Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza 2023-01-11, n. 202300331

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Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza 2023-01-11, n. 202300331
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 202300331
Data del deposito : 11 gennaio 2023
Fonte ufficiale :

Testo completo

Pubblicato il 11/01/2023

N. 00331/2023REG.PROV.COLL.

N. 00716/2018 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 716 del 2018, proposto da
B A, quale amministratore unico della GEINVEST S.R.L., ed E S, rappresentati e difesi dagli avvocati P C, M F, G S, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio fisico eletto presso lo studio dell’avvocato M F in Roma, via dei Gracchi, n. 20;

contro

COMUNE DI TRANA, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati V A, P M, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio P M in Roma, via Cosseria, n. 5;

per la riforma

della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Piemonte (Sezione Seconda), n. 912 del 2017;


Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visto l'atto di costituzione in giudizio del Comune di Trana;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell’udienza pubblica del giorno 1 dicembre 2022 il Cons. D S;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO

1.‒ I fatti principali, utili ai fini del decidere, possono così riassumersi:

- il signor Arturo B è proprietario di diversi terreni con annessi fabbricati agricoli, siti nel Comune di Trana, concessi in locazione alla signora Evita S che, quale coltivatrice diretta, vi esercita attività di allevamento di cavalli;

- con ordinanza n. 740 del 21 ottobre 2015, il Responsabile del Servizio Urbanistica, Edilizia privata e Ambiente del Comune ingiungeva ai predetti la demolizione di una pluralità di opere edilizie abusive – costituite da manufatti (in gran parte tettoie) perlopiù destinati al ricovero di animali o di materiale utilizzato per l’allevamento – ravvisandone l’incompatibilità con il vincolo paesaggistico di cui all’art. 142, comma 1, lettera c), del d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, nonché il contrasto con i vincoli per le aree inserite in classe IIIa e in fascia A del Piano di assetto idrogeologico (P.A.I.);

- in data 21 dicembre e 31 dicembre 2015, la signora S presentava all’Amministrazione comunale due distinte istanze, finalizzate all’accertamento della conformità urbanistica e all’accertamento della compatibilità paesaggistica degli interventi in questione, planimetricamente identificati come fabbricati con le lettere da F a P;

- seguiva la nota prot. n. 779 del 15 febbraio 2016, con cui il Responsabile dell’Ufficio comunale comunicava agli istanti il parere contrario reso dalla Commissione edilizia in ordine all’istanza di accertamento della compatibilità paesaggistica, in ragione della non riconducibilità delle opere alla disciplina dettata dagli artt. 167, comma 4 e 181, comma 1- ter del d.lgs. n. 42 del 2004, preannunciando una successiva verifica circa l’avvenuta ottemperanza all’ordinanza demolitoria;

- i signori B e S si determinavano quindi ad impugnare dinanzi al Tribunale Amministrativo Regionale per il Piemonte (con ricorso n. 233 del 2016) l’ordinanza di demolizione n. 740 del 2015, nonché la nota prot. n. 779 del 2016, domandandone l’annullamento per i seguenti vizi:

i) violazione dell’art. 10- bis della legge 7 agosto 1990, n. 241, per omessa comunicazione del preavviso di rigetto;

ii) violazione dell’art. 3 della legge n. 241 del 1990, per carente, insufficiente ed erronea motivazione;

iii) eccesso di potere per erronea valutazione dell’effettivo pregiudizio arrecato dall’edificazione ai valori paesaggistici;

iv) violazione dei principi di buon andamento e imparzialità della Pubblica amministrazione di cui all’art. 97 Cost. ed eccesso di potere per violazione del giusto procedimento;

- all’esito dell’istruttoria procedimentale, in data 14 marzo 2016, il Comune di Trana dava comunicazione del preavviso di rigetto, con l’indicazione dei motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza di conformità urbanistica presentata ai sensi degli artt. 36 e 37 del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, cui i richiedenti davano seguito deducendo le proprie osservazioni;

