Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza 2020-03-18, n. 202001935
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Pubblicato il 18/03/2020
N. 01935/2020REG.PROV.COLL.
N. 07283/2017 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 7283 del 2017, proposto dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, dal Ministero dell'Economia e delle Finanze e dal Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, in persona dei rispettivi legali rappresentati
pro tempore
, rappresentati e difesi dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso cui domiciliano
ex lege
in Roma, via dei Portoghesi, n. 12;
contro
la Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia, in persona del legale rappresentante p.t., rappresentato e difeso dall'avvocato E V, con domicilio eletto presso l’Ufficio di gabinetto della Regione, in Roma, piazza Colonna, n. 355;
nei confronti
del Comune di Trivignano Udinese e del Comune di Majano, non costituitisi in giudizio;
per la riforma
della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio n. 3400 del 2017.
Visto il ricorso in appello con i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio della Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore alla pubblica udienza del giorno 13 febbraio 2020 il consigliere S M;
Uditi l’avvocato E V e l’avvocato dello Stato Eugenio De Bonis;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO e DIRITTO
1. La Regione Friuli Venezia Giulia si costituiva innanzi al TAR per il Lazio, ai sensi e per gli effetti dell’art. 10 d.P.R. n. 1199 del 1971, per la prosecuzione del giudizio conseguente alla trasposizione del ricorso straordinario proposto ai sensi dell’art. 48 c.p.a avverso l’atto del Dipartimento della Ragioneria Generale dello Stato, Ispettorato Generale per i Rapporti Finanziari con l’Unione Europea, del Ministero dell’Economia e delle Finanze, che in data 1° aprile 2016 aveva notificato la sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, emessa in data 2 dicembre 2014, in esito alla causa C – 193/13, con la quale la Repubblica Italiana è stata condannata al pagamento di una somma forfettaria iniziale di 40 milioni di euro ed a penalità finanziarie semestrali fino al completo superamento della situazione di non conformità alla normativa europea delle discariche “abusive” situate nel territorio italiano.
Per dare esecuzione a tale sentenza, il Ministero dell’Economia e delle Finanze aveva provveduto, nel corso dell’anno 2015, a pagare l’importo della sanzione iniziale di 40 milioni di euro, oltre ad 85.589,04 a titolo di interessi di mora, e della prima penalità semestrale pari a 39,8 milioni di euro, a titolo di anticipazione ai sensi dell’art. 43, comma 9 bis , della legge n. 234 del 2012, salvo rivalsa a carico delle amministrazioni responsabili delle violazioni censurate dalla Corte di Giustizia Europea.
Ai fini della procedura di rivalsa, l’amministrazione aveva effettuato l’imputazione delle penalità già pagate tra le discariche interessate sulla base degli elementi desumibili dalla sentenza della Corte di Giustizia che attribuisce una penalità di 400.000 euro per le discariche contenenti rifiuti pericolosi e 200.000 euro per quelle con rifiuti non pericolosi.
In esito a tali analisi, alle discariche situate nel territorio della Regione Friuli Venezia Giulia sanzionate dalla Corte di Giustizia UE risultava imputato l’importo complessivo di euro 764.670,50, rispetto alle penalità complessivamente anticipate dal Ministero dell’Economia e delle Finanze, importo che avrebbe dovuto essere reintegrato ai sensi del citato art. 43, comma 9 bis, della legge n. 234 del 2012.
Pertanto, ai fini del raggiungimento dell’intesa sulle procedure di recupero degli importi anticipati dallo Stato, come previsto dall’art. 43, comma 7, della legge n. 234 del 2012, l’amministrazione statale invitava la Regione Liguria, quale responsabile in solido con i Comuni di Muggia, Trivignano Udinese e Majano, ai sensi dell’art. 250 del d.lgs. n. 152 del 2006, a voler concordare con gli enti locali le modalità attraverso le quali provvedere al suddetto reintegro che, in base alla normativa vigente, può avvenire anche mediante compensazione, fino a concorrenza dei relativi importi, con altri trasferimenti dovuti dallo Stato.
Il Ministero aveva concluso che, decorso il termine di 90 giorni senza alcuna indicazione in merito alle modalità di reintegro, si sarebbe proceduto al recupero delle risorse in questione a carico dei singoli Enti interessati ai sensi della normativa vigente.
