Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza 2015-05-14, n. 201502418

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Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza 2015-05-14, n. 201502418
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 201502418
Data del deposito : 14 maggio 2015
Fonte ufficiale :

Testo completo

N. 00804/2014 REG.RIC.

N. 02418/2015REG.PROV.COLL.

N. 00804/2014 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 804 del 2014, proposto da:
R G, rappresentato e difeso dagli avv. A C, M P, con domicilio eletto presso Antonia De Angelis in Roma, via Portuense, 104;

contro

Ministero della Difesa, Comando Generale dell'Arma dei Carabinieri, Comando Legione Carabinieri Puglia, Comando Legione Carabinieri Puglia Sm-Ufficio Personale, Legione Carabinieri Puglia Compagnia di Taranto, Commissione Disciplina Istituita Presso Legione Carabinieri Puglia,Comando Prov.le di Lecce, in persona dei rispettivi legali rappresentanti, rappresentati e difesi per legge dall'Avvocatura Gen.le dello Stato , domiciliata in Roma, via dei Portoghesi, 12;

per la riforma

della sentenza del T.A.R. PUGLIA - SEZ. STACCATA di LECCE: SEZIONE II^ n. 02550/2013, resa tra le parti, concernente irrogazione della sanzione di stato della perdita del grado per rimozione - cessazione dal servizio permanente.


Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio di Ministero della Difesa e di Comando Generale dell'Arma dei Carabinieri e di Comando Legione Carabinieri Puglia e di Comando Legione Carabinieri Puglia Sm-Ufficio Personale e di Legione Carabinieri Puglia Compagnia di Taranto e di Commissione Disciplina Istituita Presso Legione Carabinieri Puglia,Comando Prov.Le di Lecce;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 21 aprile 2015 il Cons. Sandro Aureli e uditi per le parti gli avvocati Cariola e l'avv. dello Stato Bruni;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO e DIRITTO

La sentenza di primo grado della quale viene richiesta la riforma dalla parte appellante si è occupata del procedimento disciplinare a cui è stato sottoposto l’appuntato scelto Guagliandolo Roberto dopo che il giudizio penale (a partire dalla sentenza di primo grado del Trib.le di Lecce del 2009.) ha concluso con sentenza di non doversi procedere per il reato ascrittogli (per aver insieme ad altri violato gli artt.81,110 e 319 del codice penale;
per avere, nella qualità di Carabinieri in servizio presso il Nucleo operativo e Radiomobile della Compagnia Carabinieri di Tricase, in attuazione di un medesimo disegno criminoso diretto alla realizzazione di un medesimo fine, di cui erano tutti ben consapevoli, ricevuto da Rosafio Gianluigi, esercente attività di recupero e smaltimento di rifiuti allo stato liquido ed in concorso con lo stesso, denaro e altre utilità per compiere atti contrari ai doveri di fedeltà, imparzialità ed onestà propri della loro funzione, omettendo i dovuti controlli ed accertamenti sulle attività di illecito smaltimento di rifiuti svolte dal Rosafio e ponendo in essere per converso una serie di attività, tra cui pedinamenti, appostamenti e sequestri di mezzi in uso ai suoi concorrenti, volte ad ostacolare agli stessi l’esercizio dell’attività di autotrasportatori dei reflui agevolando in tal modo il Rosafio nell’espletamento della medesima attività”).

La sentenza di primo grado veniva confermata in grado di appello – con sentenza 278 del 21 febbraio 2011 della Corte di Appello di Lecce - e diventava irrevocabile a seguito della sentenza 778/2012 della Corte di Cassazione del 3 aprile 2012.

Dopo di ciò è iniziato ritualmente il procedimento disciplinare, e la Commissione di Disciplina concludeva l’attività istruttoria nella seduta del 25 ottobre 2012 esprimendo nei riguardi dell’appuntato scelto Gugliandolo un giudizio di non meritevolezza alla conservazione del grado.

A fronte di tale conclusione, la Direzione Generale del Personale Militare presso il Ministero della Difesa, ritenute ininfluenti le difese del ricorrente e condivise le valutazioni della Commissione di Disciplina, irrogava nei confronti del medesimo la sanzione della perdita del grado per rimozione per motivi disciplinari, ai sensi degli artt.861, comma 1, lett.d), e 867, comma 6 del D.lgs66/2010, con conseguente cessazione dal servizio permanente.

Le censure proposte in primo grado dal ricorrente vengono, come si vedrà, riproposte in questa sede riconsiderando criticamente gli argomenti spesi dal primo giudice per giungere al contestato esito di rigetto del ricorso, e se ne chiede l’accoglimento in riforma della sentenza impugnata.