- con provvedimento n. 2514 del 10 maggio 2016, il Responsabile dell’Ufficio comunale disponeva il diniego al rilascio dell’accertamento della conformità urbanistica, richiesto con istanza del 21 dicembre 2015 per i manufatti abusivi in contestazione, aventi «superficie coperta pari ad oltre 500 mq», in considerazione sia del vincolo paesaggistico (per l’intervenuta creazione di ‘superfici utili’, secondo la definizione di cui alla circolare del Ministero per i Beni e le Attività culturali n. 33, del 26 giugno 2009), sia dei vincoli derivanti dal P.A.I. (attesa la mancata prova dell’impossibilità di localizzare diversamente le strutture nell’ambito dell’azienda agricola);

- ritenendo tuttavia illegittima anche tale ultima determinazione, i signori B e S proponevano ulteriore ricorso (n. 674 del 2016) dinanzi al Tribunale Amministrativo Regionale per il Piemonte, ponendo a fondamento dell’impugnativa le seguenti censure:

i) violazione delle regole del procedimento e dell’art. 146, comma 6 del d.lgs. n. 42 del 2004;

ii) violazione dell’art. 4 della legge della Regione Piemonte 1 dicembre 2008, n. 32 e della Deliberazione della Giunta regionale 1 dicembre 2008, n. 34-10229;

iii) violazione dell’art. 167, comma 4, lettera a), del d.lgs. n. 42 del 2004;

iv) eccesso di potere per carenza di istruttoria e difetto di motivazione;

- successivamente, con ordinanza n. 751 del 5 luglio 2016, il Responsabile dell’Ufficio comunale ingiungeva agli interessati la demolizione delle medesime opere abusive oggetto della precedente ordinanza demolitoria n. 740 del 2015, che i ricorrenti impugnavano, con motivi aggiunti depositati il 3 agosto 2016, sotto i seguenti ulteriori profili:

i) illegittimità derivata dall’illegittimità del presupposto provvedimento di diniego n. 2514 del 10 maggio 2016;

ii) difetto di motivazione;

iii) violazione e/o falsa applicazione dell’art. 31, commi 2 e 3 del d.P.R. n. 380 del 2001 per l’impossibilità di applicare la sanzione della perdita della proprietà dell’area nei confronti dell’attuale proprietario, incolpevole dell’abuso, nonché per la mancata individuazione planimetrica dell’area stessa da acquisire in ipotesi di inottemperanza all’ordine demolitorio;

iv) eccesso di potere per la prescritta sanzione dell’acquisizione al patrimonio comunale quale conseguenza irragionevole ed iniqua a fronte della realizzazione di abusi ‘minori’;

- inoltre, con nuovi motivi aggiunti del 29 marzo 2017, gli odierni appellanti formulavano ulteriori censure di violazione di legge in relazione alla qualificazione dei vincoli gravanti sull’area oggetto del contendere.

2.– Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Piemonte, con sentenza n. 912 del 2017, previa riunione dei due ricorsi, ha così statuito:

i) ha dichiarato inammissibile il ricorso n. 233 del 2016, ravvisando la natura meramente endoprocedimentale dell’atto impugnato, motivando che: «[s]e infatti è vero che l’atto impugnato è stato formulato in termini che potevano prestarsi a qualche equivoco o perplessità (e questo profilo rileva ai fini della pronuncia sulle spese), si deve però osservare che la nota n. 779 del 15/2/2016 si è in realtà limitata a comunicare il parere negativo della Commissione edilizia sull’istanza di sanatoria;
l’atto in questione non costituiva dunque il provvedimento conclusivo del procedimento, tant’è che non conteneva nessuna indicazione circa i termini e l’autorità a cui ricorrere»;

ii) ha respinto il ricorso n. 674 del 2016, ritenendo «sussistente e insuperabile l’incompatibilità con il vincolo paesaggistico e tanto basta per legittimare l’adozione del provvedimento impugnato, senza necessità di approfondire l’ulteriore profilo relativo al vincolo di PAI e, quindi, di esaminare l’eccezione di difetto di giurisdizione (in favore del TSAP) formulata al riguardo dalla difesa comunale»;

iii) ha dichiarato inammissibili i motivi aggiunti atteso che, per quanto riguarda il profilo relativo all’acquisizione delle opere abusive al patrimonio comunale, l’ordinanza impugnata non contiene statuizioni immediatamente lesive per i ricorrenti, nei cui confronti il Comune dovrà avviare (se lo ritiene) un apposito procedimento, scaduti i termini per l’ottemperanza»;

iv) ha respinto per il resto gli ulteriori motivi aggiunti.

