Consiglio di Stato, sez. III, sentenza 2022-12-28, n. 202211444
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Testo completo
Pubblicato il 28/12/2022
N. 11444/2022REG.PROV.COLL.
N. 05946/2017 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Terza)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 5946 del 2017, proposto da
-OMISSIS-, rappresentati e difesi dagli avvocati P P, R T, con domicilio eletto presso lo studio P P in Roma, via Celimontana 38;
contro
Ministero dell'Interno, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via dei Portoghesi, 12;
per la riforma
della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Liguria n. -OMISSIS-, resa tra le parti
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio di Ministero dell'Interno;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 10 novembre 2022 il Pres. M C e viste le conclusioni delle parti come da verbale di udienza;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
Con sentenza n. -OMISSIS-, il Tar per la Liguria ha respinto il ricorso con cui i signori -OMISSIS- hanno impugnato due provvedimenti di revoca del porto d’armi per uso venatorio, emessi nei loro confronti dalla Questura di Imperia in data 22 agosto 2014. Trattasi dei decreti n. -OMISSIS- e n. -OMISSIS-
Entrambi i provvedimenti sono motivati con la circostanza che, in data 7 aprile 2014, il signor -OMISSIS- avrebbe subito delle minacce dai due appellanti. In particolare, in seguito a un alterco relativo alla circolazione stradale, il -OMISSIS-l’avrebbe preso per il bavero, strattonato e apostrofato con la frase “ti sparo in testa”, mentre -OMISSIS- avrebbe profferito la frase “Ti aspettiamo sui colli”. In relazione a tale episodio, gli appellanti sono stati indagati ai sensi degli artt. 612, comma 2 e 110 c.p. (cfr. pagina 2 della memoria dell’amministrazione depositata nel giudizio di primo grado il 21 dicembre 2016 e la documentazione allegata, in particolare la copia della comunicazione della notizia di reato n. -OMISSIS-).
Si rappresenta che, a seguito della remissione della querela e di contestuale accettazione da parte degli indagati, i procedimenti penali carico di questi ultimi sono stati archiviati.
Con ricorso notificato il 20 luglio 2017 e depositato il successivo 4 agosto 2017, gli appellanti hanno avversato la sentenza del Tar per la Liguria n. -OMISSIS-.
Gli stessi, sostanzialmente reiterando e sviluppando in chiave critica le doglianze non accolte in primo grado, hanno dedotto vari profili di violazione di legge e di eccesso di potere, con particolare riferimento agli artt. artt. 11, 39 e 43 tulps, nonché l’erronea applicazione degli artt. 612 e 339 c.p..
Gli appellanti hanno, nello specifico, contestato l’attendibilità della versione rilasciata dalla persona offesa in sede di denuncia - querela e il giudizio di inaffidabilità nell’uso delle armi formulato dall’amministrazione. Con particolare riferimento, poi, alla posizione del signor -OMISSIS-, essi ritengono che costui non avrebbe, in ogni caso, profferito alcuna minaccia.
A seguito del rinnovo della notifica all’Avvocatura Generale dello Stato, disposto con ordinanza n. 7836 dell’8 settembre (cfr. art. 144, comma 1, c.p.c. e Corte costituzionale, sent. n. 148 del 2021), il Ministero dell’Interno si è costituito in giudizio il 28 settembre 2022.
Alla pubblica udienza del 10 novembre 2022 la causa è stata trattenuta in decisione.
DIRITTO
L’appello è infondato.
I motivi di censura, in quanto strettamente connessi, possono esaminarsi congiuntamente.
Giova premettere che la materia del rilascio del porto d’armi è disciplinata dagli artt. 11 e 43 di cui al R.D. 18 giugno 1931, n. 773. Il legislatore nella materia de qua affida all’Autorità di pubblica sicurezza la formulazione di un giudizio di natura prognostica in ordine alla possibilità di abuso delle armi, da svolgersi con riguardo alla condotta e all’affidamento che il soggetto richiedente può dare.
Il potere di rilasciare le licenze per porto d’armi costituisce una deroga al divieto sancito dall’art. 699 c.p. e dall’art. 4, comma 1, l. n. 110/1975. La regola generale è, pertanto, il divieto di detenzione delle armi, al quale l’autorizzazione di polizia può derogare in presenza di specifiche ragioni e in assenza di rischi anche solo potenziali, che è compito dell’Autorità di pubblica sicurezza prevenire.