2. In primo grado, la Regione articolava le censure così sintetizzate dal TAR:
- la procedura di recupero attivata dal Ministero che assegna alla Regione un termine di 90 giorni era in contrasto con le disposizioni previste dell’art. 43, comma 7, legge n. 234 del 2012;
- il Ministero dell’Ambiente ed il Ministero dell’Economia e delle Finanze non avrebbero condotto alcuna istruttoria, sito per sito, sulle eventuali responsabilità dei singoli enti territoriali in punto di violazioni del diritto dell’Unione alla luce della normativa nazionale e regionale del settore, mentre l’Autorità statale si sarebbe limitata ad individuare come astrattamente responsabili Regione e Comuni sulla base dell’art. 250 d.lgs. n. 152 del 2006;
- una corretta analisi avrebbe evidenziato, con riferimento a due discariche del Friuli Venezia Giulia, che le medesime erano state sanzionate in quanto mancanti del provvedimento formale di chiusura ai sensi dell’art. 14 della direttiva 1999/31 e non in quanto discariche abusive costituenti siti da bonificare:
- sulla base della normativa regionale, la competenza ad adottare i provvedimenti sarebbe propria della Provincia, e non di Regione/Comuni;
- il MEF non avrebbe riconosciuto alcuna parte di responsabilità allo Stato nonostante quanto sottolineato dalla Corte di Giustizia circa una carenza di sistema nella gestione della materia rifiuti, di competenza legislativa esclusiva dello Stato;
- la circostanza che la sentenza europea preveda una sanzione forfettaria non potrebbe tradursi, internamente, in una mera divisione matematica per numero di discariche;
- alle Regioni/Comuni sarebbe stato imputato anche il ritardo dello Stato nel pagamento della penalità.
3. Si costituivano in giudizio anche i Comuni di Muggia, Trivignano Udinese e Majano, concludendo per l’accoglimento del ricorso.
4. Il TAR:
- ha dichiarato inammissibile la costituzione in giudizio dei Comuni di Muggia, Trivignano Udinese e Majano perché, in quanto soggetti direttamente lesi dal provvedimento gravato, detti Comuni, al pari della Regione ricorrente, avrebbero dovuto proporre il ricorso giurisdizionale in via autonoma;
- nel merito, ha accolto il ricorso e annullato gli atti impugnati.
5. La sentenza è stata impugnata dalla Presidenza del Consiglio, dal Ministero dell’Economia e delle Finanze e dal Ministero dell’Ambiente, i quali hanno dedotto:
I) Violazione degli artt. 100 cod. proc. civ. e 39 c.p.a.. Omessa declaratoria dell’inammissibilità del ricorso, per carenza di interesse, in quanto diretto contro atto non provvedimentale .
L’Avvocatura dello Stato ha ricordato, in primo luogo, che relativamente al caso della rivalsa conseguente alle sentenze di condanna della Corte di Giustizia dell’Unione europea, con l’art. 4- bis del decreto-legge 5 gennaio 2015, n. 1, introdotto dalla legge di conversione 4 marzo 2015, n. 20, era stato inserito un nuovo comma, il 9- bis , nel detto art. 43, il quale non stabiliva più che l’emissione dei provvedimenti di recupero dovesse avvenire previa intesa con gli enti interessati, così come originariamente previsto dal (mai abrogato) comma 7 del medesimo art. 43.
Successivamente però, con due interventi normativi in rapida successione, questo comma è stato modificato due volte.
L’art. 43, comma 9- bis , è stato, infatti, dapprima modificato dall’art. 9, comma 8, del decreto-legge 19 giugno 2015, n. 78, convertito con l. 6 agosto 2015, n. 125 e, poi, integralmente sostituito dall’art. 1, comma 813, dalla legge 28 dicembre 2015, n. 208 (legge di stabilità 2016), per effetto del quale la disposizione impugnata ha assunto il seguente tenore: « Ai fini della tempestiva esecuzione delle sentenze di condanna rese dalla Corte di giustizia dell’Unione europea ai sensi dell’articolo 260, paragrafi 2 e 3, del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, al pagamento degli oneri finanziari derivanti dalle predette sentenze si provvede a carico del fondo di cui all’articolo 41-bis, comma 1, della presente legge, nel limite massimo di 50 milioni di euro per l’anno 2016 e di 100 milioni di euro annui per il periodo 2017-2020. A fronte dei pagamenti effettuati, il Ministero dell’economia e delle finanze attiva il procedimento di rivalsa a carico delle amministrazioni responsabili delle violazioni che hanno determinato le sentenze di condanna, anche con compensazione con i trasferimenti da effettuare da parte dello Stato in favore delle amministrazioni stesse ».
Con sentenza n. 147 del 2016, la Corte costituzionale ha chiarito che il nuovo comma 9- bis deve essere « letto unitamente al comma 7 dello stesso art. 43, il quale prevede che i decreti ministeriali emanati al fine di stabilire la misura degli importi dovuti allo Stato a titolo di rivalsa, “qualora l’obbligato sia un ente territoriale, sono emanati previa intesa sulle modalità di recupero con gli enti obbligati ».
