermare che il ricorrente “-OMISSIS-”.

Né ha rilievo il fatto che l’Amministrazione, in un altro passaggio della motivazione, abbia qualificato la “-OMISSIS-” del ricorrente circa la natura delittuosa della propria condotta come “piena”: in disparte l’opinabile scelta aggettivale, ciò che conta è che la sentenza di condanna aveva riconosciuto il ricorrente imputabile, dunque -OMISSIS-.

Alla stregua delle considerazioni che precedono, l’irrogazione della massima sanzione disciplinare di stato non presenta profili di macroscopica illogicità o di palese irrazionalità, avendo l’Amministrazione motivatamente ritenuto, nella propria lata discrezionalità, che la commissione di -OMISSIS-, costituisca una condotta:

- psicologicamente attribuibile all’incolpato (comunque riconosciuto, in sede penale, imputabile);

- radicalmente incompatibile, nella sua materiale oggettività, con il mantenimento della qualità di appartenente alla Guardia di Finanza.

6. In conclusione, sia pure per ragioni in parte difformi da quelle enucleate in prime cure, il ricorso in appello deve essere respinto.

La complessità giuridica delle questioni suggerisce la compensazione delle spese del presente grado del giudizio.

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