La Corte Costituzionale, sin dalla sentenza del 16 dicembre 1993, n. 440, ha affermato che «il porto d’armi non costituisce un diritto assoluto, rappresentando, invece, una eccezione al normale divieto di portare le armi, che può divenire operante soltanto nei confronti di persone riguardo alle quali esista la perfetta e completa sicurezza circa il buon uso delle armi stesse». Il Giudice delle leggi ha osservato, altresì, che «dalla eccezionale permissività del porto d’armi e dai rigidi criteri restrittivi regolatori della materia deriva che il controllo dell’autorità amministrativa deve essere più penetrante rispetto al controllo che la stessa autorità è tenuta ad effettuare con riguardo a provvedimenti permissivi di tipo diverso, talora volti a rimuovere ostacoli e situazioni giuridiche soggettive di cui sono titolari i richiedenti».
Proprio in ragione dell’inesistenza, nell’ordinamento costituzionale italiano, di un diritto di portare armi, il Giudice delle leggi ha aggiunto, nella sentenza del 20 marzo 2019, n. 109, che «deve riconoscersi in linea di principio un ampio margine di discrezionalità in capo al legislatore nella regolamentazione dei presupposti in presenza dei quali può essere concessa al privato la relativa licenza, nell’ambito di bilanciamenti che – entro il limite della non manifesta irragionevolezza – mirino a contemperare l’interesse dei soggetti che richiedono la licenza di porto d’armi per motivi giudicati leciti dall’ordinamento e il dovere costituzionale di tutelare, da parte dello Stato, la sicurezza e l’incolumità pubblica: beni, questi ultimi, che una diffusione incontrollata di armi presso i privati potrebbe porre in grave pericolo, e che pertanto il legislatore ben può decidere di tutelare anche attraverso la previsione di requisiti soggettivi di affidabilità particolarmente rigorosi per chi intenda chiedere la licenza di portare armi».
La giurisprudenza, riprendendo i principi espressi dalla Corte Costituzionale, è consolidata nel ritenere che il porto d’armi non costituisce oggetto di un diritto assoluto, rappresentando un’eccezione al normale divieto di detenere armi e potendo essere riconosciuto soltanto a fronte della perfetta e completa sicurezza circa il loro buon uso, in modo da scongiurare dubbi o perplessità, sotto il profilo prognostico, per l’ordine pubblico e per la tranquilla convivenza della collettività (cfr., ex multis, Cons. St., Sez. III, 25 marzo 2019, n. 1972;Cons. St., Sez. III, 7 giugno 2018, n. 3435).
Il giudizio che compie l’Autorità di pubblica sicurezza è espressione di una valutazione ampiamente discrezionale, che presuppone una analisi comparativa dell’interesse pubblico primario, degli interessi pubblici secondari, nonché degli interessi dei privati, oltre che un giudizio di completa affidabilità del soggetto istante basato su rigorosi parametri tecnici.
Nello specifico settore delle armi, tale valutazione comparativa si connota in modo peculiare rispetto al giudizio che tradizionalmente l’Amministrazione compie nell’adottare provvedimenti permissivi di tipo diverso. La peculiarità deriva dal fatto che, stante l’assenza di un diritto assoluto al porto d’armi, nella valutazione comparativa degli interessi coinvolti assume carattere prevalente, nella scelta selettiva dell’Amministrazione, quello di rilievo pubblico, inerente alla sicurezza e all’incolumità delle persone, rispetto a quello del privato, tanto più nei casi di impiego dell’arma per attività di diporto o sportiva.
L’apprezzamento discrezionale rimesso all’Autorità di pubblica sicurezza involge soprattutto il giudizio di affidabilità del soggetto che detiene o aspira a ottenere il porto d’armi. A tal fine, l’Amministrazione è chiamata a compiere una valutazione tecnica in ordine al pericolo di abuso delle armi, che deve essere desunta da elementi non meramente immaginari o aleatori. Il pericolo di abuso delle armi è valutato secondo un ragionamento induttivo, di tipo probabilistico, che non richiede di attingere un livello di certezza oltre ogni ragionevole dubbio, tipico dell’accertamento finalizzato ad affermare la responsabilità penale, ma implica una prognosi assistita da un attendibile grado di verosimiglianza, sì da far ritenere “più probabile che non” il pericolo di abuso delle armi.