In sintesi, risulta confermato che l’emissione del provvedimento di recupero postula la ricerca della previa intesa con l’ente competente, da perfezionarsi entro quattro mesi e che, ai sensi del successivo comma 8 del medesimo art. 43, in caso di mancato raggiungimento dell’intesa, all’adozione del provvedimento esecutivo di recupero debba provvedere il Presidente del Consiglio dei Ministri.
Ciò posto, emergerebbe dagli atti che – nonostante una certa ambiguità derivante dall’intimazione con cui si chiudeva l’atto impugnato (« decorso il termine di 90 giorni » etc.) – il Ministero dell’Economia e delle Finanze e il Governo nel suo complesso avrebbero costantemente ritenuto essenziale la ricerca della previa intesa con gli enti interessati, ai sensi del comma 7 dell’art. 43.
Questa essendo la pacifica interpretazione data agli atti dal loro autore, sarebbe evidente come – anche in conseguenza della sospensione del termine accordata il 26 maggio 2016 – al momento in cui il TAR si è pronunciato era ancora in corso il termine di quattro mesi che il citato comma 7 assegna alle parti per la ricerca dell’intesa.
Spirato tale termine, nel caso in cui fosse stata raggiunta l’intesa, sarebbe stato emesso il decreto del Ministero dell’Economia e delle Finanze, adottato con il concerto degli enti interessati, mentre, nel caso in cui l’intesa fosse mancata, la Presidenza del Consiglio dei Ministri avrebbe dovuto valutare l’adozione dell’atto previsto dal comma 8 del medesimo art. 43.
In questo contesto, una lesione per gli enti interessati sarebbe potuta, alternativamente, derivare solo:
- dalla emissione, da parte del Ministero dei decreti previsti dai commi 6 e 7 del citato art. 43, in assenza delle previa intesa o con contenuti che si discostassero dalla raggiunta intesa, ovvero
- dall’adozione, da parte del Presidente del Consiglio dei Ministri, del provvedimento previsto dal successivo comma 8, con il quale esso avrebbe unilateralmente determinato – salva, appunto, la facoltà di contestazione giudiziale da parte degli interessati – la misura della rivalsa. In nessun caso l’atto impugnato sarebbe stato suscettibile di incidere direttamente nella sfera giuridica degli enti destinatari.
Nessuna lesione per l’ente ricorrente si sarebbe, dunque, prodotta per effetto del decorso del termine di novanta giorni che – forse inopportunamente – era stato indicato nell’atto del Dipartimento della Ragioneria Generale.
Prova ne sia il fatto che nessun effetto si è prodotto nella sfera di quegli enti territoriali che non hanno impugnato l’atto e che si sono limitati a contestare stragiudizialmente la propria responsabilità;questi enti, esattamente come l’odierno appellato, dovranno infatti partecipare al procedimento di ricerca dell’intesa di cui all’art. 43, comma 7, e saranno, infine, attinti dal decreto (“concertato”) previsto dal comma 6, da quello (“unilaterale”) previsto dal comma 8 ovvero da nessun provvedimento, se tale sarà la valutazione discrezionale della Presidenza del Consiglio dei ministri all’esito della detta istruttoria.
L’esito di tale fase, allo stato, non è predeterminabile, soprattutto per quelli situazioni – come ad esempio le aree che costituiscono i siti di interesse nazionale (c.d. «S.I.N.») – per le quali può, sia pure in astratto, ipotizzarsi un coinvolgimento di responsabilità di organi statali.
Il ricorso avrebbe quindi dovuto essere dichiarato inammissibile perché indirizzato nei confronti di un atto endoprocedimentale o comunque perché avrebbe sostanzialmente introdotto un’azione di accertamento negativo della responsabilità dell’ente territoriale (in assenza di giurisdizione esclusiva del g.a., in materia);
II. Violazione dell’art. 43 della legge n. 234 del 2012 .
La sentenza sarebbe criticabile anche nel merito. Data la natura endoprocedimentale dell’atto, ad esso non potrebbe imputarsi una carenza di istruttoria e il mancato previo accertamento delle responsabilità degli enti coinvolti (in ipotesi, delle responsabilità anche statali, e non solo degli enti territoriali): quell’accertamento avrebbe dovuto essere, per l’appunto, il risultato dell’istruttoria che, con la iniziale contestazione della Ragioneria, prendeva avvio, e non un prius logico dell’atto medesimo di avvio.
Poiché la legge indica prioritariamente l’intesa – come modalità di determinazione delle responsabilità – il Ministero non era tenuto ad effettuare il previo “accertamento delle responsabilità attribuite”;peraltro, ai sensi del cit. art 43, non ne avrebbe avuto neanche il potere.
