Consiglio di Stato, sez. II, sentenza 2020-06-09, n. 202003667

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Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. II, sentenza 2020-06-09, n. 202003667
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 202003667
Data del deposito : 9 giugno 2020
Fonte ufficiale :

Testo completo

Pubblicato il 09/06/2020

N. 03667/2020REG.PROV.COLL.

N. 00134/2011 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Seconda)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 134 del 2011, proposto dal Signor M A, rappresentato e difeso dall’avvocato M S, con domicilio eletto presso il suo studio in Roma, viale Parioli, 180;

contro

Comune di Roma (ora Roma Capitale, a’ sensi dell’art. 24 della l. 5 maggio 2009, n. 42), in persona del suo legale rappresentante pro tempore , rappresentato e difeso dall’avvocato Luigi D’Ottavi, ed elettivamente domiciliato Roma presso gli Uffici dell’Avvocatura di Roma capitale, via del Tempio di Giove, n. 21;

per la riforma

della sentenza del T.A.R. LAZIO - ROMA: SEZIONE II BIS n. 33082/2010, resa tra le parti, concernente VIOLAZIONE URBANISTICA PER CAMBIO DESTINAZIONE D'USO


Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visto l’atto di costituzione in giudizio di Comune di Roma;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell’udienza pubblica del giorno 14 gennaio 2020 il Consigliere F R e uditi per la parte appellante l’avvocato Fabrizio Viola su delega dell’avvocato M S, nonché l’avvocato Luigi D’Ottavi per Roma Capitale;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO e DIRITTO

1.1.La vicenda per cui è causa necessita, ai fini della sua puntuale comprensione, di una dettagliata esposizione dei fatti di causa.

L’attuale appellante, Signor M A, espone di aver presentato al Comune di Roma in data 10 dicembre 2004 la domanda Prot. n. 562465 per il rilascio di condono edilizio, a’ sensi dell’art. 32 del d.l. 30 settembre 2003, n. 326 convertito con modificazioni con l. 24 novembre 2003, n. 326 e della l.r. 8 novembre 2004, n. 12, avente ad oggetto un parziale cambio di destinazione d’uso, da magazzino a negozio, di un locale in suo possesso ubicato in Roma, Via Boccea n. 307/A.

L’appellante precisa che tale immobile, ubicato al piano S1 del relativo stabile contraddistinto

al N.C.E.U. al foglio 414, particella n.886, subalterno 502, è di proprietà dei suoi genitori, Signori C A e A F, che ne hanno acquisito la proprietà mediante il contratto di compravendita Rep. n. 77889 – Racc. . n. 12003 dd. 4 aprile 2003 a rogito del dott. Gianvincenzo Nola, notaio in Roma.

Il Sig. M A precisa – altresì – di essere peraltro possessore del sopradescritto immobile sin dal mese di febbraio del 2003 e che da allora – e cioè prima del termine del 31 marzo 2003 considerato dalla predetto art. 32 del d.l. n. 269 del 2003 convertito con l. n. 326 del 2003, egli ha ivi esercitato mediante la propria impresa individuale Cybergal di A M S.r.l. l’attività di vendita e di assistenza tecnica relativa ad apparecchiature per l’informatica.

L’appellante afferma che ciò configurerebbe “un abuso c.d. “funzionale” , ovvero un abuso derivante da mutamento di destinazione d’uso per tale tipo di attività un immobile accatastato C1” (ossia alla tutt’oggi vigente categoria catastale corrispondente ai “Negozi e Botteghe” ) “senza realizzazione di opere edilizie” (cfr. pag. 2 e ss. dell’atto introduttivo del presente giudizio).

Egli - altresì - riferisce di aver presentato in data 14 gennaio 2005 al Prot. n. 1978 del Municipio XVIII (attualmente XIII) del Comune di Roma, a’ sensi dell’art. 7 del d.lgs. 31 marzo 1998 n. 114 nel testo pro tempore vigente - ossia prima delle novelle ad esso apportate per effetto dell'art. 85, commi 3 e 5, lett. b), del d.lgs. 26 marzo 2010, n. 59 e dell' art. 65 del d.lgs. 26 marzo 2010 n. 59 e dell' art. 3, comma 1, lett. b), del d.lgs. 6 agosto 2012, n. 147 – la comunicazione di inizio d’attività da svolgersi nel sopradescritto locale, debitamente corredata da tutta la documentazione a ciò necessaria, ivi segnatamente compresa la copia della predetta domanda di condono edilizio da lui in precedenza presentata.

Il medesimo appellante precisa, inoltre, di aver susseguentemente presentato in data 6 ottobre 2005 un’ulteriore comunicazione d’inizio di attività di laboratorio nel locale medesimo.

Riferisce quindi l’appellante che in data 26 ottobre 2005, ossia essendo ancora pendente la predetta istanza di condono edilizio, con verbale n. Prot. n. 49670 l’VIII° Gruppo della Polizia Municipale del Comune di Roma ha accertato una presunta violazione urbanistica derivante dal mutamento di destinazione d’uso del locale, da magazzino (C2) ad attività commerciale (C1).

In buona sostanza, quindi, secondo tale accertamento si evincerebbe che tale mutamento di destinazione d’uso reso oggetto della predetta domanda di condono edilizio sarebbe avvenuto dopo la scadenza del 31 marzo 2003 contemplata sia dall’anzidetto art. 32 del d.l. n. 269 del 2003 convertito con modificazioni in l. n. 326 del 2003 e dall’art. 2, comma 1, della l.r. n. 12 del 2004.

Con determinazione dirigenziale n. 2276 del 28 ottobre 2005 del predetto

XVIII

Municipio – U.O.T. è stata disposta nei riguardi dell’attuale appellante la misura cautelativa della sospensione dei lavori a seguito dell’anzidetto verbale di accertamento dell’abusivamente avvenuto cambio di destinazione d’uso del locale.

1.2.Con nota Prot. n. 166720 dd. 8 ottobre 2007 dell’Ufficio Condono Edilizio è stato comunicato al Signor Abitante, a’ sensi dell’art. 10-bis della l. 7 agosto 1990, n. 241 e dell’art. 6 della l.r. n. 12 del 2004,, l’avviso dell’avvio del procedimento di reiezione della propria domanda di condono, peraltro con contestuale richiesta di acquisizione, entro 60 giorni dalla ricezione della nota medesima, di ulteriore documentazione idonea a comprovare l’avvenuta ultimazione dei “lavori abusivi da sanare (cambio d’uso da locale magazzino a commerciale” (sic) entro l’anzidetta scadenza di legge fissata alla data del 31 marzo 2003.

In tale nota veniva in particolare rilevato che la dichiarazione resa dall’attuale appellante, in sede di sottoscrizione della domanda di condono, di aver realizzato l’abuso di cui trattasi entro la data del 31 marzo 2003 risultava smentita dalla circostanza che nel susseguente contratto di compravendita del 4 aprile 2003 (stipulato, come detto innanzi, dai genitori dell’appellante medesimo) era stata dichiarata innanzi al notaio rogante l’assenza al riguardo di abusi edilizi di qualsivoglia natura.

Nella nota medesima veniva – altresì – rilevata sia l’avvenuta adozione della predetta ordinanza di sospensione dei lavori, sia la circostanza che soltanto nei mesi di gennaio e di ottobre del 2005 l’interessato aveva presentato tutta la documentazione necessaria all’ottenimento del permesso di vendita.

L’Abitante, a riscontro della nota sopradescritta, ha trasmesso ulteriore documentazione a chiarimento dei fatti, rimarcando comunque che la stessa era già stata da lui resa in precedenza disponibile alla medesima Amministrazione comunale e rilevando che egli non aveva sottoscritto il predetto contratto di compravendita.

L’attuale appellante ha – altresì – rilevato che nessun mutamento edilizio era stato apportato al locale di cui trattasi, come del resto ben si poteva rilevare raffrontando le piantine dello stesso trasmesse alla medesima Amministrazione comunale con quelle rinvenute presso l’Ufficio del catasto, e ha comunque allegato alle proprie deduzioni ulteriore documentazione, consistente in preventivi, fatture e dichiarazioni rese da numerosi clienti idonea, a suo avviso, a comprovare la circostanza che alla data del 31 marzo 2003 era già avvenuta la parziale destinazione del locale all’uso commerciale.

Da ultimo il medesimo appellante ha evidenziato di aver già regolarmente corrisposto quanto dovuto, in dipendenza del richiesto condono, a titolo di oblazione e di oneri di urbanizzazione.

In data 20 dicembre 2007 l’Abitante ha trasmesso all’Amministrazione comunale ulteriore documentazione da lui reputata idonea a supportare la propria tesi.

Con determinazione dirigenziale n. 68 – Prot. n. 16857 dd. 26 marzo 2008 emessa dal Dipartimento VI – Politiche della Programmazione e Pianificazione del Territorio- VII^ U.O. – Ufficio Condono Edilizio la domanda di condono edilizio presentata dall’Abitante è stata respinta.