È in questa prospettiva, anticipatoria della difesa della legalità, che si collocano i provvedimenti con cui l’Autorità di pubblica sicurezza vieta la detenzione di armi, ai quali infatti viene riconosciuta natura cautelare e preventiva (ex multis, Cons. St., sez. III, 2 dicembre 2021, n. 8041). Ne è prova il costante orientamento di questa Sezione, secondo cui l’inaffidabilità all’uso delle armi è idonea a giustificare il ritiro della licenza, addirittura senza che occorra dimostrarne l’avvenuto abuso (Cons. St., sez. III, 18 aprile 2017, n. 1814).
Tale esegesi è peraltro confermata sul piano legislativo dalla formulazione dell’art. 39 del R.D. 18 giugno 1931, n. 773, laddove, nel prevedere che «il Prefetto ha facoltà di vietare la detenzione delle armi, munizioni e materie esplodenti, denunciate ai termini dell’articolo precedente, alle persone ritenute capaci di abusarne», considera sufficiente l’esistenza di elementi che fondino solo una ragionevole previsione di un uso inappropriato.
Delineata in questi termini la natura latamente discrezionale dei provvedimenti de quibus, occorre indagare le implicazioni che da essa derivano sul piano dell’intensità del sindacato giurisdizionale.
È noto che dal tradizionale approccio del giudizio amministrativo, teso ad escludere ogni forma di sindacato sulla attività discrezionale, si è passati alla possibilità di riconoscere la piena cognizione dei fatti oggetto dell’indagine e del percorso intellettivo e volitivo seguito dall’Autorità amministrativa, con il solo limite dell’ottica del merito, preclusa al giudice, e comunque del sindacato non sostitutivo. Solo in questo modo, infatti, si garantisce il principio di pienezza ed effettività della tutela giurisdizionale, imposto dall’art. 113 Cost.
Consegue che la natura dei provvedimenti in esame non esclude né può legittimare un indebolimento del sindacato giurisdizionale. Al contrario, quanto più si estendono le maglie della discrezionalità dell’Autorità amministrativa, tanto più è necessario un sindacato penetrante da parte del giudice amministrativo volto ad evitare che sotto il mantello della discrezionalità possa celarsi un esercizio arbitrario della funzione amministrativa.
In questa logica, si pone del resto la consolidata giurisprudenza del Consiglio di Stato che, sia pur con riferimento alla discrezionalità tecnica delle Autorità amministrative indipendenti, ha affermato che la tutela giurisdizionale, per essere effettiva, non può limitarsi ad un sindacato meramente estrinseco, teso a riscontrare vizi di manifesta illogicità e incongruenza, ma deve consentire al giudice un controllo intrinseco, attraverso la verifica diretta dei fatti posti a fondamento del provvedimento impugnato e il controllo sull’attendibilità tecnica della valutazione compiuta dall’Amministrazione, salvo il limite rappresentato dall’oggettivo margine di opinabilità (ex multis, Cons. St., sez. VI, 10 dicembre 2014, n. 6050).
A maggior ragione, una forma penetrante di sindacato si impone a fronte di un’attività amministrativa che vede una scelta di opportunità afferente alla valutazione dei requisiti di legge. Anche qui la tutela giurisdizionale piena ed effettiva richiede un sindacato del giudice amministrativo pieno e particolarmente penetrante, che può estendersi sino al controllo dell’analisi dei fatti posti a fondamento del provvedimento, al fine di verificare se il potere attribuito all’Autorità amministrativa sia stato correttamente esercitato o presenti elementi di irragionevolezza o di erronea assunzione dei fatti.
Nel caso di specie, il giudice amministrativo è chiamato a valutare la consistenza dei fatti posti a fondamento della determinazione dell’Autorità prefettizia in ordine all’esistenza dei requisiti di legge e al pericolo di abuso delle armi, di modo che il suo sindacato sull’esercizio della funzione amministrativa consenta non solo di vagliare l’esistenza o meno di questi fatti, ma di apprezzare la ragionevolezza e la proporzionalità della prognosi inferenziale che l’autorità amministrativa trae da essi secondo un criterio che, necessariamente, è probabilistico per la natura preventiva – e non sanzionatoria – della misura in esame.