Al detto Ministero compete infatti esclusivamente la fase della ricerca dell’intesa, nel coinvolgimento di tutti gli enti interessati, mentre la valutazione delle singole responsabilità è posta dalla legge in capo al Presidente del Consiglio dei ministri, “a valle” dell’eventuale fallimento del procedimento di intesa.
Quanto alla questione della sussistenza, o meno, di un diritto di rivalsa dello Stato, l’equivoco di fondo in cui sarebbe in corso il TAR consisterebbe nell’avere identificato nello Stato e non nella Repubblica italiana il destinatario delle sentenze della Corte di giustizia dell’Unione europea.
L’imputazione della responsabilità ai Comuni nel cui territorio sono situate le discariche controverse, si fonda sull’art. 250 del decreto legislativo n. 152 del 2006, ai sensi del quale qualora i soggetti responsabili della contaminazione non provvedano ovvero non siano individuabili e non provvedono né il proprietario del sito né altri soggetti interessati, le procedure e gli interventi “ sono realizzati d’ufficio dal comune territorialmente competente e, ove questo non provveda, dalla Regione ”.
Da questa norma si evince con chiarezza che una responsabilità solidale delle Regioni e dei Comuni interessati può discendere dal mancato o inefficace esercizio di competenze amministrative proprie, in forza delle quali il Comune è tenuto a realizzare d’ufficio gli interventi di bonifica della discarica e la Regione è tenuta a surrogarsi nell’obbligo dei Comuni di realizzare d’ufficio tali interventi sulle aree interessate.
La sentenza della Corte di Giustizia del dicembre 2014, della cui esecuzione si tratta, è stata resa su ricorso proposto dalla Commissione europea ai sensi dell’art. 260 TFUE, in quanto le autorità italiane avevano omesso di dare esecuzione a una precedente sentenza della Corte di giustizia UE, resa il 26 aprile 2007, nella causa C-135/05, Commissione/Repubblica italiana.
Con tale sentenza era stato accertato l’inadempimento della Repubblica italiana in relazione a un elevato numero di discariche per le quali, tra l’altro, “le autorità competenti” nazionali avevano omesso di adottare “ una decisione definitiva sull’eventuale proseguimento delle operazioni, facendo chiudere al più presto le discariche che non ottengano l’autorizzazione a continuare a funzionare, o autorizzando i necessari lavori e stabilendo un periodo di transizione per l’attuazione del piano ”.
Le discariche oggetto della più recente sentenza sono, dunque, parte di un più ampio numero di siti per i quali, sin dal 26 aprile 2007, era stata giudizialmente accertata l’inerzia dei soggetti originariamente competenti a eseguire gli interventi.
Si erano quindi da anni realizzate le condizioni di fatto che avrebbero imposto ai Comuni di intervenire e alle Regioni interessate di esercitare il proprio potere “sostitutivo”.
Secondo le amministrazioni appellanti, a differenza del generale potere sostitutivo dello Stato nei confronti degli enti territoriali previsto dalla legge n. 131 del 2003 o da altre leggi speciali (ad es. la stessa legge 234 del 2012), il cui esercizio costituirebbe mera facoltà dello Stato, il subentro delle Regioni nelle competenze spettanti, in materia, ai Comuni costituisce oggetto di uno specifico e puntuale obbligo di legge. Si tratterebbe peraltro di una responsabilità “da risultato”, che non potrebbe essere esclusa sulla base di aspetti soggettivi.
In altre parole, la finalità dell’art. 43 della legge 234 del 2012 – il cui scopo principale è certamente quello di stabilire una deterrenza rispetto a condotte che espongono a sanzione la Repubblica italiana – non sarebbe quello di sanzionare i soggetti pubblici per una condotta colpevole, quanto di stabilire, sul piano interno, un corretto riparto dell’onere economico delle sanzioni UE, attraverso la costituzione di una sorta di “posizione di garanzia” presso l’ente pubblico che, per legge, è chiamato a esercitare le attività dovute.
In ogni caso, non potrebbe ipotizzarsi una mera inversione dell’onere della prova a carico dello Stato – ritenere, cioè, che lo Stato debba rispondere se non prova la responsabilità di altro ente pubblico – proprio perché la sentenza della Corte di giustizia che applica la sanzione non reca alcun accertamento della responsabilità dello “Stato” (che, se così fosse, sarebbe in effetti tenuto a rivalersi secondo le regole poste dall’art. 2055 cod. civ., che, peraltro, quanto meno introduce una presunzione di pari responsabilità), ma solo della responsabilità della Repubblica,
Inoltre, anche a volere ritenere, che il diritto di rivalsa postuli la responsabilità soggettiva dell’ente, dovrà trovare applicazione l’art. 1218 c.c. nei confronti dell’ente pubblico titolare dei doveri rimasti ineseguiti
6. Si è costituita, in resistenza, la Regione Friuli Venezia Giulia, riproponendo altresì ai sensi dell’art. 101 c.p.a., tutte le domande ed eccezioni dichiarate assorbite o non esaminate nella sentenza di primo grado.