Il Ministero della Difesa si è costituito in giudizio per chiedere il rigetto del gravame osservando che le deduzioni di parte ricorrente sul piano giuridico non apportano alcuna reale elemento di novità idoneo a giungere alla riforma della sentenza impugnata.

Parte appellante ha depositato memoria difensiva in vista della camera di consiglio del 18 febbraio 2014, conclusasi con l’ordinanza di rigetto n.784/2014;
una memoria conclusionale è stata depositata successivamente, in vista dell’udienza di discussione.

Quivi, chiamata la causa, la Sezione, su richiesta dei difensori delle parti costituite l’ha trattenuta in decisione.

L’appello non contiene censure meritevoli d’accoglimento.

Con il primo dei motivi già dedotti in primo grado, parte appellante insiste sulla inapplicabilità al procedimento disciplinare che lo riguarda del d.lgs. 15 marzo 2010,n.66.cioè del sopraggiunto, rispetto ai fatti di causa ed alla sentenza penale di primo grado, codice dell’ordinamento militare, diversamente determinandosi la violazione della irretroattività delle sanzioni amministrative di tipo afflittivo, che neppure attraverso il principio del tempus regit actum , applicato dal primo giudice , può venire aggirato.

L’argomento non ha pregio.

Fermo che la Sezione condivide l’argomentazione del primo giudice, è sufficiente osservare in contrario a quanto sostiene parte appellante che la sanzione della perdita del grado per rimozione era già prevista per gli appartenenti all’Arma dei Carabinieri, inclusi evidentemente gli appuntarti, anche nel sistema previgente al d.lgs. n.66/2010, (v. art. 60 n. 6 L. 31 luglio 1954 n. 599;T.a.r. Trento-Bolzano del 26 marzo 2008 n. 98;
T.A.R. Lazio Sez. I ,16 maggio 2001 n.4086 ), con la conseguenza che alcuna retroattività illegittima è configurabile avendo la normativa più recente (dlgs. n.66/2010) non altro che confermato una sanzione già disciplinata.

Il motivo va quindi respinto.

Con il secondo motivo viene lamentata la violazione della tempistica procedimentale di settore contenuta nel d.lgs. 66/2010.

In particolare secondo parte appellante la contestazione degli addebiti, essendo stata notificata il 27 luglio 2012, ha violato il termine di 90 giorni dalla data in cui l’amministrazione ha avuto conoscenza della sentenza conclusiva del procedimento penale.

Gli argomenti di parte appellante sono nella sostanza i medesimi di quelli esaminati dal primo giudice, che li ha respinti osservando che l’art.1392 C.O.M. fissa, evidentemente anche a beneficio del militare sottoposto al procedimento disciplinare, il dies a quo dalla data della conoscenza integrale della sentenza o del decreto penale irrevocabile che concludono il giudizio penale ovvero del provvedimento di archiviazione;
nella specie la conoscenza che rileva ai fini della norma in esame è intervenuta, con riferimento alla sentenza della Corte di Cassazione, il 04 luglio 2012.

Nel termine di 90 giorni previsto, l’Amministrazione ha dunque notificato la contestazione degli addebiti (27 luglio 2012), né il dato positivo della norma può essere obliterato dando rilievo ad un inesistente obbligo dell’Amministrazione di seguire lo svolgimento del giudizio penale, ovvero all’antecedente sentenza della Corte d’appello, poiché confermata dalla Corte di Cassazione, non essendosi con la prima concluso il giudizio penale, ovvero ancora all’epoca in cui sono avvenuti i fatti penalmente rilevanti, non potendosi ritenere che la definitività e l’integrale conoscenza dell’accertamento relativo agli effetti penali collegati possano essere sacrificati all’esigenza di concludere rapidamente il procedimento disciplinare conseguente.

In tale ambito, deve altresì essere respinta la questione di legittimità costituzionale sollevata con riferimento ad un quadro normativo che non privilegia la rapida conclusione del procedimento disciplinare rispetto alla consumazione dell’illecito penale, palese essendo la sua infondatezza con riferimento agli art. 3, 25, e 97 Cost., volendosi del tutto impropriamente sommare i tempi del giudizio penale a quelli del procedimento disciplinare, pur essendo essi caratterizzati da una biunivoca autonomia istituzionale e sistematica.

