Consiglio di Stato, sez. III, sentenza 2015-05-13, n. 201502374

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Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. III, sentenza 2015-05-13, n. 201502374
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 201502374
Data del deposito : 13 maggio 2015
Fonte ufficiale :

Testo completo

N. 10474/2009 REG.RIC.

N. 02374/2015REG.PROV.COLL.

N. 10474/2009 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Terza)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 10474 del 2009, proposto da:
G C, rappresentato e difeso dall'avv. P P, con domicilio eletto in Roma, Via Goito, n. 29 int. 2;

contro

Ministero dell'Interno, in persona del Ministro p.t., rappresentato e difeso per legge dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliata in Roma, Via dei Portoghesi, n. 12;

per la riforma

della sentenza del T.A.R. per la Toscana, Sezione I, n. 2959 del 26 novembre 2008, resa tra le parti, concernente la destituzione dal servizio.


Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visto l'atto di costituzione in giudizio del Ministero dell'Interno;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 23 aprile 2015 il Cons. Dante D'Alessio e uditi per le parti l’avvocato Cataldo, su delega dell’avvocato Patelmo, e l’avvocato dello Stato Carlo Maria Pisana;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO e DIRITTO

1.- Il signor G C, all’epoca Assistente della Polizia di Stato, ha impugnato davanti al T.A.R. per la Toscana il decreto, in data 4 dicembre 2003, con il quale il Capo della Polizia gli ha inflitto la sanzione disciplinare della destituzione dal servizio. Il signor Consigliero ha poi impugnato anche il decreto, in data 14 gennaio 2004, con il quale il Capo della Polizia ha annullato in autotutela il precedente decreto del 25 novembre 2003 con il quale gli era stata riconosciuta la qualifica di Assistente capo.

1.1.- Il provvedimento di destituzione era stato adottato a seguito dell’ordinanza con la quale la Corte di Cassazione, in data 27 febbraio 2013, aveva dichiarato inammissibile il ricorso proposto dal signor Consigliero contro la sentenza con la quale la Corte d’Appello di Napoli aveva confermato, in data 4 febbraio 2002, la condanna del signor Consigliero alla pena di anni tre di reclusione, lire cinque milioni di multa, e all’interdizione dai pubblici uffici per anni cinque, perché ritenuto responsabile dei reati di cui agli articoli 112 n.1, 81 e 648 (ricettazione) del c.p. penale.

2.- Il T.A.R. per la Toscana, con sentenza della Sezione I, n. 2959 del 26 novembre 2008, ha respinto il ricorso.

3.- Il signor Consigliero ha appellato l’indicata sentenza del T.A.R. ritenendola erronea sotto diversi profili.

4.- Con il primo motivo di appello il signor Consigliero ha sostenuto che erroneamente il T.A.R. ha ritenuto che l’Amministrazione ha rispettato il termine perentorio stabilito dall’art. 9, comma 2, della legge n. 19 del 1990 per la conclusione del procedimento disciplinare.

4.1.- Il motivo non è fondato.

L’art. 9, comma 2, della legge n. 19 del 7 febbraio 1990, prevede un termine di 180 giorni, decorrente dalla data in cui l'Amministrazione ha avuto notizia della sentenza irrevocabile di condanna, per l’avvio del procedimento disciplinare o per la prosecuzione del procedimento sospeso, e un termine di 90 giorni per la conclusione del procedimento.

La giurisprudenza, in proposito, ha chiarito che il predetto termine di 180 giorni, entro il quale deve essere iniziato il procedimento disciplinare, si cumula con il termine di 90 giorni previsto per la conclusione dello stesso, con la conseguenza che è concesso all’Amministrazione un termine complessivo di 270 giorni per concludere il procedimento disciplinare (fra le più recenti, Consiglio di Stato, Sezione III, n. 1359 del 16 marzo 2015).

4.2.- Sulla questione si è pronunciata anche l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato che, con le decisioni numero 4, 5 e 7 del 25 gennaio 2000, ha chiarito che il termine di 90 giorni decorre dalla “scadenza virtuale” del primo termine, sicché il tempo che non può essere superato, a pena di violazione della perentorietà del termine, è quello totale di 270 gg. (180 + 90) desumibile dalla legge.