3.– Avverso la predetta sentenza hanno dunque proposto appello i signori B e S, riproponendo nella sostanza i motivi di impugnazione sollevati in primo grado, sia pure adattati all’impianto motivazionale della sentenza gravata, e segnatamente:

a) con il primo motivo, gli appellanti insistono nel sostenere che la valutazione di compatibilità paesaggistica avrebbe dovuto riguardare i manufatti singolarmente (e non cumulativamente) considerati, così da tener conto del diverso ordine temporale di realizzazione degli stessi e della differente struttura;
in ogni caso gli interventi realizzati in legno non avrebbero comportato alcun incremento di volume (in quanto aperti su più lati) e di superficie utile (poiché costruiti in materiale precario, insuscettibile di determinare insediamenti), ed anzi si tratterebbe di abusi di modesta consistenza al confronto con l’estensione dell’area di 24.627 mq;

b) con il secondo motivo di appello (logicamente preordinato al primo), gli istanti ribadiscono che l’autonomia dei due titoli richiesti – accertamento della conformità urbanistica e accertamento della compatibilità paesaggistica – avrebbe necessitato distinte istruttorie con distinti provvedimenti conclusivi, la cui unificazione sarebbe pertanto illegittima;
nello specifico l’insussistenza dei presupposti per la sanatoria paesaggistica si fonderebbe sul parere reso dalla Commissione edilizia anziché dalla competente Commissione locale per il paesaggio, che invero si sarebbe dovuta esprimere sull’istanza di compatibilità, con conseguente coinvolgimento della Soprintendenza in ipotesi di determinazione positiva;

c) con il terzo motivo (relativo al vincolo di P.A.I., assorbito dal giudice di prime cure e in questa sede riproposto), i signori B e S puntualizzano di essere venuti a conoscenza della mancata adozione della variante di piano regolatore di adeguamento al P.A.I. solo all’esito della produzione documentazione dell’Amministrazione comunale in corso di causa nel gennaio 2017, e asseriscono che, in assenza di tale necessario supporto normativo, il Comune di Trana avrebbe dovuto applicare la normativa del Piano, in luogo di quella regionale di cui alla circolare del Presidente della Giunta regionale dell’8 maggio 1996, n. 7/LAP, cosicché per il requisito della diversa localizzabilità delle strutture nell’ambito aziendale (richiesto dalla circolare medesima), ben avrebbe potuto e dovuto il Comune sollecitare un’eventuale integrazione documentale;
in ogni caso la costruzione dei manufatti in fascia A del P.A.I., ossia in fascia di deflusso della piena del torrente Sangone, non contrasterebbe con il perseguimento dell’obiettivo di garantire le condizioni di sicurezza, trattandosi di modeste tettoie erette con materiale precario;

d) infine, gli interessati confermano la sussistenza nel caso di specie della giurisdizione del giudice amministrativo, sul rilievo che oggetto del ricorso sarebbe il diniego di sanatoria e perciò la “valutazione della compatibilità edilizia di un’opera posta ad una certa distanza da un’acqua pubblica”.

4.– Si è costituito in giudizio il Comune di Trana, riproponendo l’eccezione di difetto di giurisdizione del giudice amministrativo in favore del Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche (venendo in esame la salvaguardia dell’agibilità e funzionalità di opere destinate ad incidere direttamente sul regime di un corso d’acqua) e di inammissibilità dei motivi aggiunti depositati il 29 marzo 2017, per tardività e mancanza di specificazione del lamentato vizio di violazione di legge. Per il resto, l’Amministrazione comunale insiste per il rigetto del gravame.