Parimenti insussistente è la violazione, il cui esame è sfuggito al primo giudice, della durata massima di 50 ( cinquanta ) giorni dell’inchiesta che l’Amministrazione della Difesa autolimitandosi s’è imposta con la nota 1693/264 di prot. 2003 Disc. del 16 luglio 2012, ove si consideri che se è vero che l’inchiesta formale si è conclusa con un provvedimento adottato in data 20 settembre 2012 e notificato il successivo 25, mentre la contestazione degli addebiti si è avvenuta con atto anteriore del 25 luglio 2012 ma notificato il 27 luglio successivo, è anche vero che il termine trascorso in tale arco di tempo non è di 60 giorni come ritenuto nel gravame, se si escludano dal computo, come evidentemente si deve in tal caso, i giorni non lavorativi.

Deve essere respinta anche la censura riguardante l’incompetenza del Ministero della difesa nell’irrogazione del provvedimento di cessazione permanente dal servizio, piuttosto che essere sancita dal Comandante Generale dell’Arma dei Carabinieri, dovendo trovare certamente applicazione gli art. 861 comma primo , lett.d) e 867 comma sesto del decreto legislativo 15 marzo 2010 n.66 e non l’invocato art. 923, comma 1 , lett.i , solo impropriamente richiamato dall’Amministrazione e riguardante la diversa fattispecie della cessazione dal servizio e non quella qui in rilievo della perdita del grado per rimozione per motivi disciplinari.

Infondato è anche il motivo relativo alla circostanza che il procedimento disciplinare avrebbe dovuto essere disposto dal Comando Legione Carabinieri di Sicilia e non dal Comando Regionale Puglia essendo quest’ultima l’autorità che conosce il dipendente per il quale si procede disciplinarmente.

Come viene spiegato dal primo giudice, la competenza del primo Comando deriva dall’art.1378 c.o.m. per il quale all’inchiesta formale provvede ” in caso di corresponsabilità tra più appuntati e carabinieri provvedere il comandante di corpo del più elevato in grado o del più anziano”.

Nella fattispecie trattasi di reato di corruzione per atti contrari ai doveri d’ufficio commesso da militari parigrado in concorso tra loro.

Con la conseguenza che l’autorità competente a procedere disciplinarmente non poteva che essere il Comandante di Corpo dell’appuntato più anziano (Maggiore D) ovvero il Comandante della Legione di Bari.

Afferma a fronte di ciò parte appellante che in tal modo viene violato il principio che si riallaccia a quello più generale del buon andamento ( art.97 Cost.) secondo cui solo l’autorità che conosce il dipendente con caratteristiche di “attualità e concretezza può adeguatamente decidere al riguardo”, venendo diversamente violate essenziali garanzie di derivazione costituzionale.

Senonché non si può non notare che quanto afferma parte appellante, per così dire, “prova troppo” nel senso che nella specie considerata la particolare gravità del reato per il quale si è proceduto penalmente, fa sì che, ferme le garanzie procedimentali riconosciute al militare sottoposto disciplinarmente, quando l’addebito mosso porta ad assumere il più grave dei provvedimenti sanzionatori, qual’ è la cessazione dal servizio permanente per rimozione, è evidente che l’offesa è gravemente rivolta all’immagine e all’onore dell’Arma dei Carabinieri, cioè a “valori” che sono patrimonio dell’Arma stessa, con la conseguenza che gli aspetti personalistici invocati da parte appellante hanno rilievo del tutto recessivo, venendo in considerazione soprattutto nei casi di sanzioni disciplinari che non fanno venir meno il rapporto organico e di servizio, mentre altri parametri vengono in considerazione per giudicare la condotta assunta nei casi in esame, i quali per loro natura e contenuto, ineriscono ai criteri valutativi che appartengono a qualunque Commissione di disciplina, che dunque è in grado di applicarli correttamente ricorrendone i presupposti.

Né può rilevare, in relazione all’asserita violazione dell’art.1380 c.o.m. che si siano svolti due distinti procedimenti disciplinari e non un procedimento disciplinare unico per entrambi gli incolpati., poiché da tale norma, non si trae alcun dovere di riunione dei procedimenti disciplinari ben potendo l’autorità individuata come competente a disporre l’inchiesta formale limitarsi a nominare la Commissione di disciplina che potrà procedere separatamente per ciascuno per ciascuno dei militari coinvolti.

Né si vede alla luce di quanto sopra osservato quale vantaggio avrebbe potuto ricavare l’appellante dalla pretesa riunione.

La censura non può essere accolta ed i profili di costituzionalità in essa inseriti si appalesano manifestamente infondati.