Con la decisione n. 1 del 14 gennaio 2004 l’Adunanza Plenaria ha confermato l’orientamento precedente anche alla luce della sopravvenuta legge 27 marzo 2001, n. 97 che ha stabilito, all’art. 5, comma 4, che, nel caso di sentenza penale irrevocabile di condanna nei confronti di un dipendente pubblico, l'estinzione del rapporto di impiego può essere pronunciata a seguito di procedimento disciplinare che deve avere inizio o, in caso di intervenuta sospensione, deve proseguire entro il termine di 90 giorni dalla comunicazione della sentenza all'Amministrazione o all'ente competente per il procedimento disciplinare e deve concludersi entro 180 giorni decorrenti dal termine di inizio o di proseguimento dell’azione.

4.3.- La giurisprudenza ha poi precisato che il termine per l'instaurazione o la riattivazione del procedimento disciplinare, previsto dalla citata legge n. 97 del 2001, decorre dalla comunicazione della sentenza irrevocabile di condanna all'Amministrazione e che tale soluzione risponde alla duplice esigenza di non procrastinare eccessivamente il potere disciplinare dell'Amministrazione, così tutelando il diritto del lavoratore, nonché di evitare che il termine decorra anteriormente al passaggio in giudicato della sentenza ed all'avvenuta conoscenza, da parte dell'Amministrazione medesima, dell'irrevocabilità della condanna del proprio dipendente, così evitando che il termine decorra in un periodo nel quale l’Amministrazione sia oggettivamente impossibilitata ad esercitare ogni valutazione in ordine alla instaurazione, ovvero alla riattivazione della procedura disciplinare.

Tale giurisprudenza ha poi escluso ogni dubbio sulla legittimità costituzionale della disciplina in questione perché non potrebbe pretendersi che l’Amministrazione eserciti l'iniziativa disciplinare prima che la situazione di irrevocabilità della condanna penale sia comunque comunicata, eventualmente a cura dello stesso dipendente al fine di impedire una situazione di incertezza per lui pregiudizievole (Consiglio di Stato, Sez. III, n. 4350 del 27 agosto 2014).

4.4.- Nel caso di specie, tenuto conto che il procedimento disciplinare è iniziato con atto di contestazione degli addebiti, notificato all’interessato il 28 agosto 2003, ed è stato concluso il 4 dicembre 2003, con l’irrogazione del provvedimento di destituzione dal servizio, non sussiste, come ha già ritenuto il T.A.R., la lamentata violazione dei termini procedimentali.

5.- Con il secondo motivo di appello il signor Consigliero ha sostenuto l’erroneità della sentenza appellata per aver ritenuto infondato il secondo motivo del ricorso con il quale aveva lamentato la violazione di legge per la falsa applicazione dell’art. 7, numeri 1, 2 e 4 del D.P.R. n. 737 del 1981, nonché l’eccesso di potere per l’erronea valutazione dei fatti e il difetto di motivazione, essendo in realtà insussistenti i presupposti per l’applicazione della gravissima sanzione inflitta.

L’appellante ha insistito nel sostenere che l’Amministrazione aveva il dovere di compiere una valutazione complessiva del comportamento da lui tenuto, estesa anche al periodo ed alla condotta successiva alla condanna, ed ha, in particolare, sostenuto che la sanzione inflitta deve ritenersi illegittima:

perché non emerge, da parte dell’esponente, alcuna mancanza del senso dell’onore o del senso morale, né alcun comportamento incompatibile con i doveri assunti all’atto del giuramento;

per il difetto di motivazione in relazione all’asserito grave pregiudizio arrecato all’Amministrazione;

per la mancata considerazione del tempo trascorso dai fatti e del recupero morale dimostrato nel servizio prestato successivamente ai fatti che hanno determinato l’irrogazione della sanzione penale;

per l’erronea valutazione dei fatti dovuta all’omessa considerazione della circostanza che due anni di pena detentiva, l’intera pena pecuniaria e la pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici erano stati condonati con la stessa sentenza di condanna;

per l’erronea valutazione dei fatti in relazione alle due sanzioni disciplinari riportate dopo la riammissione in servizio che erano state particolarmente lievi.