5.– Con memoria del 31 ottobre 2022, illustrativa delle circostanze fattuali intervenute nelle more del giudizio d’appello, gli odierni appellanti rappresentano che le mutate esigenze di protezione degli animali hanno determinato i seguenti interventi nell’area di cui si controverte: a) la tettoia indicata con la lettera F è stata rimossa (unitamente ad altre due tettoie, D ed E) e sostituita da una struttura mobile smontabile, autorizzata dalla Soprintendenza il 30 novembre 2018 e con permesso di costruire del 31 gennaio 2019;
b) le tettoie identificate con le lettere M, N ed O sono state anch’esse demolite, non rendendosi più necessarie allo scopo. Conseguirebbe a ciò, in ordine alle strutture già oggetto di demolizione, la richiesta di declaratoria di improcedibilità per cessata materia del contendere.

6.– All’udienza dell’1 dicembre 2022, la causa è stata trattenuta in decisione.

DIRITTO

1.– In vista dell’udienza pubblica, parte appellante ha dedotto che, in ragione delle «mutate esigenze di protezione degli animali», gran parte delle tettoie sono state demolite.

In particolare, nella memoria del 31 ottobre 2022, si afferma che: «le tettoie indicate con le lettere E, F, D sono state rimosse e sostituite da una struttura mobile smontabile, autorizzata dalla Sovrintendenza il 30/11/2018 e con permesso di costruire del 31/1/2019»;
le «tettoie M, N, O sono state anch’esse demolite, venuta meno l’esigenza per le quale erano state installate».

Invece, per quanto riguarda i manufatti L, I, H, G, P e B – rispetto ai quali il Comune avrebbe formulato parere favorevole a un progetto di demolizione e ricostruzione con unico corpo, subordinandolo, però, alla demolizione di tutti i manufatti oggetto di ordinanza – non è stata eseguita «la previa demolizione dei manufatti, prima di ottenere il permesso per la nuova costruzione, rimanendo un arco di tempo in cui gli animali non avrebbero avuto protezione».

Su queste basi, va dichiarata ‒ relativamente ai manufatti già demoliti ‒ l’improcedibilità del ricorso per sopravvenuta carenza di interesse.

Non ricorrono invece gli estremi per dichiarare la cessata materia del contendere, in quanto tale pronuncia presupporrebbe il soddisfacimento della pretesa di parte ricorrente, e neppure l’estinzione del giudizio, che invece consegue alla presentazione di una rituale rinuncia.

2.– Per la restante parte, l’appello va comunque respinto nel merito.

3.– Il primo ordine di censure – secondo cui gli interventi, da valutarsi singolarmente e non nel loro complesso, avrebbero rilevanza minima nel contesto paesaggistico, non avendo determinato aumento di volumi o di superfici utili – è infondato.

3.1.– È noto che l’art. 27, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001 attribuisce all’amministrazione comunale un generale potere di vigilanza e controllo su tutta l’attività urbanistica ed edilizia, imponendo l’adozione di provvedimenti di demolizione anche in presenza di opere realizzate in zone vincolate in assenza dei relativi titoli abilitativi, al fine di ripristinare la legalità violata dall'intervento edilizio non autorizzato.

L’ordine di demolizione ed il diniego di sanatoria, riguardanti i manufatti indicati con le lettere da ‘F’ a ‘P’ nel verbale di sopralluogo del 30 giugno 2015, trovano autonomo fondamento:

- nella sussistenza del vincolo paesaggistico di cui all’art. 142, comma 1, lettera c), del d.lgs. n. 42 del 2004 (riguardante: «i fiumi, i torrenti, i corsi d’acqua […] e le relative sponde o piedi degli argini per una fascia di 150 metri ciascuna»), il quale imponeva la previa acquisizione dell’autorizzazione paesaggistica, quale atto autonomo e presupposto rispetto ai titoli legittimanti l’intervento urbanistico-edilizio;

- nella mancanza di presupposti per procedere all’accertamento postumo di conformità paesaggistica.

3.2.– L’art. 167 del d.lgs. 22 gennaio 2004 n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio), recante la disciplina delle sanzioni amministrative previste per la violazione delle prescrizioni poste a tutela dei beni paesaggistici, contiene (nella sua attuale formulazione) la regola della non sanabilità ex post degli abusi, sia sostanziali che formali. Il trasgressore, infatti, è «sempre tenuto alla rimessione in pristino a proprie spese», «fatto salvo quanto previsto al comma 4».