Al riguardo, nell’ampia motivazione di tale provvedimento si legge, in particolare che a seguito dell’avvenuta acquisizione del contratto di acquisto del locale di cui trattasi, avvenuto il 4 aprile 2003, era stato acclarato “che con detto atto viene acquisito un locale magazzino posto al piano seminterrato con accesso da una rampa carrabile sulla Via di Boccea. Lo stesso atto precisa che la parte acquirente viene immessa in possesso dell’unità immobiliare dalla data del rigito notarile e che ai sensi della legge 28 febbraio 1985, n. 47 il locale è stato costruito con licenza edilizia n. 1339/A del 19 giugno 1962 3e successiva variante (e) che non sono stati commessi abusi di qualsiasi natura” (cfr. ivi).Nel medesimo provvedimento si legge – altresì – che “eseguiti i dovuti riscontri, la documentazione trasmessa” dall’interessato “non è stata ritenuta probante per le seguenti ragioni: a) l’atto di acquisto del locale tra parte venditrice e parte acquirente, sigg. Abitante Ciro e Fasulo Anna, stipulato in data 4 aprile 2003, è un atto pubblico e, come tale, a norma dell’art. 2700 c.c. fa “piena prova fino a querela di falso della provenienza del documento del pubblico ufficiale che lo ha formato, nonché delle dichiarazioni delle parti e degli altri fatti che il pubblico ufficiale attesta essere avvenuti in sua presenza o da lui compiuti.” b) La precisazione contenuta nel suddetto atto di compravendita del 4 aprile 2003 secondo la quale nel locale magazzino “non sono stati commessi abusi di alcuna natura ” risulta in evidente disaccordo con la dichiarazione resa nella relazione descrittiva dell’abuso indicante lo stato dei lavori (allegata alla domanda di condono) dove viene esplicitamente indicato che l’abuso edilizio, ossia la realizzazione delle opere finalizzate al cambio di destinazione d’uso del locale da magazzino ad attività commerciale, è stato commesso entro il 21 marzo 2003, ossia in data antecedente rispetto alla stipulazione dell’atto pubblico di acquisto;
atto in cui, come sopra evidenziato, è indicata la mancanza assoluta di abusi di qualunque genere. Né vale rilevare che la suddetta dichiarazione sia stata compiuta da persona diversa (A M) rispetto a coloro che hanno sottoscritto l’atto di compravendita immobiliare, né che il richiedente il condono adduca di aver effettuato l’abuso prima di quella dichiarazione, che tale circostanza sarebbe comunque dovuta esser nota al proprietario, il quale avrebbe dovuto dare il proprio assenso. c) la presentazione da parte della società Cybergal, nella persona del suo rappresentante legale, sig. A M, di tutta la documentazione necessaria per l’ottenimento del permesso di vendita e merci per il settore non alimentare e per lo svolgimento dell’attività di laboratorio, è avvenuta solo in data 14 gennaio 2005 e, solo successivamente, (in data 6 ottobre 2005) la suddetta società ha presentato presso gli uffici preposti una comunicazione per inizio attività di laboratorio nel locale in questione. Trattandosi in realtà di adempimenti che, in base alla disciplina legislativa vigente, debbono essere necessariamente compiuti prima che il soggetto possa legalmente esercitare la sua attività, sussiste la ragionevole certezza che il sig. A M non possa aver svolto alcuna forma di esercizio commerciale prima di tale ultima data. d) Infine, tutta la documentazione trasmessa dal sig. A M in data 8 ottobre 2007, a seguito della comunicazione inviata da parte dello scrivente Ufficio, ai sensi dell’art. 10-bis della legge n. 241 del 1990, volta ad acquisire la prova provata in ordine all’ultimazione dei lavori abusivi da sanare entro i termini di legge, non può assumere alcun valore. Si tratta, infatti, di mere testimonianze preventivi di lavori che si sarebbero potuti richiedere in qualunque tempo, fatture di ricevimento merci al civico oggetto della domanda di condono (merci che ben avrebbero potuto essere scaricate anche presso un magazzino anziché presso un esercizio commerciale) che, di certo, non possono assurgere a prova di atti idonei a scalfire la natura fidefacente del rogito di acquisto, a nulla rilevando la circostanza – ripetesi – che nell’atto stesso non abbia partecipato il sig. Abitante. E’ poi inverosimile la tesi per la quale il magazzino è stato oggetto di lavori edilizi volti alla sua trasformazione in locale commerciale, tenuto conto della estrema esiguità del tempo intercorrente tra la data di redazione dei relativi preventivi (del 18 marzo 2003) e la data di scadenza prevista dalla legge sul condono edilizio per poter aver ultimato le opere. Esistono infine altri indici rilevatori del fatto che il locale in questione non fosse destinato ad attività commerciale ancora alla data del 31 marzo 2003, come la denunzia per l’applicazione della tassa sui rifiuti (oggi tariffa) che è solo del 27 aprile 2006;
(premesso) che, ai sensi dell’art. 2, comma 1, della l. r. n. 12 del 2004 sono suscettibili di sanatoria le opere abusive ultimate entro il 31 marzo 2003;
che, per quanto su evidenziato, non siussistono i presupposti per il rilascio della concessione edilizia in sanatoria per gli abusi di cui sopra;
visto il d.lgs. n. 267 del 2000;
visto l’art. 34, comma 3. Dello Statuto del Comune di Roma;
visto il parere espresso dalla P.O. in data 5 marzo 2008, determina a tutti gli effetti e per i motivi di cui in premessa, la reiezione della istanza di condono protocollo n. 562465 del 10 dicembre 2004 presentata dal Sig. A M per l’avvenuta realizzazione di abusi edilizi in Via Boccea n. 307/A – 00168 Roma (XVIII° Municipio), consistenti nel parziale cambio di destinazione d’uso da magazzino a negozio del locale sito al piano S1 di mq. 165,30 (l’immobile è distinto al N.C.E.U. al foglio 414, particella 886, subalterno 502). Conseguentemente le suddette opere rimangono assoggettate alla normativa repressiva di cui al Capo I° della legge 28 febbraio 1985, n. 47 … Il presente atto dovrà essere notificato al Sig. A M … al Sig. Abitante Ciro … ed alla Sig.ra Fasulo Anna …”
.

1.2.1Tutto ciò premesso, con ricorso proposto sub R.G. n. 816 del 2008 innanzi al T.A.R. per il Lazio, Sede di Roma, il Sig. M A ha chiesto l’annullamento del surriportato provvedimento nonché di ogni altro atto presupposto e conseguente, deducendo al riguardo l’avvenuta violazione della normativa nazionale e regionale in materia di condono edilizio, l’avvenuta violazione dell’art. 3 della l. n. 241 del 1990, eccesso di poterenelle svariate figure sintomatiche di difetto di motivazione, carenza istruttoria, illogicità, contraddittorietà, travisamento dei fatti, disparità di trattamento, sviamento di potere, violazione dei principi discendenti dall’art. 97 Cost. e dei principi di buon andamento e di imparzialità dell’azione amministrativa.

Secondo il ricorrente in primo grado, il comportamento dell’Amministrazione comunale volto al diniego della sanatoria non poteva reputarsi corretto, perché nella specie neppure sarebbe stata necessaria la stessa sanatoria per il mutamento di destinazione d’uso meramente funzionale, ossia senza opere.

Il predetto Signor Abitante ha in tal senso affermato di non aver realizzato alcuna opera edilizia funzionale al mutamento di destinazione d’uso, atteso che il locale adibito a magazzino già si prestava al parziale uso per attività commerciale al quale era stato adibito prima del termine del 31 marzo 2003.

In conseguenza di ciò, la determinazione impugnata risultava pertanto a suo avviso fondata su di un presupposto di fatto erroneo - ossia l’aver dedotto automaticamente che la semplice dichiarazione nell’atto notarile, proveniente da uno dei contraenti, in ordine alla insussistenza degli abusi edilizi, costituisse prova, fino a querela di falso, della inesistenza degli abusi stessi .

Sempre secondo il ricorrente, anche il successivo presupposto motivazionale del diniego contenuto nella lettera c) delle premesse del provvedimento impugnato e relativo all’asseritamente mancato svolgimento dell’attività commerciale nel periodo precedente (circostanza, questa, che l’Amministrazione comunale aveva comprovato rilevando che, rispettivamente, soltanto nel gennaio e nell’ottobre 2005, erano state presentale le dichiarazioni per l’ottenimento dell’autorizzazione all’attività di vendita e per lo svolgimento dell’attività di laboratorio) non risultava fondato, posto che non sarebbe spettato all’Amministrazione comunale di verificare l’effettivo svolgimento di tale attività: dal che discendeva, sempre secondo il ricorrente in primo grado, la violazione del principio della necessità della motivazione, nonché delle norme sul procedimento amministrativo.

1.2.2. Si è costituito in tale primo grado di giudizio il Comune di Roma per resistere al ricorso, sostenendo l’infondatezza del ricorso anche con riguardo alla documentata circostanza della mancata ultimazione delle opere condonabili prima del 31 marzo 2003, con cambiamento di destinazione d’uso del locale da magazzino a negozio con annessi interventi.

In particolare il Comune, riferendosi all’avvenuta produzione da parte dell’Abitante nella precedente sede di contraddittorio procedimentale di un preventivo dd. 18 marzo 2003 avente ad oggetto il rinnovo dell’impianto elettrico del locale, ha affermato che l’insieme di tali interventi, preventivati in take data, ben difficilmente avrebbero potuto essere conclusi con il definitivo cambio di destinazione d’uso, prima del predetto termine per l’effettuazione delle opere condonabili, inderogabilmente fissato ex lege – come detto dianzi – alla data del 31 marzo 2003.

1.2.3. Nelle more del giudizio di primo grado sono state emanate le ulteriori determinazioni dirigenziali del Comune nn. 86 e 87 del 13 gennaio 2009, con le quali sono state disposte rispettivamente nei confronti della Cybergal S.r.l. divieto di prosecuzione delle attività di laboratorio, assistenza e riparazione computer nonché di vendita, da effettuarsi entro 15 giorni dalla data di notifica di tali provvedimenti, con l’espressa avvertenza che, in caso d’inadempienza, si sarebbe provveduto d’ufficio alla relativa esecuzione, anche mediante apposizione di sigilli o tramite qualsiasi altro mezzo ritenuto idoneo.

Il Sig. M A, quale legale rappresentante di tale Società, ha impugnato anche tali provvedimenti con motivi aggiunti proposti nel medesimo procedimento giudiziale di primo grado, deducendone l’illegittimità in via derivata rispetto al diniego di condono da lui in precedenza impugnato.

1.2.4. A sua volta il Comune di Roma ha aderito anche a tale nuovo contraddittorio processuale, concludendo per la reiezione della surriferita nuova impugnativa.

1.2.5. Con ordinanza n. 932 dd. 26 febbraio 2009 la Sezione II^- bis dell’adito T.A.R. ha respinto, a’ sensi dell’allora vigente art. 21 della l. 6 dicembre 1971, n. 1034 come modificato dagli artt. 1 e 3 della l. 21 luglio 2000, n. 205, la domanda di sospensione cautelare delle predette determinazioni dirigenziali nn. 86 e 87 dd. 13 gennaio 2009, “considerato che, ad un primo sommario esame, il ricorso non appare assistito dal necessario fumus boni iuris , atteso che risulta agli atti che le opere necessarie al mutamento di destinazione d’uso oggetto della domanda di condono sono state realizzate anteriormente al termine normativamente previsto ” e “considerato ” - pertanto - “che non sussistono i presupposti per disporre l’accoglimento dell’istanza incidentale di sospensione degli atti impugnati” .

1.2.6. Avverso tale ordinanza l’Abitante ha proposto sub R.G. n. 1738 del 2009 appello cautelare, sempre a’ sensi dell’allora vigente art. 21 della l. n. 1034 del 1971 come modificato dagli artt. 1 e 3 della l. n. 205 del 2000, e la sospensione dei provvedimenti impugnati è stata dapprima accolta in via interinale, stante la gravità e l’irreparabilità del pregiudizio dedotto, con decreto monocratico del Presidente titolare della Sezione IV^ di questo Consiglio di Stato n. 1191 dd. 6 marzo 2009.

Con susseguente ordinanza collegiale n. 1634 dd. 31 marzo 2009 resa dalla medesima Sezione IV^ l’appello cautelare è stato quindi accolto “nei limiti in cui ordina la remissione della cognizione sull’istanza cautelare al giudice di primo grado … “rilevato che l’ordinanza gravata non si è pronunziata sui provvedimenti impugnati con motivi aggiunti , preclusivi dell’attività di laboratorio e determinanti sotto il profilo del danno da valutare in sede cautelare ”.

1.2.7. Con susseguente determinazione dirigenziale n. 20679 dd. 8 aprile 2009 l’Amministrazione comunale ha – altresì – ingiunto alla Cybergal S.r.l. di rimuovere o a demolire gli interventi di ristrutturazione edilizia da essa effettuati al fine del mutamento di destinazione del locale.

1.2.8. L’Abitante ha proposto anche a tale riguardo ulteriori motivi aggiunti di ricorso, richiamandosi sempre in via derivata alle censure originariamente proposte avverso il diniego di condono.

Secondo il medesimo ricorrente tale sopravvenuta determinazione risultava comunque inefficace, in quanto adottata in esecuzione di provvedimenti comunque sospesi dalla Sezione IV^ del Consiglio di Stato mediante l’anzidetta ordinanza cautelare n. 1634 del 2009.

1.2.9. Il Comune, per parte propria, ha chiesto la reiezione anche di tale ulteriore impugnativa.

1.2.10. Alla Camera di consiglio del 3 dicembre 2009 tenutasi presso la medesima Sezione II^- bis del T.A.R. per il Lazio è stata cancellata dal ruolo la nuova istanza cautelare presentata dalla parte ricorrente in primo grado avverso la predetta ulteriore determinazione adottata all’Amministrazione comunale.