5.1.- Il motivo, nelle sue diverse articolazioni, non può ritenersi fondato.

Si deve, al riguardo, ricordare che, nell’esercizio del potere disciplinare nei confronti dei pubblici dipendenti, l'Amministrazione, in considerazione degli interessi pubblici che devono essere tutelati, ha un'ampia discrezionalità, in ordine alla valutazione dei fatti dei quali il dipendente è ritenuto responsabile, circa il convincimento sulla gravità delle infrazioni addebitate e sulla conseguente misura della sanzione da infliggere.

In tale quadro, il provvedimento disciplinare eventualmente inflitto sfugge ad un pieno sindacato del giudice amministrativo, non potendo questi in nessun caso sostituire le proprie valutazioni a quelle operate dall'Amministrazione. Per questo il giudice amministrativo può solo verificare che le valutazioni compiute non siano inficiate da travisamento dei fatti ovvero non risultino formate sulla base di un processo logico manifestamente incoerente (fra le più recenti, Consiglio di Stato, Sezione III, n. 1577 del 24 marzo 2015).

6.- Nella fattispecie, le esaustive argomentazioni espresse dall’Amministrazione, in ordine alla gravità della condanna penale definitiva riportata dall’appellante per fatti commessi durante il periodo di servizio, anche in rapporto alle lesione dell’immagine e del decoro dell’Amministrazione, non solo non consentono di configurare un difetto di motivazione ma risultano scevre da ogni vizio di irrazionalità ed incoerenza, con la conseguente piena giustificazione della sanzione applicata che non può ritenersi inficiata né da un travisamento dei fatti né può ritenersi manifestamente irragionevole o sproporzionata.

6.1.- Correttamente il T.A.R. ha, quindi, ritenuto che « nella fattispecie, la gravità del comportamento del ricorrente (condannato per concorso continuato in ricettazione) emerge dalla stessa entità delle pene irrogate (tre anni di reclusione, cinque milioni di multa e cinque ani d’interdizione dai pubblici uffici), a prescindere dai benefici concessi (condono di due anni della pena detentiva, della pena accessoria e della pena pecuniaria)». La condotta sanzionata ha, infatti, « costituito un grave nocumento per la funzionalità e il prestigio dell’amministrazione, non sminuito dal trasferimento del ricorrente ad altra sede di servizio, intervenuto peraltro dopo la sua riammissione, teso a evitare lo specifico danno connesso alla presenza del dipendente nello stesso ufficio ». E in ogni caso, « la condotta del ricorrente, nel periodo successivo alla riammissione in servizio, è stata segnata da altre due sanzioni disciplinari, con una delle quali è stato sanzionato un comportamento contrario ai principi deontologici che regolano l’attività di ogni operatore di polizia ».

6.2.- Per quanto riguarda, in particolare, l’asserita mancata considerazione del tempo trascorso dai fatti e dell’avvenuto recupero morale, dimostrato nel servizio prestato successivamente ai fatti che hanno determinato l’irrogazione della sanzione penale, si deve condividere quanto affermato dal T.A.R. che ha ritenuto che « le valutazioni e le note di merito, di cui ai rapporti informativi relativi agli anni successivi all’epoca della condotta penalmente sanzionata, non si pongono in contrasto con la rilevanza, sotto il profilo disciplinare, della sentenza di condanna irrevocabile subita dal ricorrente, i cui effetti e la cui gravità sono autonomamente apprezzabili dall’amministrazione nell’ambito del relativo procedimento, anche in relazione alla pena complessivamente inflitta ».

6.3.- Peraltro l’Amministrazione, nel provvedimento impugnato, ha fatto espresso riferimento alla condotta tenuta dal signor Consigliero dopo la riammissione in servizio al termine del periodo di sospensione cautelare dal servizio, ed ha rilevato che tale condotta « pur se normale, non può certo sminuire la gravità dei fatti antecedenti, minando irrimediabilmente la fiducia in lui riposta dall’Amministrazione ». Senza considerare che l’interessato ha comunque riportato in tale ultimo periodo due sanzioni disciplinari.