7. La Regione ha depositato ulteriori memorie, sottolineando come non vi sia prova dello svolgimento di una puntuale istruttoria idonea ad identificare in capo ad essa e ai Comuni coinvolti alcuna concreta responsabilità.
Un corretta analisi avrebbe evidenziato, con riferimento a due discariche della Regione Friuli Venezia Giulia, che le medesime sono state sanzionate in quanto mancanti del provvedimento formale di chiusura ai sensi dell’articolo 14 della direttiva 1999/31, e non in quanto discariche “abusive” costituenti siti da bonificare.
Anche con riferimento al sito di Porto San Rocco, il richiamo all’articolo 250 appare non corretto, posto che il soggetto attuatore dell’attività di bonifica ha sempre provveduto a quanto dovuto (ancorché non responsabile) e, dunque, non vi sono mai stati i presupposti per un intervento sostitutivo ai sensi del citato articolo. Infine, va evidenziato che l’appello non riesce in alcun modo a giustificare sul piano giuridico l’automatica esclusione della responsabilità dello Stato operata dal provvedimento impugnato che, ingiustamente, la attribuisce esclusivamente alla Regione e ai Comuni, in assenza di qualsivoglia attività istruttoria.
8. L’appello, infine, è passato in decisione alla pubblica udienza del 13 febbraio 2020.
9. L’appello è infondato e deve essere respinto.
Al riguardo, si osserva quanto segue.
10. Il provvedimento impugnato in primo grado è l’atto del 1° aprile 2016 con cui il MEF ha notificato la sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, emessa in data 2 dicembre 2014, in esito alla causa C – 193/13, con la quale la Repubblica Italiana è stata condannata al pagamento di una somma forfettaria iniziale di 40 milioni di euro ed a penalità finanziarie semestrali fino al completo superamento della situazione di non conformità alla normativa europea delle discariche abusive situate nel territorio italiano.
Ai fini della procedura di rivalsa, l’amministrazione ha operato l’imputazione delle penalità già pagate tra le discariche interessate “ sulla base degli elementi desumibili dalla sentenza della Corte di Giustizia ” che attribuisce una penalità di 400.000 euro per le discariche contenenti rifiuti pericolosi e 200.000 euro per quelle con rifiuti non pericolosi.
11. Nel merito, il primo giudice ha sostanzialmente affermato che l’art. 43, comma 4, della l. n. 234 del 2012, richiede espressamente che lo Stato individui i responsabili della violazione al fine di procedere legittimamente all’azione di rivalsa. Il corpus normativo in materia prevede infatti lo svolgimento di una fase propedeutica a quella dell’esercizio dell’azione di rivalsa, “ vale a dire l’individuazione delle relative responsabilità, che postulano il mancato esercizio del potere di provvedere [...]”. Tali responsabilità possono astrattamente sussistere – come peraltro riconosciuto anche in appello dall’Avvocatura dello Stato - sia in capo allo Stato che alle Regioni e agli enti locali.
Tuttavia, nella fattispecie, il Ministero dell’Economia e delle Finanze ha automaticamente escluso la responsabilità statale e individuato i Comuni intimati e la Regione “ come responsabili della violazione, in assenza di qualsiasi istruttoria volta all’accertamento delle responsabilità ”.
11. Ciò posto, giova riportare il testo dell’art. 43, della l. n. 234 del 2012, nella parti di interesse per la presente controversia.
“ 1. Al fine di prevenire l'instaurazione delle procedure d'infrazione di cui agli articoli 258 e seguenti del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea o per porre termine alle stesse, le regioni, le province autonome, gli enti territoriali, gli altri enti pubblici e i soggetti equiparati adottano ogni misura necessaria a porre tempestivamente rimedio alle violazioni, loro imputabili, degli obblighi degli Stati nazionali derivanti dalla normativa dell'Unione europea. Essi sono in ogni caso tenuti a dare pronta esecuzione agli obblighi derivanti dalle sentenze rese dalla Corte di giustizia dell'Unione europea, ai sensi dell'articolo 260, paragrafo 1, del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea.