1.2.11 Con sentenza n. 33082 dd. 29 ottobre 2010 la Sezione II^- bis dell’adito T.A.R. ha respinto il ricorso nonché i motivi aggiunti susseguentemente proposti “per le considerazioni di seguito riportate. … Come meglio esposto in fatto, il ricorrente - nel contestare la determinazione n.68 del 26 marzo 2008 di rigetto dell’istanza di condono gravata con l’atto introduttivo nonché gli atti consequenziali impugnati con i separati atti contenenti motivi aggiunti, ossia le determinazioni dirigenziali n. 86 e 87 del 13 gennaio 2009, recanti il divieto alla società Cybergal di prosecuzione dell’attività di laboratorio, assistenza e riparazione computer e di vendita nonché la determinazione dirigenziale n.20679 dell’8 aprile 2009 di ingiunzione a rimuovere o demolire gli interventi di ristrutturazione edilizia abusivamente realizzati in via Boccea n. 307/A - censura l’illegittimità e la erroneità delle ragioni e dei presupposti addotti dall’Amministrazione nei predetti atti, nel senso che: - gli abusi oggetto dell’istanza di condono non sarebbero tali, trattandosi di mutamento di destinazione d’uso dell’immobile senza opere edilizie (da magazzino a vendita);
- il ricorrente non avrebbe dichiarato pubblicamente di non aver commesso
“abusi” , ma solo “abusi edilizi” e che comunque il contenuto di tali dichiarazioni non costituirebbe prova fidefacente;
- il preventivo del 18 marzo 2003 per l’esecuzione dei lavori necessari al cambio di destinazione riguarderebbe solo la manutenzione dell’impianto elettrico, lavori non condonabili;
- prima della presentazione della domanda di sanatoria nessuna attività commerciale avrebbe potuto essere avviata, viceversa dalla documentazione risulterebbe provato che il mutamento di destinazione d’uso sarebbe avvenuto anteriormente alla scadenza del termine per il condono (31 marzo 2003). Contesta, altresì, il ricorrente che la D.D. n.20679 dell’8 aprile 2009 di ingiunzione sarebbe inefficace in quanto adottata in esecuzione dell’ordinanza di questo Collegio n.932 del 2009, di reiezione della sospensione dei provvedimenti impugnati, nelle more
“riformata” dall’ordinanza del Consiglio di Stato n.1634 del 2009. Obene, con riferimento a questo ultimo aspetto si rileva che la decisione di accoglimento dell’istanza di sospensione da parte del Consiglio di Stato è limitata alla sola parte dell’ordinanza di questo Collegio n. 932/2009 di rigetto della sospensione nella quale non si è pronunziata sui provvedimenti impugnati con motivi aggiunti, preclusivi dell’attività di laboratorio e determinanti sotto il profilo del danno da valutare in sede cautelare, ordinando la remissione della cognizione sull’istanza cautelare al giudice di primo grado, senza nulla rilevare sulla fondatezza o meno dell’originario provvedimento di diniego del condono, con la conseguente piena efficacia dell’ordinanza n.932/2009 di rigetto della sospensione del detto diniego. Ciò posto, con riferimento a tale provvedimento di reiezione dell’istanza di condono impugnato con l’atto introduttivo non appaiono condivisibili le censure dedotte da parte ricorrente, tra l’altro smentite da quanto acclarato per tabulas , in disparte i profili relativi alla mancata preventiva autorizzazione commerciale e conseguente Dia riguardo il cambio di destinazione d’uso e le relative opere necessarie a ciò. Infatti, nella specie, si osserva che la domanda di condono è stata presentata ai sensi della l .n. 326 del 2003 e della l.r. n. 12 del 2004, indicando quale descrizione sintetica dell’illecito edilizio il parziale cambio di destinazione d’uso da magazzino a negozio dell’unità immobiliare sita al piano S1,con la specificazione che la superficie inerente il cambio d’uso è di mq 165,30;
inoltre è indicato
“ultimato” lo stato dei lavori alla data del 31 marzo 2003 e nella Tabella 1.B relativa al calcolo dell’oblazione è riportata quale Superficie Utile (mq) 165,30, su cui applicare la misura dell’oblazione pari a 88,00 euro a mq, per un importo totale dell’oblazione pari a euro 14.546,40. Del versamento di detta oblazione vi è prova in atti con l’allegazione di copia delle ricevute di versamento con bollettini postali effettuato dal ricorrente. Pertanto, quanto dichiarato nella domanda di condono (descrizione dell’abuso edilizio e versamento dell’oblazione) appare in contraddizione con quanto sostenuto dal ricorrente nel ricorso e ribadito nelle memorie conclusionali riguardo la non necessarietà della presentazione della detta domanda (presentata soltanto cautelativamente), trattandosi di un mutamento di destinazione d’uso realizzato senza opere edilizie. D’altra parte le affermazioni del ricorrente riguardo la non necessarietà della domanda di condono non risultano comprovate da specifica dimostrazione di prove tali da smentire quanto invece sostenuto dall’Amministrazione nell’atto di diniego impugnato e accertato nella relativa fase istruttoria: manca, infatti, sia la dimostrazione concreta di non aver realizzato opere edilizie nel locale in questione che quella di aver attivato un procedimento di riesame e di richiesta di rimborso delle somme versate per l’asserita non necessarietà, e quindi non debenza delle stesse. Tanto acclarato, deve rilevarsi che il provvedimento di diniego della domanda di condono impugnato non appare viziato nel senso denunciato dal ricorrente, atteso che detto atto risulta fondato su presupposti ed elementi acquisiti a seguito dell’apposita istruttoria da parte dell’Amministrazione, che dimostrano l’assenza di abusi alla data del 4 aprile 2003 nella quale è stato trasferito l’immobile adibito a magazzino, e quindi la evidente contraddizione con quanto dichiarato nella domanda di condono presentata dal ricorrente circa l’ultimazione dei lavori alla data del 31 marzo 2003;
né varrebbe obiettare il contrario, come sostenuto dal ricorrente stesso, perché in tal caso si dovrebbero ritenere condonabili degli
“abusi” non costituenti illecito edilizio. D’altra parte non possono ignorarsi gli ulteriori elementi rilevati dall’Amministrazione quali presupposti del provvedimento di diniego, e cioè l’aver chiesto l’autorizzazione alla vendita, prodromica all’effettuazione del cambio di destinazione del bene, soltanto dal 14 gennaio 2005, data sicuramente successiva a quella rilevante ai fini del condono edilizio nonché la non idoneità, quale prova, dei preventivi per l’esecuzione dei lavori necessari al cambio di destinazione d’uso allegati dalla parte, sia in relazione alla data di ultimazione che riguardo la tipologia dei lavori non condonabili. Conclusivamente, le censure dedotte con il ricorso introduttivo sono infondate e il diniego di condono impugnato risulta legittimo. … Con riferimento agli atti contenenti motivi aggiunti con i quali sono stati impugnati il provvedimento di divieto di prosecuzione dell’attività commerciale nonché di demolizione delle opere edilizie illegittimamente realizzate rileva il Collegio che tali provvedimenti costituiscono atti consequenziali e dovuti emanati dall’Amministrazione attesa l’accertata irregolarità dell’intervento, essendo in re ipsa l’interesse pubblico alla rimozione dell'abuso e al divieto di attività non autorizzata (senza necessità di una specifica comparazione con gli interessi privati coinvolti o sacrificati): l’emissione delle predette sanzioni derivanti da accertamenti operati dall’Amministrazione è stata adottata dalla stessa secondo un procedimento di natura vincolata precisamente tipizzato dal legislatore e rigidamente disciplinato dalla legge. Ne consegue che, in presenza delle accertate irregolarità, l’autorità amministrativa è tenuta ad intervenire affinché sia ripristinato lo stato dei luoghi e sia vietato lo svolgimento di attività non autorizzata, non sussistendo alcuna discrezionalità dell'Amministrazione in relazione al provvedere, in quanto altresì dette misure sanzionatorie corrispondono ipso facto all'interesse pubblico al ripristino delle situazioni giuridiche e allo stato dei luoghi illecitamente modificati (cfr. T.A.R. Basilicata, sez. I, 10 settembre 2010 , n. 599;
T.A.R. Trentino Alto Adige, Trento, sez. I, 4 agosto 2010 , n. 177;
T.A.R. Campania Napoli, sez. III, 2 luglio 2010 , n. 16548). In definitiva, il ricorso introduttivo e gli atti contenenti motivi aggiunti sono infondati e vanno respinti”
.

Il T.A.R. ha integralmente compensato tra le parti le spese e gli onorari di tale primo grado di giudizio “per giusti motivi legati alla peculiarità della vicenda” .

2.1.1 Con l’appello in epigrafe l’Abitante chiede ora la riforma di tale sentenza

Nell’ incipit del relativo atto il patrocinio dell’appellante afferma che “nella vicenda, l’unica “colpa” imputabile” al Signor M A risulterebbe, nella sostanza, quella “di aver presentato una domanda di condono che non era necessario presentare, trattandosi di un mutamento di destinazione d’uso realizzato senza opere edilizie e conforme alla disciplina urbanistica;
da tale domanda di condono l’Amministrazione ha tratto la convinzione che l’istante abbia, al contrario, realizzato opere edilizie e che tali opere siano state realizzate oltre il termine di legge consentito, per tali ragioni opponendo il diniego alla istanza presentata”
(cfr. ivi, pagg. 1 e 2).

2.1.2 Dopo un’ampia ricostruzione in fatto della vicenda ed un altrettanto dettagliata esposizione del contenuto della sentenza impugnata, la parte appellante rimarca di aver semplicemente effettuato un mutamento di destinazione d’uso senza realizzazione di opere, atteso che il locale di cui trattasi, adibito a magazzino, già si prestava al parziale uso per attività commerciale, al quale sarebbe stato adibito prima del predetto e perentorio termine del 31 marzo 2020.

L’appellante rimarca pure di non aver mai allegato documentazione o dichiarazioni che facessero presumere l’avvenuta realizzazione di opere, precisando, anzi - segnatamente nel corso dei chiarimenti intercorsi con la medesima Amministrazione comunale a seguito del subprocedimento instauratori a seguito del preavviso di rigetto dell’istanza di condono, inoltrato a’ sensi dell’art. 10-bis della l. n. 241 del 1990 - che nessuna opera edilizia era stata realizzata all’interno del locale in questione.

L’appellante reputa, sulla base dell’assunto giurisprudenziale secondo cui il mutamento di destinazione d’uso realizzato senza opere è un intervento non assoggettato al rilascio di titoli abilitativi edilizi (così, ad es., Cons. Stato, Sez. V, 14 maggio 2003, n. 1586 e 10 marzo 1999, n. 231) che al fine del mutamento di destinazione d’uso c.d. “meramente funzionale” neppure si renderebbe necessaria la sanatoria, essendo la relativa attività del tutto libera e non soggetta – quindi – neppure ad autorizzazione gratuita.

Tuttavia - precisa sempre l’appellante - nell’ipotesi in cui sia effettuato un mutamento di destinazione d’uso senza opere ma in contrasto con le prescrizioni degli strumenti urbanistici, la domanda di sanatoria deve reputarsi ammissibile, con la conseguenza che “il condono del mutamento di destinazione d’uso senza opere” – denota sempre l’appellante – “richiede, di regola, la sola conformità alla legislazione urbanistica vigente” (cfr. ibidem , pag. 15).

L’appellante si richiama pure, nell’ipotesi in cui il mutamento di destinazione d’uso avvenga anche mediante la realizzazione di opere, alla giurisprudenza che, agli effetti del rilascio del condono edilizio, richiede al riguardo la sussistenza - alla data perentoriamente prevista dalla legge - del “completamento funzionale” delle opere, ossia l’accertata presenza alla data medesima delle principali opere necessarie per attuare il mutamento di destinazione, ancorchè non siano stati realizzati gli impianti e le rifiniture di carattere complementare e accessorio, rimarcando in tal senso che “nello sforzo ermeneutico diretto a circoscrivere il concetto di “completamento funzionale” delle opere interne abusive si afferma che le stesse, per dirsi “ultimate” , devono risultare tali da consentirne l’uso in relazione alla funzione cui esse sono destinate e, quindi, dovendo esse contenere tutti gli elementi essenziali della loro destinazione d’uso (Cons. Stato, Sez. V, 4 maggio 2007, n. 2120 e 4 luglio 2002, n. 3679)” (cfr. ibidem , pag. 16).