Altro motivo di censura attiene alla violazione e falsa applicazione dell’art. 861 comma 1° lettera d) del c.o.m. non avendo la Commissione di disciplina proceduto, secondo parte appellante, ad una valutazione autonoma dei fatti costituenti presupposto dell’azione disciplinare, avendo acriticamente aderito alle risultanze del giudizio penale, essendosi limitata a recepirle in sede disciplinare senza porre in esame la sua effettiva responsabilità pur in presenza di comportamenti ritenuti penalmente rilevanti.

Come ben spiegato dal primo giudice, sulla premessa che l’appellante non ha utilizzato il settimo comma dell’art.157 del codice penale rinunciando alla prescrizione onde ottenere il proscioglimento dalle accuse a lui rivolte, la pronuncia giurisdizionale di estinzione del reato per intervenuta prescrizione “contiene l’accertamento che il fatto di reato è stato consumato in tutte le sue componenti oggettive e soggettive dall’imputato”, rimanendo integro il disvalore sociale della condotta assunta dal reo, che “ non può certo essere rimessa in discussione sotto il profilo del suo accadimento materiale nell’ambito del pur distinto procedimento disciplinare avviato dalla P.a. competente”

E dunque irrilevante, in relazione al procedimento disciplinare, che non sia intervenuta la sentenza di condanna, dovendo l’Amministrazione esplicare gli esiti dell’accertamento penale trasponendoli senza poterli sottoporre ad una valutazione che non sia strettamente consequenziale a quanto ivi già emerso, non solo sul piano della condotta penale in sé considerata, ma anche in ordine alla responsabilità individuata a carico del dipendente disciplinarmente sottoposto.

In tale ambito del tutto correttamente l’Amministrazione può limitarsi a tradurre nell’ambito disciplinare la condotta di reato valutandola come deteriore rispetto ai doveri che ricadono in capo al proprio dipendente, primo fra tutti, come nella fattispecie , quello di non compromettere il prestigio ed il decoro dell’Arma.

E non è revocabile in dubbio che parte appellante con il suo comportamento, come emerso nella sede disciplinare, ha violato, seppure, come si sostiene, mediante un unico episodio, il patto di lealtà che si era impegnato a rispettare con l’Istituzione d’appartenenza.

Ponendo in essere una condotta tanto più grave se si considera il compito che l’Arma istituzionalmente svolge e che è quello di contrastare le condotte contrarie alla legalità.

Cosicché non possono valere a compensare gli effetti derivanti dall’accertamento penale i richiami, effettuati nel gravame ex art.1355 c.o.m., ai positivi precedenti di servizio del militare, rientrando nella discrezionalità dell’amministrazione, sindacabile com’è noto solo in presenza di manifesta illogicità, la valutazione della loro inidoneità ad escludere la sanzione disciplinare più grave ovvero ad infliggerne altra di tipo diverso.

Con l’ultimo motivo dedotto parte appellante lamenta che il primo giudice ha omesso di esaminare la dedotta violazione dell’art.1387 e degli adempimenti quivi disposti.

In particolare dalla documentazione relativa al procedimento disciplinare si evincerebbe il mancato espletamento da parte dell’Amministrazione delle attività contemplate dai commi 2° e 4° della citata norma, previste in funzione di garanzia della trasparenza del complessivo procedimento, nonché a presidio del diritto di difesa del militare incolpato.

Il motivo è infondato .

Se è vero infatti che il motivo qui in esame non è stato considerato dal primo giudice, non per questo deve giungersi al suo accoglimento con la conseguente riforma della sentenza impugnata.

E’ parimenti vero infatti che quand’anche si dovesse ritenere che sono stati omessi gli adempimenti descritti nei commi evocati, poiché in essi si descrivono adempimenti formali (quali;
la comunicazione scritta dell'autorità che ha formato la commissione di disciplina della convocazione della stessa al militare inquisito o al suo difensore, trasmettendo , contemporaneamente, ai componenti della commissione l'ordine di convocazione e al presidente gli atti dell'inchiesta (comma 2°), ovvero la dichiarazione del Presidente della commissione di disciplina e degli altri suoi componenti, d’aver esaminato gli atti trasmessi (4° comma), non può limitarsi parte appellante a dolersene senza fornire né un principio di prova della loro mancata effettuazione, né, e soprattutto, fornire la dimostrazione che in concreto la loro omissione ha effettivamente inciso negativamente sulla trasparenza dell’attività della Commissione di disciplina ovvero sul suo diritto di difesa.

Anche quest’ultima censura deve quindi essere respinta.

In conclusione nessuna delle censure esposte nel gravame è fondata.

La particolarità della controversia consente la compensazione delle spese del giudizio.

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