2. Lo Stato esercita nei confronti dei soggetti di cui al comma 1, che si rendano responsabili della violazione degli obblighi derivanti dalla normativa dell'Unione europea o che non diano tempestiva esecuzione alle sentenze della Corte di giustizia dell'Unione europea, i poteri sostitutivi necessari, secondo i principi e le procedure stabiliti dall'articolo 8 della legge 5 giugno 2003, n. 131, e dall'articolo 41 della presente legge. [...].
4. Lo Stato ha diritto di rivalersi sui soggetti responsabili delle violazioni degli obblighi di cui al comma 1 degli oneri finanziari derivanti dalle sentenze di condanna rese dalla Corte di giustizia dell'Unione europea ai sensi dell'articolo 260, paragrafi 2 e 3, del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea.
5. Lo Stato esercita il diritto di rivalsa di cui ai commi 3, 4 e 10:
a) nei modi indicati al comma 7, qualora l'obbligato sia un ente territoriale;
b) mediante prelevamento diretto sulle contabilità speciali obbligatorie istituite presso le sezioni di tesoreria provinciale dello Stato, ai sensi della legge 29 ottobre 1984, n. 720, per tutti gli enti e gli organismi pubblici, diversi da quelli indicati nella lettera a), assoggettati al sistema di tesoreria unica;
c) nelle vie ordinarie, qualora l'obbligato sia un soggetto equiparato e in ogni altro caso non rientrante nelle previsioni di cui alle lettere a) e b).
6. La misura degli importi dovuti allo Stato a titolo di rivalsa, comunque non superiore complessivamente agli oneri finanziari di cui ai commi 3 e 4, è stabilita con decreto del Ministro dell'economia e delle finanze da adottare entro tre mesi dalla notifica, nei confronti degli obbligati, della sentenza esecutiva di condanna della Repubblica italiana. Il decreto del Ministro dell'economia e delle finanze costituisce titolo esecutivo nei confronti degli obbligati e reca la determinazione dell'entità del credito dello Stato nonché l'indicazione delle modalità e dei termini del pagamento, anche rateizzato. In caso di oneri finanziari a carattere pluriennale o non ancora liquidi, possono essere adottati più decreti del Ministro dell'economia e delle finanze in ragione del progressivo maturare del credito dello Stato.
7. I decreti ministeriali di cui al comma 6, qualora l'obbligato sia un ente territoriale, sono emanati previa intesa sulle modalità di recupero con gli enti obbligati. Il termine per il perfezionamento dell'intesa è di quattro mesi decorrenti dalla data della notifica, nei confronti dell'ente territoriale obbligato, della sentenza esecutiva di condanna della Repubblica italiana. L'intesa ha ad oggetto la determinazione dell'entità del credito dello Stato e l'indicazione delle modalità e dei termini del pagamento, anche rateizzato. Il contenuto dell'intesa è recepito, entro un mese dal perfezionamento, con provvedimento del Ministero dell'economia e delle finanze, che costituisce titolo esecutivo nei confronti degli obbligati. In caso di oneri finanziari a carattere pluriennale o non ancora liquidi, possono essere adottati più provvedimenti del Ministero dell'economia e delle finanze in ragione del progressivo maturare del credito dello Stato, seguendo il procedimento disciplinato nel presente comma .
8 . In caso di mancato raggiungimento dell'intesa, all'adozione del provvedimento esecutivo indicato nel comma 7 provvede il Presidente del Consiglio dei Ministri, nei successivi quattro mesi, sentita la Conferenza unificata di cui all'articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, e successive modificazioni. In caso di oneri finanziari a carattere pluriennale o non ancora liquidi, possono essere adottati più provvedimenti del Presidente del Consiglio dei Ministri in ragione del progressivo maturare del credito dello Stato, seguendo il procedimento disciplinato nel presente comma . [...]
9-bis. Ai fini della tempestiva esecuzione delle sentenze di condanna rese dalla Corte di giustizia dell'Unione europea ai sensi dell'articolo 260, paragrafi 2 e 3, del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea, al pagamento degli oneri finanziari derivanti dalle predette sentenze si provvede a carico del fondo di cui all'articolo 41-bis, comma 1, della presente legge, nel limite massimo di 50 milioni di euro per l'anno 2016 e di 100 milioni di euro annui per il periodo 2017-2020. A fronte dei pagamenti effettuati, il Ministero dell'economia e delle finanze attiva il procedimento di rivalsa a carico delle amministrazioni responsabili delle violazioni che hanno determinato le sentenze di condanna, anche con compensazione con i trasferimenti da effettuare da parte dello Stato in favore delle amministrazioni stesse ”.