Posto ciò, l’appellante, da un lato ripetutamente evidenzia che nella specie sussisterebbe un mutamento di destinazione d’uso senza previa realizzazione di opere edilizie e conforme alla disciplina urbanistica vigente, come del resto implicitamente confermato anche dalla stessa Amministrazione comunale, la quale mai avrebbe espresso rilievi di sorta in ordine all’incompatibilità urbanistica di un negozio nella zona territoriale omogenea in cui ricade l’immobile in questione);
e, dall’altro, afferma che il giudice di primo grado non avrebbe in alcun modo tenuto conto di tali circostanze, risolvendosi peraltro non solo a recepire in via del tutto acritica le ben erronee considerazioni motive contenute nell’impugnato provvedimento di diniego di rilascio del condono, ma – anzi – le avrebbe integrate in via del tutto autonoma e illegittima mediante proprie considerazioni altrettanto erronee.

Né andrebbe sottaciuto – sempre secondo l’appellante – che lo stesso giudice di primo grado, anziché verificare le censure proposte nel ricorso, avrebbe di fatto e del tutto illegittimamente invertito l’onere della prova, affermando che nella specie il privato non avrebbe comprovato di non aver realizzato opere edilizie, e non avrebbe pertanto smentito quanto a sua volta affermato (peraltro in via del tutto apodittica) dall’Amministrazione comunale.

2.1.3 In questo contesto argomentativo l’appellante rileva innanzitutto che per il giudice di primo grado assumerebbe rilevanza decisiva la circostanza che la domanda di condono edilizio indichi la “descrizione” dell’abuso edilizio e l’avvenuto “versamento” dell’oblazione: il che - di per sé - smentirebbe, secondo il giudice medesimo, che nella fattispecie si sia in presenza di un mutamento di destinazione d’uso realizzato senza opere edilizie.

Tale assunto del T.A.R. è reputato dall’appellante come sostanzialmente e illegittimamente integrativo della motivazione contenuta nell’impugnato provvedimento di diniego di condono.

L’assunto medesimo risulterebbe peraltro, sempre secondo l’appellante, del tutto infondato, ove si consideri che la domanda di condono è stata presentata obbligatoriamente su di un modulo appositamente predisposto, nel quale sono indicate preventivamente le singole voci da riempire: e, pertanto, la circostanza che lo “stato dei lavori” al 31 marzo 2003 – voce, questa, per l’appunto prestampata nel modulo – sia ivi indicato come “ultimato” non risulterebbe, di per sé, significativa dell’avvenuta realizzazione nella specie di opere edilizie.

In ogni caso – rimarca sempre l’appellante – nessuna “descrizione” dell’abuso edilizio in termini di “descrizioni di opere” risulterebbe, nella specie, contenuta nel modulo di richiesta di condono.

Né potrebbe assumere rilievo, al fine di comprovare l’avvenuta realizzazione nella specie di opere edilizie, l’ulteriore circostanza dell’avvenuta corresponsione nella specie di un’oblazione, posto che il versamento di quest’ultima è dovuto anche nell’ipotesi di mutamento della destinazione d’uso senza realizzazione di opere.

2.1.4 In secondo luogo l’appellante rileva che il giudice di primo grado ha ritenuto condivisibili le argomentazioni con le quali l’Amministrazione comunale, muovendo dall’apodittico presupposto dell’avvenuta realizzazione nella specie di opere edilizie, ha tratto la conclusione che le opere medesime sarebbero state realizzate successivamente alla data del 4 aprile 2003, nella quale è stato concluso il contratto di acquisto dell’immobile da parte dei Signori C A e A F

con la contestuale sottoscrizione della clausola con la quale, a’ sensi e per gli effetti dell’art. 46 del t.u. approvato con d,P.R. 6 giugno 2001, n. 380, si escludeva la sussistenza di abusi edilizi nell’immobile compravenduto.

Sul punto l’appellante rimarca ancora una volta la circostanza che il giudice di primo grado, laddove ha affermato che le sue deduzioni non risultano comprovate da elementi tali da smentire quanto sostenuto dall’Amministrazione comunale, avrebbe di fatto invertito l’onere della prova, sovvertendo in tal modo i termini della questione.

In tal senso l’appellante rileva che è l’Amministrazione comunale ad aver sostenuto, senza alcuna dimostrazione, che egli avrebbe realizzato opere edilizie oltre il perentorio termine del 31 marzo 2003.

Né, comunque, si comprenderebbe come l’appellante avrebbe potuto nella specie dimostrare di “non aver realizzato opere” .

2.1.5. L’appellante successivamente contesta il “sillogismo sconcertante” (così a pag. 20 dell’atto introduttivo del presente giudizio) con il quale l’Amministrazione comunale è pervenuta al proprio convincimento e su cui, nondimeno, il giudice di primo grado avrebbe omesso di pronunciarsi.

A tale riguardo l’appellante, dopo aver ancora una volta ribadito di non aver mai realizzato opere edilizie e che il termine indicato nella domanda di condono deve intendersi riferito al mutamento di destinazione dell’immobile, rileva che nell’atto notarile risulterebbe attestata l’insussistenza di “abusi edilizi” e non già – come erroneamente sostenuto dall’Amministrazione comunale – di “abusi” genericamente intesi e che, pertanto, in tale contesto dovrebbe pertanto escludersi che un mutamento di destinazione d’uso attuato senza la previa realizzazione di opere edilizie possa essere concettualmente ricondotto ad un “abuso edilizio” .

In conseguenza di tale notazione di fondo, secondo l’appellante, la dichiarazione contenuta nel testo contrattuale risulterebbe, quindi, del tutto irrilevante nell’economia del ragionamento dell’Amministrazione comunale che, a sua volta, ha dato origine al presente contenzioso.

Rimarca inoltre l’appellante che la dichiarazione di cui trattasi è stata resa, a’ sensi dell’art. 48 del d.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445, da una sola delle parti contraenti e che, pertanto, alla stregua dei principi generali propri della materia oltrechè di quanto disposto dall’art. 2700 c.c., l’atto pubblico “fa piena prova, fino a querela di falso, della provenienza del documento dal pubblico ufficiale che lo ha formato nonché delle dichiarazioni delle parti e degli altri fatti che il pubblico ufficiale attesta avvenuti in sua presenza o da lui compiuti” .

Se così è, quindi, risulterebbe con ogni evidenza “il grave errore” nel quale sarebbe nella specie incorsa l’Amministrazione comunale “nel dedurre “automaticamente” che la semplice dichiarazione nell’atto notarile, proveniente da uno dei contraenti, in ordine alla insussistenza degli abusi edilizi, costituisca “prova” (fino a querela di falso) della insussistenza degli abusi stessi” (cfr. ibidem , pag. 24).

2.1.6 L’appellante, per quanto invece attiene ai preventivi di spesa datati 18 marzo 2003 e ai quali si riferisce l’Amministrazione comunale al fine di dedurre l’impossibilità della realizzazione di lavori edilizi entro il perentorio termine del 31 marzo 2003, nel ribadire ulteriormente che nella specie alcuna opera edilizia sarebbe stata realizzata, rimarca – altresì – anche sotto questo profilo “il grave errore nel quale incorre l’Amministrazione: ed infatti, il preventivo al quale si riferisce l’Amministrazione concerne lavori di manutenzione da effettuarsi sull’impianto elettrico, come è

agevolmente rilevabile dall’elenco dei prodotti ai quali il preventivo si riferisce. Trattasi pertanto di lavori realizzabili nell’arco di poche ore. Dedurre dunque, da tale circostanza, che i prescritti lavori non sarebbero stati realizzati nel termine del 31 marzo 2003 – non essendo verosimile realizzare gli stessi tra il 18 marzo 2003 e il 31 marzo 2003 – costituisce un rilievo del tutto gratuito e denota ancora una volta la superficialità della valutazione dell’Amministrazione. Ed in ogni caso i lavori in esame – anche a volersi porre nell’ottica, del tutto 4errata, dell’Amministrazione comunale – costituiscono lavori di mera rifinitura del tutto irrilevanti ai fini del mutamento di destinazione d’uso, alla stregua della menzionata giurisprudenza secondo cui le opere abusive, per essere ultimate, debbono risultare tali da permettere l’uso in relazione alla funzione cui sono destinate e, quindi, contenere tutti gli elementi essenziali alla loro destinazione d’uso” (cfr. ibidem , pag. 24 e ss.).

2.1.7. Per quanto attiene inoltre alla circostanza – parimenti valorizzata nella propria tesi dall’Amministrazione comunale, nonché a sua volta considerata determinante nella sentenza impugnata – che soltanto dopo un consistente lasso di tempo rispetto al 31 marzo 2003, ossia nel gennaio del 2005 e nell’ottobre del 2005, sarebbero state presentate le comunicazioni d’inizio di attività, rispettivamente per la vendita al dettaglio e per il laboratorio, l’appellante letteralmente afferma che non sarebbe dato di “comprendere … il senso e la portata” di tale rilievo, posto che all’Amministrazione comunale sarebbe infatti “demandato dalla menzionata normativa di verificare la sussistenza dei presupposti e delle condizioni per la concessione in sanatoria relativamente, nella fattispecie, ad un mutamento di destinazione d’uso. Certamente non competeva all’Amministrazione in questa sede verificare l’effettivo svolgimento di attività commerciale nei medesimi locali. Sotto tale profilo, dunque, il rilievo si rivela del tutto inconferente. … In ogni caso, non è dato comprendere – nell’ottica dell’Amministrazione – come avrebbe dovuto “correttamente” agire l’odierno ricorrente. Vero è, invece, che il Sig. Abitante non avrebbe potuto agire diversamente da come ha fatto. Ed invero, dopo aver presentato domanda di concessione in sanatoria, il ricorrente ha immediatamente presentato, in data 14 giugno2005, la comunicazione di inizio attività di vendita ai sensi del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 114 allegando, tra l’altro, la istanza di condono precedentemente proposta. E’ ovvio che prima della presentazione della domanda di sanatoria nessuna procedura di autorizzazione all’esercizio dell’attività di vendita avrebbe potuto essere avviata” (cfr. ibidem , pag. 26).

2.1.8 L’appellante, da ultimo, afferma che il T.A.R. avrebbe del tutto omesso di pronunciarsi sull’ultimo ordine di censure dedotto nel ricorso introduttivo del giudizio di primo grado, con il quale il provvedimento di diniego di rilascio del condono è stato contestato nella parte in cui l’Amministrazione comunale ha ritenuto che la documentazione allegata dal privato a sostegno della propria tesi nel corso del contraddittorio procedimentale di cui all’art. 10- bis della l. n. 241 del 1990 non fosse idonea a scalfire la fidefacenza di quanto affermato nel rogito di acquisto.

Come si è dianzi rilevato al § 1.1 della presenza sentenza, nella motivazione del diniego anzidetto si legge al riguardo che si tratterebbe di “mere testimonianze, preventivi di lavori che si sarebbero potuti richiedere in qualunque tempo, fatture di ricevimento merci al civico oggetto della domanda di condono (merci che ben avrebbero potuto essere scaricate anche presso un magazzino anziché presso un esercizio commerciale)” .

Secondo l’appellante tale parte del provvedimento di diniego all’evidenza risentirebbe del vizio censurato con il primo motivo del ricorso proposto in primo grado, laddove era stato rilevato che l’Amministrazione comunale non aveva ritenuto la documentazione “idonea” a scalfire la natura “fidefacente” dell’atto di compravendita, dal quale l’Amministrazione comunale aveva fatto scaturire, in via del tutto travisante, l’avvenuta realizzazione nell’immobile di “lavori edilizi” successivamente alla data del 31 marzo 2003.