6.4.- Ciò ricordato, si deve ribadire che le valutazioni compiute sul punto dall’Amministrazione sono espressione di discrezionalità che è sindacabile davanti al giudice amministrativo solo se affetta da illogicità mentre, nella specie, non può ritenersi manifestamente illogica la valutazione compiuta dall’Amministrazione che, nonostante la presenza di elementi favorevoli per l’interessato deducibili dall’attività di servizio e nonostante il tempo trascorso (dovuto tuttavia alla durata del procedimento penale), ha ritenuto prevalente la particolare gravità del comportamento tenuto in precedenza che ha determinato l’irrogazione di una sanzione penale capace di determinare un discredito per l’intero corpo di appartenenza.

7.- Le considerazioni espresse consentono di respingere anche il terzo motivo dell’appello con il quale il signor Consigliero ha sostenuto che la sentenza appellata doveva ritenersi erronea anche per aver ritenuto infondato il motivo con il quale aveva sostenuto che vi era stata una evidente contraddittorietà fra più atti della stessa Amministrazione.

8.- Sempre con terzo motivo dell’appello il signor Consigliero ha sostenuto di aver comunque diritto al riconoscimento della qualifica di Assistente capo, a partire dal 1 luglio 2002, non potendo tale diritto essergli negato esclusivamente a causa dell’inerzia dell’Amministrazione che ha proceduto alle operazioni di scrutinio solo il 25 novembre 2003.

8.1.- Ma anche sul punto deve condividersi quanto ha affermato il giudice di primo grado che ha ricordato che la promozione conseguita dal ricorrente è stata annullata dall’amministrazione alla stregua dell’art. 93 del D.P.R. n. 3 del 1957, secondo cui l’impiegato sospeso dal servizio ai sensi dell’art. 91 (sospensione cautelare obbligatoria) e 92 (sospensione cautelare facoltativa) è escluso dagli esami o dagli scrutini di promozione.

Considerato che l’appellante era stato (nuovamente) sospeso dal servizio in data 4 settembre 2003 e si trovava, alla data dello scrutinio (25 novembre 2003), ancora sottoposto alla sospensione cautelare dal servizio, non sussistevano, evidentemente, come ha rilevato l’Amministrazione, le condizioni per poter disporre la promozione alla qualifica superiore.

9.- Con il quarto motivo di appello il signor Consigliero ha ancora insistito nel sostenere che la sanzione inflitta doveva ritenersi illegittima per la violazione del principio di logicità e congruità.

Ma anche tale motivo deve essere respinto per le stesse ragioni che si sono prima esposte.

Si deve solo aggiungere, in relazione alla memoria depositata dall’appellante, in vista dell’udienza di trattazione del merito dell’appello, che non può essere fatta alcuna comparazione fra la vicenda del signor Consigliero e le vicende che sono state ricordate nella suddetta memoria conclusiva.

10.- Con il sesto e ultimo motivo l’appellante ha sostenuto anche l’ingiustizia della condanna alle spese disposta dal giudice di primo grado.

10.1.- Il motivo non è fondato.

Per principio pacifico la statuizione del giudice di primo grado sulle spese ed onorari di giudizio è espressione di un ampio potere discrezionale, come tale non sindacabile in sede di appello, fatta eccezione per l’ipotesi di condanna della parte totalmente vittoriosa oppure per il caso che la statuizione sia manifestamente irrazionale o si riferisca al pagamento di somme palesemente inadeguate (fra le più recenti, Consiglio di Stato, Sezione V, n. 2003 del 20 aprile 2015). Ipotesi che pacificamente non ricorrono nella fattispecie.

Del resto per principio generale le spese di giudizio sono poste a carico della parte soccombente, indipendentemente dalla qualità e dalla misura dell’attività difensiva svolta dalla parte vincitrice, mentre la compensazione delle spese può essere disposta solo in caso di soccombenza reciproca o di gravi ed eccezionali ragioni.

11.- In conclusione, per tutti gli esposti motivi, l’appello deve essere respinto.

Le spese del grado di appello, considerata anche la natura della questione trattata, possono essere tuttavia integralmente compensate fra le parti.

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