13. Il primo motivo di appello è incentrato sull’asserita natura endoprocedimentale dell’atto impugnato, il quale rappresenterebbe il mero avvio del procedimento di rivalsa, sia pure formulato nei termini di una invito a provvedere (pena l’avvio delle procedure di recupero).
Le Amministrazioni appellanti ammettono infatti che la disciplina recata dall’art. 43 testé menzionato, nel caso degli enti territoriali, richiede “ la ricerca della previa intesa con l’ente competente, da perfezionarsi entro quattro mesi, e che, ai sensi del successivo comma 8 del medesimo art. 43, in caso di mancato raggiungimento dell’intesa, all’adozione del provvedimento di recupero debba provvedere il Presidente del Consiglio dei Ministri ”.
E’ agevole rilevare che ciò è quanto sostanzialmente affermato dallo stesso TAR, laddove ha stigmatizzato l’assenza di una fase propedeutica all’esercizio dell’azione di rivalsa, così come procedimentalizzata dalla fonte primaria, deputata all’accertamento dell’ an e del quantum debeatur .
L’intesa prevista dall’art. 43, comma 7, della l. n. 234 del 2012 è infatti finalizzata non solo all’individuazione delle modalità di recupero ma anche alla determinazione della somma dovuta (cfr. il secondo periodo, secondo cui “ L'intesa ha ad oggetto la determinazione dell'entità del credito dello Stato e l'indicazione delle modalità e dei termini del pagamento, anche rateizzato ”).
13.1. Per quanto concerne la natura dell’atto impugnato, vanno distinti gli atti che consistono nel formale avvertimento — indirizzato ad un soggetto (pubblico o privato), tenuto all’osservanza di un obbligo in base ad un preesistente titolo (legge, sentenza, atto amministrativo, contratto) — di ottemperare all’obbligo stesso, da quelli che hanno, invece, un’autonoma valenza provvedimentale.
I primi non hanno carattere novativo dei suddetti obblighi e usualmente il loro effetto consiste nel far decorrere un termine dilatorio per l’adozione di provvedimenti sfavorevoli nei confronti dei soggetti destinatari i quali, nonostante l’intimazione, siano rimasti inadempienti.
Le diffide e/o gli inviti in senso stretto, proprio per il loro carattere ricognitivo di obblighi che l’amministrazione assume come preesistenti e per il fatto di non vincolare la successiva azione amministrativa, non sono atti immediatamente lesivi della sfera giuridica del destinatario (cfr. Cons. Stato, sez. IV, sentenza n. 62 del 5 gennaio 2018).
Nel caso di specie l’atto impugnato non è una semplice diffida né un invito, poiché ha proceduto autonomamente a determinare l’ammontare delle somme dovute dai Comuni intimati, sull’assunto dell’imputabilità della violazione delle norme comunitarie e della sussistenza della responsabilità in via solidale della Regione.
Inoltre, escludendo qualsivoglia responsabilità dello Stato, ha effettuato sostanzialmente anche una graduazione delle relative responsabilità.
Si tratta dunque di un atto complesso che, in violazione dei presupposti e della sequenza procedimentale configurata dall’art. 43 della l. n. 234 del 2014, ha aprioristicamente individuato l’ an e il quantum delle rispettive responsabilità, determinando il “credito” vantato dallo Stato.
A tale riguardo, la Corte Costituzionale (cfr., in particolare, la sentenza n. 147 del 2016) ha chiarito che se è vero, secondo quanto prevede il comma 9 – bis del cit. art. 43, che ai fronte dei pagamenti effettuati dallo Stato “ il Ministero dell’Economia e delle Finanze attiva il procedimento di rivalsa a carico delle amministrazioni responsabili delle violazioni che hanno determinato le sentenze di condanna, anche con compensazione con i trasferimenti da effettuare da parte dello Stato in favore delle amministrazioni stesse ”, tuttavia tale disposizione (nel testo derivante dall’art. 1, comma 813, della l. n. 208 del 2015) deve essere letta unitamente al comma 7 dello stesso art. 43 il quale prevede che i decreti ministeriali emanati al fine di stabilire la misura degli importi dovuti allo Stato a titolo di rivalsa, qualora l’obbligato sia un ente territoriale, sono emanati previa intesa sulle modalità di recupero con gli enti obbligati.
L’atto impugnato, nel caso di specie, non risponde quindi né allo schema della diffida in senso stretto né ad una mera comunicazione di avvio del procedimento, poiché accerta e ripartisce responsabilità imponendo altresì un termine per provvedere.
Va poi soggiunto che, a differenza di quanto sostenuto dall’amministrazione, è irrilevante il fatto che, al momento in cui il TAR si è pronunciato, fosse ancora in corso il termine di quattro mesi per il raggiungimento dell’intesa, in ragione della “sospensione” accordata dal MEF del termine di 90 giorni indicato nell’atto impugnato.