Comunque sia, l’appellante reputa che – per contro – la documentazione anzidetta risulterebbe del tutto idonea a dimostrare la risalenza del mutamento di destinazione d’uso del locale ad un lasso di tempo antecedente all’anzidetta data del 31 marzo 2003, trattandosi di numerose fatture di vendita emesse nel locale di cui trattasi, nonché di dichiarazioni rese da soggetti terzi, ossia di atti che nel loro complesso comproverebbero come prima della data medesima il parziale mutamento di destinazione d’uso fosse già avvenuto: dal che, pertanto, discenderebbe la natura del tutto apodittica dell’assunto dell’Amministrazione comunale.

Né assumerebbe un rilievo contrario la circostanza, per contro considerata dall’Amministrazione comunale a fondamento della propria tesi, che la denuncia per l’applicazione della tariffa sui rifiuti relativa al locale in questione risalga nella specie alla ben lontana data del 27 aprile 2006, essendo per contro ciò – sempre secondo l’appellante – “del tutto inconferente ed irrilevante ai fini della valutazione operata dall’Amministrazione” medesima (cfr. ibidem , pag. 28).

Semmai, il relativo rilievo avrebbe dovuto indurre quest’ultima a richiedere chiarimenti, ovvero un’eventuale integrazione documentale all’interessato: omissione, questa, rilevante agli effetti di un comportamento comunque contrario ai principi fondamentali dettati in tema di procedimento amministrativo, nonché – segnatamente - agli artt. 5 e 6 della l.r. 8 novembre 2004, n. 12, laddove - tra l’altro - si dispone al comma 1 di entrambi tali articoli che “il Comune verifica la completezza della documentazione allegata alla domanda del titolo abilitativo edilizio in sanatoria e, se del caso, invita l'interessato ad integrarla entro un congruo termine, non inferiore comunque a trenta giorni” .

2.2. Si è costituito in tale ulteriore grado di giudizio il Comune di Roma, medio tempore divenuto Roma Capitale a’ sensi dell’art. 24 della l. 5 maggio 2009, n. 42, replicando puntualmente alle censure avversarie e concludendo per la reiezione dell’appello.

2.3. Con ordinanza n. 617 dd. 8 febbraio 2011 la Sez. IV^ di questo Consiglio di Stato ha respinto a’ sensi dell’art. 98 c.p.a. la domanda di sospensione cautelare della sentenza resa in primo grado, avanzata dall’appellante, “considerato che il ricorso, nei limiti della delibazione della fase cautelare, non appare assistito da fumus boni iuris, in considerazione della natura e del tempo di commissione dell’abuso oggetto dei provvedimenti impugnati in primo grado” .

2.3 All’odierna pubblica udienza la causa è stata trattenuta per la decisione.

3.1.1 Tutto ciò premesso, al fine di pervenire alla definizione del merito di causa il Collegio reputa necessario chiarire, in via preliminare, gli stessi elementi portanti che contraddistinguono nel nostro sistema di norme urbanistico-edilizio l’istituto del mutamento di destinazione d’uso di un immobile in assenza di opere edilizie, nonché l’incidenza sull’istituto medesimo determinata dalle disposizioni di ordine speciale in prosieguo di tempo dettate in materia di condono edilizio (art. 31 e ss. della l. 28 febbraio 1985, n. 47 e succ. modd.;
art. 39 della l. 23 dicembre 1994, n. 724 e succ. modd. ;
art. 32 del d.l. 30 settembre 2003, n. 269 convertito con modificazioni con l. 24 novembre 2003, n. 326).

3.1.2 Il mutamento di destinazione d’uso c.d. “ funzionale” di un’immobile, ossia realizzato senza opere edilizie ancorchè l’ordinamento lo qualifichi comunque quale illecito urbanistico-edilizio, costituisce una violazione alquanto diffusa, in ordine alla quale sono insorte non indifferenti questioni interpretative, non sempre agevolmente risolvibili anche al di là dell’apparente non complessità delle fattispecie, come per l’appunto nel caso qui in esame.

La problematica - come ben noto - si è storicamente aperta allorquando, per effetto dell’art. 3 della l. 28 gennaio 1977, n. 10, il titolo edilizio venne trasformato da licenza a provvedimento concessorio rilasciato dalle amministrazioni comunali a fronte del pagamento di una somma da parte dell’operatore privato qualificata come “contributo” e commisurato su due differenti componenti di costo che nell’ipotesi di nuove trasformazioni edilizie venivano tra di loro a sommarsi: l ’ “incidenza delle spese di urbanizzazione” nonché il “costo di costruzione”.

In tal modo, quindi, nell’ordinamento era stato introdotto il principio, a tutt’oggi vigente (cfr. art. 16 e ss. del t.u. approvato con d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 e succ. modd.) della necessaria contribuzione da parte del privato esercente lo i us aedificandi alle esigenze di infrastrutturazione e di sviluppo del territorio trasformato dall’attività edilizia.

Il principio solidaristico promanante dall’art. 2 Cost. si impone quale fondamento di ordine generale affinchè il privato partecipi all’onere gravante sul Comune (e in senso lato sulla collettività) r che deriva dall’aumento del c.d. “carico urbanistico” , comportante la costruzione o l’adeguamento delle opere di urbanizzazione, menzionate dall’art. 4 della l. 29 settembre 1964, n. 847 e succ. modd., - nonché ,eventualmente dalla legislazione regionale - necessarie a organicamente inserire nel territorio la nuova realizzazione del privato: e ciò, dunque, anche nella considerazione che l’urbanizzazione delle aree costituisce un presupposto del tutto inderogabile per l’ordinato svolgersi dell’attività edilizia, e posto che le aree medesime acquisiscono, proprio mediante l’intervento pubblico preordinato alla loro urbanizzazione, un beneficio economicamente rilevante.

Il principio stesso, peraltro, proprio in quanto si fonda sul presupposto della necessità della corresponsione da parte del privato di un contributo connesso alla sua diversificata fruizione del territorio, evidentemente non può esaurirsi al mero dato - per così dire “appariscente” - dell’inserimento su di una determinata area di una nuova opera edilizia, ma deve pure estendersi, coerentemente alla stessa intrinseca logica che lo sorregge, anche alle modifiche dell’utilizzo degli immobili già esistenti nel territorio: e ciò in quanto un loro mutamento di destinazione d’uso non si esaurisce soltanto nella necessità, agli effetti di una mutata capacità contributiva (art. 53 Cost.), di una variazione di categoria e di rendita catastale, a’ sensi del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 650 e delle relative disposizioni applicative, ma richiede anche una riconsiderazione del costo di inserimento dell’immobile medesimo nel contesto dell’urbanizzazione presente nella zona.

A fronte delle disposizioni legislative, sia di fonte statale che regionale, nonché di quelle di fonte regolamentare comunale che sono intervenute in prosieguo di tempo a normare la fattispecie, la relativa violazione o elusione permane - come rilevato dianzi - alquanto frequente e - per così dire “liquida - posto che la stessa assenza di opere edilizie consente una più elevata libertà di azione e di conseguente occultamento del proprio operato all’autore dell’abuso.

Spesso, inoltre, il profilo dell’illecito urbanistico – edilizio risulta concomitante con quello fiscale, ovvero il mutamento apportato persegue fini di maggiore lucro, come ad esempio accaduto in un determinato momento storico allorquando si riscontrarono numerose trasformazioni dell’utilizzo abitativo di immobili in utilizzo commerciale al fine di evitare su di essi l’applicazione della disciplina sul c.d. “equo canone” contenuta nella l. 27 luglio 1978, n. 392.

Prima dell’entrata in vigore della l. 28 febbraio 1985, n. 47, che ha per la prima volta introdotto sotto il profilo urbanistico-edilizio alcune disposizioni relative alla modifica della destinazione d’uso degli immobili, il fenomeno era stato soprattutto considerato dalla giurisprudenza penale,

con esiti non sempre unanimi circa la sussistenza al riguardo - o meno - di ipotesi di reato sulla scorta della disciplina ad essa previgente, fondando in particolare le proprie valutazioni sull’art. 41 della l. 17 agosto 1942, n. 1150 come modificato dall’art. 13 della l. 6 agosto 1967, n. 765, nonché sull’art. 1 della l. 28 gennaio 1977, n. 10 e rimarcando comunque la necessità di garantire l’assetto urbanistico e il sistema di zonizzazione introdotto per effetto del d.m.. 2 aprile 1968, n. 1444 non solo nella fase di edificazione, ma anche nella fase di utilizzazione degli edifici: e ciò –-per l’appunto - nel predetto presupposto che ogni mutamento di destinazione d’uso, anche senza opere, poteva avere ripercussioni sulla trasformazione urbanistica del territorio, violando in tal modo gli strumenti urbanistici e richiedendo pertanto l’assenso preventivo della pubblica amministrazione.

La sentenza di Cass. pen. SS.UU., 29 maggio 1982, n. 7102 sancì quindi da ultimo, in tale contesto, il principio in forza del quale il mutamento di destinazione d’uso di un immobile senza realizzazione di opere edilizie costituiva reato a’ sensi dell’allora vigente art. 17, lett. a) della l. n. 10 del 1977 se il mutamento aveva avuto per oggetto un immobile edificato successivamente all’entrata in vigore della l. n. 765 del 1967, se esso era stato realizzato in contrasto con gli strumenti urbanistici e se si trattava di mutamento comportante la traslazione non precaria dell’immobile dall’una all’altra delle categorie urbanistiche stabilite dalla normativa sugli standards urbanistici.

A sua volta, la giurisprudenza di questo Consiglio di Stato, sempre in epoca precedente all’entrata in vigore della l. n. 47 del 1985, era pervenuta a conclusioni alquanto diverse.

Fino al 1982 era stato infatti correntemente affermato che il mutamento di destinazione d’uso di un immobile non doveva reputarsi assoggettato né a concessione edilizia ovvero ad autorizzazione se non in concomitanza di lavori di ristrutturazione, fermo restando il controllo pubblico eventualmente stabilito da altre discipline di settore, come regolamenti d’igiene, di commercio o di pubblica sicurezza (così, ad es., Cons. Stato, Sez. IV, 28 luglio 1982, n. 525,): e ciò in quanto nessuna delle norme legislative vigenti in materia urbanistica all’epoca attribuiva alla autorità amministrativa il potere “di imporre, o vietare, ai privati, la scelta di uso determinato tra quelli cui un immobile, dato nella sua consistenza e configurazione, è virtualmente idoneo senza bisogno di lavori di trasformazione” (cfr., testualmente, ibidem ).

Tale conclusione veniva essenzialmente a fondarsi sul dato testuale dell’art. 1 della l. n. 10 del 1977, posto che esso, nell’assoggettare a concessione “ogni attività comportante trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio comunale” ineludibilmente doveva interpretarsi nel senso di escludere dalla sua applicazione i semplici cambi di destinazione d’uso senza interventi edilizi (cfr., ad es., Cons. Stato, Sez. V, 14 dicembre 1988, n. 824).

Per effetto della l. n. 47 del 1985 sono stati successivamente introdotti tre articoli relativi al mutamento di destinazione d’uso, con o senza opere.

L’art. 8 disponeva, per quanto qui segnatamente interessa, nel senso che “le Regioni stabiliscono quali siano le variazioni essenziali al progetto approvato, tenuto conto che l’essenzialità ricorre esclusivamente quando si verifica una o più delle seguenti condizioni: a) mutamento della destinazione d’uso che implichi variazione degli standards previsti dal D.M. 2 aprile 1968” .