L’intenzione legislativa è chiara nel senso di precludere qualsiasi forma di legittimazione del “fatto compiuto”, in quanto l’esame di compatibilità paesaggistica deve sempre precedere la realizzazione dell’intervento. Il rigore del precetto è ridimensionato soltanto da poche eccezioni tassative, tutte relative ad interventi privi di impatto sull’assetto del bene vincolato. Segnatamente, sono suscettibili di accertamento postumo di compatibilità paesaggistica: i) gli interventi realizzati in assenza o difformità dell’autorizzazione paesaggistica, che non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati;
ii) l’impiego di materiali diversi da quelli prescritti dall’autorizzazione paesaggistica;
iii) i lavori configurabili come interventi di manutenzione ordinaria o straordinaria ai sensi della disciplina edilizia (art. 167, comma 4).

Nel caso in esame, i manufatti abusivi di cui è stata chiesta la sanatoria e l’accertamento di compatibilità paesaggistica ‒ costituiti da una decina di tettoie (aperte o chiuse su tre o quattro lati, di dimensioni variabili) destinate a ricovero animali, per una superficie coperta complessiva di oltre 500 mq ‒ non sono annoverabili tra gli abusi ‘minori’.

In primo luogo, va ricordato che, secondo la giurisprudenza di questo Consiglio di Stato, l’opera abusiva deve essere identificata con riferimento all’unitarietà degli interventi, anche se realizzati progressivamente e in epoche diverse, essendo altresì irrilevante la suddivisione in più unità abitative e la presentazione di istanze di condono separate (ove imputabili ad un unico centro di interessi). Nel verificare l’unitarietà o la pluralità degli interventi edilizi, non può tenersi conto del solo profilo strutturale, afferente alle tecniche costruttive del singolo manufatto, ma deve prendersi in esame anche l’elemento funzionale, al fine di verificare se le varie opere, pur strutturalmente separate, siano, tuttavia, strumentali al perseguimento del medesimo scopo pratico (cfr., ex multis: Consiglio di Stato, sez. VI, 8 febbraio 2022, n. 883;
sez. VI, 8 settembre 2021, n. 6235;
sez. VI, 1 marzo 2019, n.1434). Al fine di qualificare un intervento edilizio, consistente in una pluralità di opere, va dunque compiuto un apprezzamento globale, atteso che la considerazione atomistica dei singoli interventi si presterebbe a comportamenti opportunistici finalizzati ad eludere (attraverso l’artificioso ‘frazionamento’) la disciplina edilizia, urbanistica e paesaggistica.

In secondo luogo, appare corretto l’assunto secondo cui la nozione di «superficie utile», ai fini paesaggistici, non è limitata ai soli spazi chiusi o agli interventi capaci di provocare un aggravio del carico urbanistico, quanto invece considerando l’impatto dell’intervento sull'originario assetto del territorio e, quindi, l’idoneità della nuova superficie, qualunque sia la sua destinazione, a modificare stabilmente la vincolata conformazione originaria del territorio.

Le qualificazioni giuridiche rilevanti sotto il profilo urbanistico ed edilizio non sono automaticamente trasferibili quando si tratti di qualificare le opere sotto il profilo paesaggistico. Ciascun costrutto normativo deve essere, infatti, osservato con la ‘lente’ del suo specifico contesto disciplinare (per questo stesso motivo, ad esempio, i volumi c.d. ‘tecnici’, per quanto irrilevanti sotto il profilo urbanistico-edilizio, soggiacciono invece al divieto di rilascio dell’autorizzazione paesaggistica in sanatoria, il quale tutela il diverso interesse alla percezione visiva dei manufatti, del tutto a prescindere dalla loro destinazione d’uso).

La conclusione, del resto, è avvalorata dalla stessa lettera dell’art. 167 del d.lgs. 22 gennaio 2004 n. 42 che si riferisce ‒ disgiuntivamente ‒ alla creazione di «superfici utili o volumi».