In questa prospettiva, si chiede al giudice una valutazione sull’esercizio del potere amministrativo che, muovendo da un accesso pieno ai fatti rivelatori del pericolo, ne dimostri la ragionevolezza e la proporzionalità.
È opportuno rilevare che il principio di proporzionalità – compreso tra i principi di diritto europeo, ma già insito nella Costituzione, quale corollario del buon andamento ex art. 97 Cost. – si compone di tre elementi: idoneità, necessarietà e proporzionalità in senso stretto. È idonea la misura che permette il raggiungimento del fine, il conseguimento del risultato prefissato. La misura deve essere poi necessaria, vale a dire l’unica possibile per il raggiungimento del risultato prefissato. La proporzionalità in senso stretto richiede, invece, che la scelta amministrativa non rappresenti un sacrificio eccessivo nella sfera giuridica del privato.
Il principio di ragionevolezza postula, invece, una coerenza tra la valutazione compiuta dall’Amministrazione e la decisione assunta.
Nel caso in esame, alla luce di quanto fin qui esposto e dei fatti valorizzati dai provvedimenti gravati in primo grado, ritiene il Collegio che la prognosi inferenziale compiuta dall’amministrazione, confermata dal Tar nella sentenza impugnata, resista al vaglio di questo Giudice, essendo assistita da ragionevolezza e proporzionalità.
Innanzitutto, è indubbio che le risultanze emerse in sede penale, ossia la presenza di un procedimento iscritto a carico degli odierni appellanti ai sensi degli artt. 612, comma 2 e 110 c.p., in relazione all’episodio oggetto della circostanziata querela di -OMISSIS-, sono state di per sé idonee e sufficienti a fondare i decreti di revoca.
Si osserva, inoltre, che l’avvenuta archiviazione di tale procedimento penale, per remissione e contestuale accettazione della querela, non è idoneo a scalfire il giudizio di inaffidabilità compiuto dall’amministrazione.
Infatti, come già evidenziato, i provvedimenti in materia di armi non richiedono un concreto ed accertato abuso nella tenuta delle armi. Essi presentano una natura cautelare, al fine di prevenire possibili abusi nell'uso delle armi a tutela delle esigenze di incolumità di tutti i consociati, essendo privi di qualsivoglia intento sanzionatorio o punitivo.
Pertanto, l’Autorità di pubblica sicurezza ben può apprezzare discrezionalmente, quali indici rivelatori della possibilità d’abuso delle armi, fatti o episodi anche privi di rilievo penale, indipendentemente dalla riconducibilità degli stessi alla responsabilità dell'interessato, purché l'apprezzamento non sia irrazionale e sia motivato in modo congruo.
E, nella fattispecie, le conclusioni cui è pervenuta l’amministrazione risultano del tutto ragionevoli e adeguatamente motivate. A tal proposito, si osserva quanto segue. Per quanto riguarda il sigor -OMISSIS-, è indubbio che l’avere adoperato espressioni di minaccia di morte prospettata mediante l’uso di armi costituisca elemento sintomatico del pericolo di abuso delle armi. Anche per il signor -OMISSIS-, la circostanza di avere spalleggiato il padre nell’attività minacciosa rinforzandone la potenzialità lesiva e il fatto di avere prospettato una sorta di agguato alla persona offesa costituiscono indizio che consente di ritenere la valutazione discrezionale dell’amministrazione logica e razionale. A tal riguardo, il Collegio rileva, in particolare, come la frase, che di per sé potrebbe avere una valenza neutra, nel contesto in cui è stata profferita, ha assunto una indubbia valenza minacciosa e come tale, del tutto correttamente, è stata valutata dall’amministrazione.
In conclusione, nella fattispecie, la valutazione negativa di affidabilità dei soggetti circa l’uso corretto delle armi e i conseguenti provvedimenti di revoca del porto d’armi per uso venatorio sono stati legittimamente ancorati elementi che giustificano la prognosi di possibile abuso delle armi stesse.
Pertanto, l’appello deve essere respinto.
Sussistono giusti motivi per disporre la compensazione delle spese.