Il susseguente art. 26, primo comma, disponeva quindi che “non sono soggette a concessione né ad autorizzazione le opere interne alle costruzioni che ... non modifichino la destinazione d’uso delle costruzioni e delle singole unità immobiliari ...” .

L’art. 25, ultimo comma, nel suo testo originario, disponeva a sua volta che “la legge regionale stabilisce, altresì, criteri e modalità cui dovranno attenersi i Comuni, all’atto della predisposizione di strumenti urbanistici, per l’eventuale regolamentazione, in ambiti determinati del proprio territorio, delle destinazioni d’uso degli immobili nonché dei casi in cui per la variazione di essa sia richiesta la preventiva autorizzazione del sindaco. La mancanza di tale autorizzazione comporta l’applicazione delle sanzioni di cui all’art. 10 ed il conguaglio del contributo di concessione se dovuto”.

Pur nella sopravvenuta vigenza di tali disposizioni, la giurisprudenza di questo Consiglio di Stato ha seguitato in varie circostanze ad affermare che il mutamento di destinazione d’uso funzionale non era di per sé assoggettato al regime della concessione edilizia (cfr., ad es., Cons. Stato, Sez. V, 10 marzo 1999, n. 231 e 13 febbraio 1999, n. 98;
Sez. IV, 25 gennaio 1993, n. 84).

Con sentenza n. 73 dd. 11 febbraio 1991 la Corte Costituzionale, nel dichiarare costituzionalmente illegittimo, per violazione degli artt. 5 e 117 Cost., l’art. 76, primo comma, punto 2 della legge regionale del Veneto 27 giugno 1985, n. 61 (Norme per l’assetto e l’uso del territorio) come modificato dall’art. 15 della l.r. 11 marzo 1986, n. 9, ha avuto modo di interpretare in via sistematica le disposizioni surriportate.

Il Giudice delle Leggi ha in tal modo esplicitamente distinto il mutamento di destinazione d’uso con opere dal mutamento di destinazione d’uso “funzionale” , ossia senza opere, riferendo al primo la disciplina contenuta nel predetto art. 8, nonché nell’art. 26.

Secondo l’interpretazione della Corte Costituzionale le disposizioni contenute nel predetto art. 8 dovevano ricondursi a norme di principio vincolanti per le Regioni, tenendo presente che l’unica norma che ivi prevedeva il rilascio della concessione edilizia per il mutamento di destinazione d’uso contemplava al riguardo la compresenza di due condizioni, ossia:

-1) poiché il surriferito art. 8 faceva riferimento a una modifica strutturale del progetto costruttivo assentito, doveva trattarsi di mutamento di destinazione d’uso con opere;

-2) in ogni caso la trasformazione doveva comportare un mutamento degli standards , ossia la variazione da una tipologia di categoria contemplata dal d.m. 2 aprile 1968, n. 1444 ad un’altra categoria ivi parimenti contemplata.

La mancanza di una di tali due condizioni determinava, pertanto, il venir meno del presupposto voluto dalla legge per l’assoggettamento del mutamento di destinazione d’uso al regime della concessione edilizia.

Per quanto segnatamente attiene all’art. 26, primo comma, esso è stato interpretato dalla Corte Costituzionale nel senso che il mutamento di destinazione d’uso con opere interne era assoggettato al rilascio di autorizzazione, “ciò desumendosi dall’eccezione ivi espressamente prevista rispetto al regime ordinario delle opere interne” (cfr. sentenza n. 73 del 1991 cit.).

Lo stesso Giudice delle Leggi ha quindi ricondotto l’ambito di applicazione del predetto art. 25, primo comma, della l. n. 47 del 1985 alla disciplina del mutamento di destinazione d’uso senza opere, interpretandolo nel senso che:

-1) il mutamento di destinazione d’uso funzionale poteva essere assoggettato soltanto ad autorizzazione;

-2) l’autorizzazione era prevista solo per ambiti territoriali delimitati;

-3) per l’assoggettamento ad autorizzazione necessitava il duplice intervento della Regione e del Comune;

-4) l’assoggettamento al regime autorizzatorio non poteva limitarsi al provvedimento regionale perché compito indefettibile del Comune era quello di “un preventivo apprezzamento di insieme del territorio diretto a verificare se dalla mutata utilizzazione possano effettivamente derivare situazioni di incompatibilità con il tessuto urbanistico” .

In buona sostanza, quindi, la Regione era competente a normare i criteri generali e astratti degli interventi, nel mentre al Comune era riservato il potere di applicare in concreto tali criteri nel proprio territorio.

Successivamente l’art. 2, comma 60, della l. 23 dicembre 1996, n. 662 ha sostituito il surriportato testo dell’art. 25 con il seguente: “le leggi regionali stabiliscono quali mutamenti, connessi o non connessi a trasformazioni fisiche, dell’uso di immobili o di loro parti, subordinare a concessione, e quali mutamenti, connessi o non connessi a trasformazioni fisiche, dell’uso di immobili o di loro parti siano subordinati ad autorizzazione” .

Tale disciplina, superando di fatto il contenuto della sopradescritta sentenza della Corte Costituzionale, ha in questo modo interamente devoluto alle Regioni la discrezionalità di individuare con propria fonte legislativa i mutamenti di destinazione d’uso da assoggettare a provvedimento autorizzativo, esercitando pertanto con ciò la scelta se limitarsi alla disciplina del solo mutamento di destinazione d’uso con opere, ovvero di comprendere e di disciplinare nella propria legge anche il mutamento di destinazione d’uso funzionale.

In tale discrezionalità era – altresì – ricompresa anche la determinazione di quali provvedimenti di assentimento prevedere, ossia se la sola concessione, o la sola autorizzazione, ovvero - a seconda dei casi - l’una o l’altra, ovvero nessuna delle due.

Tale materiale normativo è stato quindi – da ultimo – traslato nel corpus del t.u. approvato con d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 e successive modifiche.

L’art. 10, comma 2, di tale testo coordinato delle disposizioni legislative e regolamentari vigenti in materia edilizia disponeva infatti, mediante apposita disposizione legislativa che riprendeva l’anzidetto assunto del novellato testo dell’art. 25, ultimo comma, della l. n. 47 del 1985 coordinandolo con la susseguente evoluzione definitoria dei titoli edilizi, nel senso che “ le Regioni stabiliscono con legge quali mutamenti, connessi o non connessi a trasformazioni fisiche, dell’uso di immobili o di loro parti, sono subordinati a permesso di costruire o a denuncia di inizio attività” .

Va soggiunto che, successivamente ai fatti di causa, per effetto dell’art. 17, comma 2, lett. a), del d.l. 12 settembre 2014, n. 133 , convertito con modificazioni con l. 11 novembre 2014 n. 164, la surriportata disposizione è stata modificata, sempre in dipendenza della necessità di coordinarla con

l’ulteriormente mutato assetto ordinamentale dei titoli edilizi, nel senso che “le Regioni stabiliscono con legge quali mutamenti, connessi o non connessi a trasformazioni fisiche, dell’uso di immobili o di loro parti, sono subordinati a permesso di costruire o a segnalazione certificata di inizio attivita’”.

Per quanto segnatamente attiene alla Regione Lazio, va comunque qui opportunamente rilevato che a’ sensi dell’art. 7 della l.r. 2 luglio 1987, n. 36, così come vigente sia all’epoca dei fatti di causa, sia al giorno in cui la presente causa è stata introitata per la decisione, “gli strumenti urbanistici generali debbono, per ciascuna delle zone omogenee previste dal decreto ministeriale 2 aprile 1968, n. 1444, stabilire le categorie di destinazione d’uso ammesse con riferimento a quelle previste dagli articoli 14 e 15 della legge regionale 12 settembre 1977, n. 35” (ossia costruzioni a carattere residenziale, costruzione residenziale di servizio, costruzioni o impianti destinati ad attività turistiche, commerciali e direzionali, complessi turistico-ricettivi complementari, costruzioni o impianti destinati ad attività industriali o artigianali) . I piani particolareggiati e gli altri strumenti attuativi potranno, nell’ambito di ciascuna delle categorie stabilite dallo strumento urbanistico generale, procedere all’indicazione di più specifiche destinazioni d’uso. Le modifiche di destinazione d’uso con o senza opere a ciò preordinate, quando hanno per oggetto le categorie stabilite dallo strumento urbanistico generale, sono subordinate al rilascio di apposita concessione edilizia, mentre quando riguardano gli ambiti di una stessa categoria sono soggette ad autorizzazione da parte del sindaco” (cfr. ivi, primo comma;
il secondo comma, prima parte, dispone, viceversa, che nei centri storici, come definiti dall’art. 2 del d.m. 2 aprile 1968, n. 1444 , “è di norma vietato il mutamento delle destinazioni d’uso residenziali” ).

E’ pure opportuno rilevare che, sempre nell’attuale contesto dell’art. 10, comma 2, del t.u. approvato con d.P.R. n. 380 del 2001, la giurisprudenza penale reputa sussistente il reato di cui all’art. 44, lett. b), del medesimo testo unico nelle sole ipotesi in cui il mutamento di destinazione duso è “giuridicamente rilevante”, e cioè quello realizzato tra categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico, tenuto conto che nell’ambito delle stesse categorie possono aversi mutamenti di fatto, ma non diversi regimi urbanistico - contributivi, stanti le sostanziali equivalenze dei carichi urbanistici nell'ambito della medesima categoria, ma non - per l’appunto - tra categorie diverse (cfr. al riguardo, ad es., Cass. pen. Sez. III, 8 novembre 2018, n. 6366, anche con esplicito riferimento al medesimo assunto di Cons. Stato, Sez. V, 3 gennaio 1998, n. 24; ex multis , pervengono a identiche conclusioni anche Cons. Stato, Sez. V, 2 febbraio 1995, n. 180, e 13 maggio 1993, n. 600 e 13 febbraio 1993, n. 245;
cfr., altresì, nel medesimo senso la più recente Cass. pen. Sez. III, 3 luglio 2019, n. 36689 che perviene ad identiche conclusioni per l’ipotesi di trasformazione di un magazzino in un luogo di culto realizzata senza opere edilizie, anche con espresso richiamo in questo caso a Cons. Stato, Sez. IV, ordinanza 10 maggio 2011, n. 2008)

Va – altresì – opportunamente rilevato che, sempre in epoca successiva ai fatti di causa, la disciplina dell’istituto del mutamento di destinazione d’uso senza opere edilizie è stato ulteriormente innovato per effetto dell’art. 17, comma 1, lett. n), del d.l. 12 settembre 2014, n. 133, convertito con modificazioni dalla l. 11 novembre 2014, n. 164. È stato inserito nel corpus del t.u. approvato con d.P.R. n. 380 del 2001 il nuovo art. 23- ter , intitolato “Mutamento d’uso urbanisticamente rilevante” e così formulato:

“1. Salva diversa previsione da parte delle leggi regionali, costituisce mutamento rilevante della destinazione d’uso ogni forma di utilizzo dell’immobile o della singola unità immobiliare diversa da quella originaria, ancorchè non accompagnata dall'esecuzione di opere edilizie, purchè tale da comportare l’assegnazione dell’immobile o dell’unità immobiliare considerati ad una diversa categoria funzionale tra quelle sotto elencate: a) residenziale;
a-bis) turistico-ricettiva;
b) produttiva e direzionale;
c) commerciale;
d) rurale.”

“2. La destinazione d’uso di un fabbricato o di una unità immobiliare è quella prevalente in termini di superficie utile”.