Questa sospensione riguardava infatti solo il termine concesso per adempiere ma non comportava la rimozione dell’atto impugnato.
Restava quindi impregiudicato il presupposto dell’atto, ossia la responsabilità dei Comuni e della Regione.
14. Relativamente al secondo mezzo di gravame, va precisato che in primo grado la Regione non ha svolto una domanda di accertamento (dell’insussistenza della propria responsabilità) bensì soltanto di annullamento e che il TAR, al riguardo, si è limitato a constatare l’inosservanza del procedimento prescritto per l’individuazione e ripartizione delle responsabilità.
Ad ogni buon conto, la tesi dell’Avvocatura dello Stato relativa all’esistenza di una sorta di responsabilità oggettiva degli enti locali e della Regione, derivante da una posizione di “garanzia” connessa alle rispettive attribuzioni istituzionali, contrasta con la formulazione letterale delle disposizioni in esame, ed in particolare con il quarto comma dell’art. 43, secondo cui “ Lo Stato ha diritto di rivalersi sui soggetti responsabili delle violazioni [...]”.
La fonte primaria non reca infatti alcuna deroga ai principi generali vigenti in materia.
In tal senso, anche la Corte Costituzionale (sentenza n. 219 del 2016) - relativamente all’analoga disposizione di cui all’art. 16, comma 5- bis della legge 4 febbraio 2005, n. 11, che prevede il diritto di rivalsa dello Stato nei confronti delle amministrazioni locali responsabili di violazioni della CEDU- ha escluso l’esistenza di un automatismo nella condanna dell’amministrazione locale in sede di rivalsa e, conseguentemente, di una deroga al principio dell’imputabilità.
Compete pertanto “ sia alla Presidenza del Consiglio dei ministri, in sede di adozione del decreto costituente titolo esecutivo, sia al giudice adìto, in sede di contestazione giudiziale dello stesso, la valutazione dell'incidenza causale dell'azione delle amministrazioni territoriali nella produzione del danno e la comparazione delle responsabilità di queste ultime rispetto a quelle dello Stato ”.
Nell’ambito di tale valutazione “ assumono rilievo pregnante [...] le ragioni della violazione della CEDU ricavabili dall’accertamento compiuto nella sentenza di condanna del giudice europeo;se sia possibile disapplicare la normativa interna ritenuta in contrasto con il diritto europeo;se sia illegittimo l’operato dell’ente territoriale con riferimento alla disciplina dell'ordinamento interno;se l’ente stesso sia titolare di potestà normativa primaria. Il requisito dell'imputabilità risulta, infatti, immanente al concetto stesso di responsabilità ed è coerente con la ratio dell'intera normativa sull'esercizio della rivalsa per violazioni del diritto europeo, con riferimento sia alle condanne della Corte di giustizia, sia a quelle della Corte EDU, in quanto volta alla prevenzione di tali violazioni attraverso la responsabilizzazione dei diversi livelli di governo coinvolti nell'attuazione del diritto europeo ”.
In sostanza, la sentenza della Corte di Giustizia, è solo il presupposto per l’esercizio dell’azione di rivalsa. Quest’ultima deve quindi fondarsi su autonome valutazioni di responsabilità da esporsi e rappresentarsi nel decreto di rivalsa al termine di un procedimento amministrativo partecipato, secondo la scansione disciplinata dall’art. 43 della l. n. 234 del 2012.
Il tutto soggetto -nel caso di contestazione- al controllo del giudice della questione che è alla base della pretesa di rivalsa.
In tal senso, nel caso di specie, a differenza di quanto sostenuto dalle Amministrazioni statali, deve ritenersi la sussistenza non solo di posizioni di interessi legittimo correlate all’esercizio di un potere autoritativo (non del tutto dissimile da quello attribuito al Ministero dell’ambiente dagli articoli 313 ss. del decreto legislativo n. 152 del 2006, in tema di risarcimento del danno ambientale), ma anche della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, in quanto trattasi di controversia che riguarda la “ complessiva azione di gestione del ciclo dei rifiuti ” (art. 133, comma 1, lett. p. del c.p.a.;cfr. anche, Cass. civ., Sez. Un., 28 giugno 2013, n. 16304) ovvero all’uso del territorio (art. 133, comma 1, lett. f;cfr. anche Cass.civ., Sez. Un, 7 settembre 2016, n. 17674).
15. In definitiva, per quanto testé argomentato, l’appello deve essere respinto, con conseguente conferma della sentenza impugnata.
La novità delle questioni giustifica peraltro l’integrale compensazione delle spese del grado tra le parti.