3.3.– Vale poi la pena osservare che le opere in questione sarebbero rilevanti anche dal punto di vista strettamente edilizio.

Secondo la giurisprudenza, la costruzione di tettoie di consistenti dimensioni (come quelle contestate nel presente giudizio), comportanti una perdurante alterazione dello stato dei luoghi e incidenti per sagoma, prospetto, volumetria e materiali impiegati in modo stabile e duraturo sull'assetto urbanistico-edilizio del territorio, necessita del preventivo rilascio del permesso di costruire (cfr., ex plurimis, Consiglio di Stato sez. VI, 13 aprile 2021, n. 3005;
Sez. IV, 8 agosto 2019, n. 5637;
Sez. VI, 5 agosto 2013, n. 4086).

In senso contrario, non potrebbe invocarsi la nozione di «pertinenza» in senso urbanistico, la quale è applicabile soltanto ad opere di modesta entità e accessorie rispetto ad un’opera principale, quali ad esempio i piccoli manufatti per il contenimento di impianti tecnologici et similia, ma non anche opere che, dal punto di vista delle dimensioni e della funzione, si connotino per una propria autonomia rispetto all’opera cosiddetta principale e non siano coessenziali alla stessa, tale, cioè, che non ne risulti possibile alcuna diversa utilizzazione economica (cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, 4 gennaio 2016, n. 19;
Sez. VI, 24 luglio 2014, n. 3952;
Sez. V, 12 febbraio 2013, n. 817;
Sez. IV, 2 febbraio 2012, n. 615).

4.– Anche le ulteriori censure svolte dagli appellanti ‒ circa la pretesa violazione del regime procedimentale, in particolare sotto il profilo della mancata acquisizione del parere della Commissione del Paesaggio ‒ sono prive di fondamento.

4.1.– L’articolo 148 del d.lgs. n. 42 del 2004, nell’istituire le commissioni per il paesaggio, precisa che le stesse «esprimono pareri nel corso dei procedimenti autorizzatori previsti dagli articoli 146, comma 7, 147 e 159», con riguardo dunque al rilascio delle autorizzazioni paesaggistiche preventive e non ai procedimenti di accertamento postumo.

Inoltre, essendo palese che ‒ in ragione della dettagliata e tassativa previsione normativa derogatoria, che delimita l’accesso all’autorizzazione postuma ‒ il «contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato», l’atto impugnato non era comunque annullabile ai sensi dell’art. 21-octies della legge n. 241 del 1990 (le note non avrebbero potuto condurre all’adozione di una diversa determinazione).

Sotto altro profilo, l’istruzione ‘in parallelo’ dell’accertamento di conformità urbanistica e paesaggistica, di per sé, non ridonda in alcuna illegittimità, nella misura in cui il provvedimento finale risulti comunque fondato sui pertinenti requisiti di legge.

5.– Come si è detto nella premessa in fatto, il diniego di sanatoria è stato adottato anche in ragione del fatto che tutti i manufatti, oltre ad essere collocati nella fascia di rispetto fluviale, ricadono anche nella fascia di esondazione prevista dal PAI con vincolo di inedificabilità assoluta.

È noto che, nel caso in cui il provvedimento impugnato si fondi su una pluralità di ragioni autonome, il giudice, qualora ritenga infondate le censure indirizzate verso uno dei motivi assunti a base dell’atto controverso, idoneo, di per sé, a sostenerne ed a comprovarne la legittimità, ha la potestà di respingere il ricorso sulla sola base di tale rilievo, con assorbimento delle censure dedotte avverso altri capi del provvedimento, in quanto la conservazione dell’atto implica la perdita di interesse del ricorrente all’esame delle altre doglianze.

Su queste basi, può dunque assorbirsi ogni indagine sui concorrenti presupposti degli atti impugnati, relativo al vincolo di PAI, e sulla connessa eccezione di difetto di giurisdizione (in favore del TSAP) formulata dalla difesa comunale.

6.– La liquidazione delle spese di lite segue la regola generale della soccombenza.

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