“3. Le Regioni adeguano la propria legislazione ai principi di cui al presente articolo entro novanta giorni dalla data della sua entrata in vigore. Decorso tale termine, trovano applicazione diretta le disposizioni del presente articolo. Salva diversa previsione da parte delle leggi regionali e degli strumenti urbanistici comunali, il mutamento della destinazione d’uso all’interno della stessa categoria funzionale è sempre consentito”.

Mediante la surriportata disciplina, significativamente contenuta nel c.d. “decreto sblocca – Italia” il legislatore statuale si è di fatto riattribuito la competenza nella disciplina dell’istituto, ponendo con ciò fine ad un problema ermeneutico non trascurabile insorto a seguito della sostituzione apportata all’originario testo dell’art. 25, ultimo comma, della l. n. 47 del 1985 per effetto della l. n. 662 del 1996 e della susseguente sua “traslazione” all’interno dell’art. 10 stesso del t.u. n. 380 del 2001, ossia quale fosse la disciplina di riferimento legislativo in concreto applicabile qualora il legislatore regionale si fosse astenuto dal legiferare in materia.

Da ciò è dunque scaturita una disciplina di principio, ad avviso del Collegio cogente – stante la natura stessa del provvedimento legislativo che l’ha introdotta (non a caso nel suo titolo finalizzata ad introdurre riforme di “sistema” - tra l’altro - nell’ambito della semplificazione burocratica, nonchè per la ripresa delle attività produttive) anche per le stesse autonomie speciali, quale norma di riforma economico-sociale che si sovrappone alla clausola di salvaguardia contenuta nell’art. 2, comma 2, del t.u. n. 380 del 2001 (cfr. l’art. 14, comma 1, lett. f) dello Statuto speciale di autonomia della Regione Siciliana approvato con r.d.l. 15 maggio 1946, n. 455 e succ. modd.;
l’art. 3, lett. f), dello Statuto speciale di autonomia della Regione Sardegna approvato con l. cost. 26 febbraio 1948, n. 3 e succ. modd.;
l’art. 2, lett. g), dello Statuto speciale di autonomia della Regione Valle d’Aosta approvato con l. cost. 26 febbraio 1948, n. 3 e succ. modd.;
l’art. 8, n. 5, dello Statuto speciale di autonomia della Regione Trentino Alto Adige – Südtirol di cui al t.u. approvato con d.P.R. 31 agosto 1972, n. 670 e succ. modd., per quanto segnatamente attiene alle competenze delle Province autonome di Trento e di Bolzano;
l’art. 4, n. 12, dello Statuto speciale di autonomia della Regione Friuli Venezia Giulia approvato con l.cost. 31 gennaio 1963, n. 1 e succ. modd.).

Come risulta ben evidente, la nuova disciplina di fonte statuale dell’istituto introduce - ora - una fondamentale bipartizione sistemica tra mutamenti di destinazione d’uso urbanisticamente rilevanti e non, nei seguenti termini: se con il mutamento di destinazione d’uso cambia l’utilizzazione dell’immobile tra quelle di cui alle lettere dalla a) alla d) del surriportato comma 1, si tratta di mutamento d’uso rilevante ai fini della rideterminazione degli oneri di urbanizzazione;
nel mentre, nel caso in cui per effetto del mutamento di destinazione d’uso la categoria funzionale rimane la stessa, non è possibile ricondurre la relativa fattispecie ad un’ipotesi di mutamento di destinazione d’uso urbanisticamente rilevante.

3.1.3. Alla conclusione di tale excursus storico-sistematico dell’istituto, si può pertanto affermare che già all’epoca dei fatti di causa costituiva comunque ius receptum la definizione del mutamento di destinazione d’uso quale “attività volta a vincolare in maniera non precaria una costruzione ad una determinata utilizzazione, classificabile fra quelle correnti in materia urbanistica” (così, puntualmente, Cass. pen., Sez. III, 13 giugno 1983, n. 7404),da reputarsi illecita se avvenuta senza previo assenso dell’amministrazione comunale tra categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico, mentre nell’ambito della medesima categoria, eccezion fatta per i centri storici, gli eventuali mutamenti di fatto non incidono sul carico urbanistico della zona e sono pertanto urbanisticamente irrilevanti (cfr., ex multis , Cass., Sez. III, 19 giungo 2018, n. 52398 e 22 maggio 2014, n. 20773, che ravvisano al riguardo, nell’ipotesi di illecito, il reato di cui all’art. 44, comma 1, lett. b) del t.u. approvato con d.P.R. n. 380 del 2001;
cfr., altresì, ex plurimis , Cons. Stato, Sez. IV, 13 gennaio 2010, n. 45 e Sez. V, 21 dicembre 1992, n. 1547 ).

Allo scopo di stabilire se vi sia stata modifica della destinazione d’uso di un immobile devono essere considerate non tanto le concrete modalità di utilizzazione del bene, quanto piuttosto delle oggettive attitudini funzionali acquisite dal bene stesso (Cons. Stato, Sez. V;
24 ottobre 1996, n. 1268), non risultando al riguardo rilevanti – se considerate per se stanti – le risultanze catastali (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 9 settembre 2009, n.5417).

3.1.4 A questo punto va necessariamente chiarito il rapporto che è venuto a determinarsi tra la progressiva evoluzione della disciplina dell’ipotesi della realizzazione del mutamento di destinazione d’uso, dianzi disaminata al § 3.1.2 della presente sentenza, e le disposizioni eccezionali in materia di condono edilizio a loro volta succedutesi nel tempo (cfr. al riguardo l’art. 31 e ss. della l. 28 febbraio 1985, n. 47 e succ. modd., l’art. 39 della l. 23 dicembre 1994, n. 724 e succ. modd. nonché l’art. 32 del d.l. 30 settembre 2003, n. 269 convertito con modificazioni con l. 24 novembre 2003, n. 326).

Il primo condono, disciplinato in via esclusiva dall’art. 31 e ss. della l. n. 47 del 1985, ab origine testualmente presupponeva soltanto la sanatoria della realizzazione di “opere” : ciò si ricava dalla lettura delle 4 voci descrittive delle categorie di abuso contenute nella tabella annessa alla legge medesima.

In particolare, la tipologia n. 4 contemplava, segnatamente, le “opere realizzate in difformità dalla licenza edilizia o concessione che non comportino aumenti della superficie utile o del volume assentito;
opere di ristrutturazione edilizia come definite dall'articolo 31, lettera d), della legge n. 457 del 1978, realizzate senza licenza edilizia o concessione o in difformità da essa;
opere che abbiano determinato mutamento di destinazione”
.

In buona sostanza, quindi, il legislatore si era letteralmente riferito soltanto alle ipotesi in cui il mutamento della destinazione d’uso era stato realizzato – per l’appunto - mediante “opere” .

Per effetto dell’art. 2, comma 53, della l. 23 dicembre 1996, n. 662 è stata approvata un’interpretazione autentica, tale quindi da retroagire agli effetti sia del condono edilizio originariamente previsto dall’art. 31 e ss. della l. 47 del 1985, sia del susseguente condono edilizio previsto dall’art. 39 della l. 23 dicembre 1994, n. 724 che di fatto ne ha riaperto procedure e termini mediante l’applicazione delle medesime disposizioni, nel senso che “la tipologia di abuso di cui al numero 4 della tabella allegata alla legge 28 febbraio 1985, n. 47, deve intendersi applicabile anche agli abusi consistenti in mutamenti di destinazione d'uso eseguiti senza opere edilizie”.

Lo stesso problema si è peraltro riproposto anche con riguardo al condono edilizio disciplinato dall’art. 32 del d.l. n. 269 del 2003 convertito con modificazioni con l. n. 326del 2003.

Per tale evenienza il legislatore, nella tabella 1 annessa al testo legislativo, aveva contemplato 6 tipologie di abuso, tutte peraltro testualmente contemplanti, nella loro definizione, l’avvenuta realizzazione di “opere”.

La prassi ha in questo caso individuato la tipologia 1 di abusi ( “Opere realizzate in assenza o in difformità del titolo abilitativo edilizio e non conformi alle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici” ;
ai fini di causa può denotarsi che la definizione è corrispondente a quella contenuta nella tabella A annessa alla l.r. 8 novembre 2004, n. 12, attuativa di tale sanatoria nella Regione Lazio ) come inclusiva anche delle ipotesi di mutamento d’uso funzionale, posto queste ultime costituiscono comunque “variazione essenziali” ai sensi dell’art. 32, comma 1, lett. a), del t.u. approvato con d.P.R. n. 380 del 2001 (nel caso del Lazio, anche a’ sensi dell’art. 17 comma 1, lett. a), della l. reg. 11 agosto 2008, n. 15) qualora si sostanzino nel passaggio ad una più gravosa destinazione d’uso che ha maggiore incidenza sugli standard urbanistici previsti dal d.m. 2 aprile 1968, n. 1444.

La giurisprudenza, avendo a sua volta parimenti riguardo, in via principale, alle ipotesi di mutamento di destinazione d’uso mediante realizzazione di “opere” , ha avuto modo di rilevare, con riferimento a quanto previsto dall’art. 31, secondo comma, della l. n. 47 del 1985 che ai fini dell’applicabilità della normativa in materia di condono edilizio, in caso di mutamento delle destinazioni d’uso, la locuzione “ultimazione” riferita alle opere abusive va intesa in senso funzionale, con riguardo cioè al momento in cui l’immobile acquista caratteristiche che oggettivamente e univocamente risultano idonee alla nuova destinazione (Cons. Stato, Sez. IV, 26 gennaio 2009, n. 393);
e che, pertanto, per “completamento funzionale” deve intendersi la realizzazione delle principali opere necessarie per attuare il mutamento di destinazione, con la conseguenza che non è sufficiente che siano state realizzate opere incompatibili con la precedente destinazione, ma è altresì necessario che siano state poste in essere opere atte a rendere effettivamente possibile un uso diverso da quello assentito (Cons. Stato, Sez. V, 11 luglio 2014 n. 3558).

Invero, per i mutamenti di destinazione d’uso senza opere risulta del tutto assorbente la notazione che l’immobile sia stato “completato funzionalmente” , vale a dire che esso deve essere comunque già fornito di quanto è indispensabile a rendere effettivamente possibile un uso diverso da quello originariamente assentito (Cons. Stato Sez. V, 9 maggio 2011, n. 2750).

In altri termini, ai fini delle diverse discipline speciali in materia di condono edilizio succedutesi nel tempo, per gli abusi aventi ad oggetto mutamenti di destinazione d’uso meramente funzionali rilevava la necessità che, al momento rispettivamente previsto dalle discipline medesime al fine della sussistenza del requisito per ottenere la relativa sanatoria, l’immobile doveva essere già stato concretamente convertito al nuovo uso che gli era stato impresso, e cioè già in tal senso dotato di quanto fondamentalmente necessario per svolgervi l’attività posta in essere in dipendenza del suo mutamento di destinazione.

Se così è, quindi, risulta evidente che, non assumendo più rilievo il momento di realizzazione delle “opere” (edilizie) costituenti l’immobile, rimaste immutate proprio in quanto compatibili sia con il precedente che con il susseguente suo utilizzo, emerge – semmai - per queste evenienze la necessità di una comprova ìn ordine alla risalenza temporale dell’abuso costituita da ben altri elementi materiali che possono far acclarare, al caso, la sussistenza di un certo tipo di utilizzo dell’immobile rispetto ad un altro, costituiti soprattutto dalla nuova installazione, ovvero dal rinnovo degli impianti di cui al d.m. 22 gennaio 2008, n. 37, emanato in attuazione dell’art. 11- quaterdecies , comma 13, lett. a) della l. 2 dicembre 2005, n. 248, recante riordino delle disposizioni in materia di attività di installazione degli impianti all'interno degli edifici. (nella specie, particolarmente, gli impianti elettrici, idraulici, di riscaldamento e di condizionamento, nonché di distribuzione del gas rientranti nel novero delle prestazioni tecniche previste dall’art. 5, comma 2, del medesimo decreto ministeriale).

I progetti di tali impianti e le conseguenti certificazioni di conformità o di rispondenza devono essere invero depositati, a’ sensi dell’art. 5, comma 6, e 11 del d.m. n. 37 del 2008 presso lo Sportello unico per l’edilizia operante presso ciascun Comune: ma se tali progetti non richiedono la realizzazione di opere edili, nessun titolo edilizio è richiesto per la loro realizzazione (cfr. in tal senso l’inequivocabile disciplina contenuta nel comma 2 dell’art. 11 testè riferito: “Per le opere di installazione, di trasformazione e di ampliamento di impianti che sono connesse ad interventi edilizi subordinati a permesso di costruire ovvero a denuncia di inizio di attività, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380, il soggetto titolare del permesso di costruire o il soggetto che ha presentato la denuncia di inizio di attività deposita il progetto degli impianti da realizzare presso lo sportello unico per l'edilizia del Comune ove deve essere realizzato l'intervento, contestualmente al progetto edilizio” ): e ciò a fortiori vale anche per quegli impianti che eventualmente non raggiungano le prestazioni previste dal predetto art. 5, comma 2, del d.m. n. 37 del 2008 (per gli impianti elettrici, si richiede generalmente una potenza superiore a 6 Kw).

Per ineludibile conseguenza, quindi, gli impianti in questione non costituiscono – per se stanti - “opere edilizie” e, proprio in quanto non richiedono al fine della loro realizzazione il rilascio di titoli edilizi, non necessitano di sanatorie e di condoni edilizi in conseguenza dell’omesso adempimento dell’anzidetto previo deposito del relativo progetto presso lo Sportello unico dell’edilizia, ovvero del rilascio, da parte degli esecutori delle installazioni, dei certificati di conformità o di rispondenza previsti dal medesimo D.M. n. 37 del 2008, comportando le relative omissioni soltanto l’applicazione delle sanzioni pecuniarie ivi contemplate dall’art. 15.

A fortiori , la realizzazione di un mutamento di destinazione d’uso contraddistinto unicamente dalla realizzazione degli impianti surriferiti non può – quindi - in alcun modo essere configurato quale mutamento di destinazione d’uso con contestuale realizzazione di opere edilizie, ma va essenzialmente ricondotto ad un’ipotesi di mutamento di destinazione d’uso meramente funzionale, la cui risalenza temporale può - peraltro, al fine della relativa sanatoria - essere utilmente comprovata anche mediante la documentata realizzazione degli impianti medesimi in un determinato periodo.

Sempre ai fini del rapporto sussistente tra il mutamento di destinazione d’uso abusivamente realizzato e l’applicazione delle predette norme speciali dettate in tema di condono edilizio, va opportunamente evidenziato, quale notazione di fondo, che con riguardo ad ogni tipologia di abuso, perpetrata sia mediante la realizzazione di opere, sia mediante il mutamento di destinazione d’uso meramente funzionale, è circostanza non infrequente che molti dei condoni edilizi chiesti e ottenuti a’ sensi sia dell’art. 31 e ss. della l. n. 47 del 1985, sia dell’art. 39 della l. n. 724 del 1994, sia dell’art. 32 del d.l. n. 269 del 2003 convertito con l. n. 326 del 2003, sono stati rilasciati anche quando sarebbe stato possibile chiedere al riguardo il rilascio di una sanatoria mediante il regime di accertamento di conformità, a’ sensi dell’allora vigente art. 13 della l. n. 47 del 1985, in quanto i relativi abusi risultavano comunque realizzati conformemente alle previsioni della strumentazione urbanistica vigente sia all’epoca a cui risaliva la perpetrazione degli abusi, sia alla data rispettivamente fissata dalle predette discipline speciali agli effetti della comprova della loro perdurante esistenza.

3.2.1. A questo punto, dal quadro d’insieme dianzi descritto, risulta con ogni evidenza che l’appello in epigrafe non può che essere accolto, con ciò superando anche il contrario avviso espresso in sede di incidente cautelare dalla Sezione IV^ di questo Consiglio di Stato all’atto dell’impugnazione della sentenza qui gravata.

3.2.2. Innanzitutto, dalla dianzi acclarata circostanza che l’installazione di un impianto elettrico, ovvero l’adeguamento di quello esistente non costituisce – di per sé – “opera edilizia” , e che nella specie non risulta in alcun modo documentato dalle stesse parti l’avvenuta realizzazione di opere edilizie strumentali all’installazione ovvero all’adeguamento anzidetti, discende la non smentibile conseguenza che il mutamento di destinazione per cui è ora causa va riguardato come meramente funzionale.

Tale notazione conforta, pertanto, la tesi di fondo della parte appellante.

3.2.3. In secondo luogo, risulta altrettanto fondato l’assunto della parte appellante secondo cui, di fatto, la stessa richiesta di rilascio del condono edilizio non sarebbe stata di per sé necessaria per la fattispecie ma - denota a sua volta il Collegio - al più, conveniente.

A ben vedere, infatti, anche il caso qui in discussione rientra in quelle non rare fattispecie di cui si è fatto dianzi cenno al § 3.1.4 della presente sentenza, di utilizzo per così dire “improprio” , ma - comunque - di per sé lecito delle discipline di condono edilizio succedutesi nel tempo.

Invero il condono edilizio si configura - in linea di principio - quale istituto eccezionale di sanatoria che legittima l’inserimento di una realità abusivamente realizzata in un contesto in cui, ove non ostino, a’ sensi dell’art. 33 della l. n. 47 del 1985 vincoli inderogabili di natura extra-urbanistica, essa non può più essere resa oggetto di sanzione per la sua difformità rispetto alle destinazioni d’uso contemplate dalla vigente strumentazione urbanistica per la zona territoriale omogenea in cui la realità medesima ricade.

Nel caso di specie, non risulta contestata la circostanza che la zona territoriale omogenea in cui ricade il locale in questione ammetteva sia l’utilizzo di questo sia quale magazzino, sia quale immobile destinato ad attività commerciale.

Se così è, quindi, le sole necessità per la proprietà, ovvero per il caso dell’appellante Signor Abitante, dell’utilizzatore qualificato del relativo immobile, era costituito, oltrechè dal dovuto aggiornamento della categoria catastale da C2 ( magazzini e depositi ) a C1 ( negozi e botteghe , nella specie assorbente anche della categoria C3, a sua volta costituita da laboratori per arti e mestieri ) con conseguente mutamento della relativa rendita, anche dal parimenti dovuto mutamento sotto il profilo urbanistico della categoria di destinazione d’uso, a’ sensi del combinato disposto dell’art. 7 della l.r. 2 luglio 1987, n. 36 e degli artt. 14 e 15 della l.r. 12 settembre 1977, n. 35, definendola - per l’appunto – nel nuovo assetto dell’immobile come “commerciale”.

E, del resto, sotto quest’ultimo profilo e come specificato anche dalla stessa giurisprudenza di primo grado in puntuale applicazione delle disposizioni di fonte regionale testè riferite, il cambio di destinazione d’uso di un immobile da magazzino ad esercizio commerciale, ancorchè compatibile nella medesima zona omogenea, interviene tra categorie edilizie funzionalmente autonome e non omogenee e, quindi, integra una modificazione edilizia con effetti incidenti sul carico urbanistico soggetta a regime concessorio oneroso, e ciò indipendentemente dall’esecuzione di opere (così, expressis verbis , T.A.R. Lazio, Sez. II, 1 dicembre 2017, n. 11910).

Sotto questo aspetto, pertanto, l’Abitante avrebbe potuto senz’altro ottenere il rilascio del titolo per mutamento di destinazione d’uso segnatamente contemplato dall’anzidetto art. 7 della l.r. n. 36 del 1987 anche in regime di accertamento di conformità a’ sensi dell’art. 36 del t.u. approvato con d.P.R. n. 380 del 2001, ovvero dell’equipollente e concorrentemente applicabile disciplina di cui all’art. 22 della l.r. 11 agosto 2008, n. 15.

E’ peraltro presumibile che il mancato utilizzo di quest’ultimo strumento di sanatoria ordinaria sia dipeso dalla circostanza che, fermo comunque restando l’obbligo di corrispondere in entrambi i casi la somma dovuta a titolo di incremento degli oneri di urbanizzazione, il pagamento dell’oblazione prevista per il condono di cui all’art. 32 del d.l. n. 269 del 2003 convertito con l. n. 326 del 2003 presumibilmente risultava più vantaggioso per l’attuale appellante rispetto al pagamento della sanzione contemplata dagli anzidetti art. 36 del t.u. approvato con d.p.r. n. 380 del 2001 e art. 22 della l.r. n. 15 del 2008.

Da qui, pertanto, scaturisce l’interesse dell’appellante medesimo ad avvalersi dello strumento del condono edilizio quale legittimazione all’inserimento nel locale tessuto urbanistico di un abuso consumato con riguardo ad un utilizzo dell’immobile comunque conforme alla strumentazione urbanistica vigente: nessuna preclusione di legge sussiste, infatti, al riguardo, posto che altrimenti risulterebbe discriminante la disciplina di sanatoria speciale laddove non consentisse di accedervi, con conseguente e del tutto ingiusto pregiudizio economico, anche a coloro che hanno perpetrato abusi ben meno gravi rispetto a coloro che hanno agito in dispregio alle norme di legge non richiedendo al tempo dovuto il rilascio del titolo edilizio ovvero, in dispregio alle norme urbanistiche, realizzando opere dalle stesse vietate ovvero adibendo immobili ad utilizzi dalle norme medesime parimenti inibiti.

Se così è, il punto nodale della presente causa risiede allora nella prova della sussistenza dell’abuso alla data del 31 marzo 2003 contemplata al riguardo sia dall’art. 32 del d.l. n. 269 del 2003 convertito con l. n. 326 del 2003, sia dall’art. 2 della l.r. 12 del 2004, tenendo presente che la sanatoria degli abusi consistenti nel mutamento della destinazione d’uso meramente funzionale può essere assentita solo allorquando, sulla base di elementi obiettivi, sia possibile verificare in concreto l’uso diverso da quello assentito (cfr. in tal senso, Cons. Stato, Sez. IV, 9 settembre 2009, n. 5416).

A questo proposito il Collegio rileva innanzitutto che, in linea di principio, non può che incombere su chi richiede di beneficiare di un condono edilizio l’onere di provare che l’abuso è stato perpetrato in epoca utile per fruire del beneficio, in quanto, mentre l’Amministrazione comunale non è normalmente in grado di accertare la situazione edilizia di tutto il proprio territorio alla data indicata dalla normativa sul condono, colui che lo richiede può, di regola, procurarsi la documentazione da cui si possa desumere che l’abuso sia stato effettivamente realizzato entro la data prevista (così, ex plurimis , Cons. Stato, Sez. VI. 9 luglio 2018, n. 4168, 9 luglio 2018, n. 4168, 20 dicembre 2013, n. 6159 e 1 febbraio 2013, n. 631;
Sez. V, 20 agosto 2013, n. 4182 e 15 luglio 2013 n. 3834).

Per ineludibile conseguenza, in difetto di tali prove resta pertanto integro il potere dell’Amministrazione comunale di negare la sanatoria dell’abuso ed il suo dovere di irrogare la sanzione prescritta (così Cons. Stato, Sez. IV, 23 gennaio 2013, n.414).

Posto ciò, va anche qui evidenziato che in presenza di dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà, resa a’ sensi dell’art. 47 del d.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445, ove non si riscontrino elementi dai quali risulti univocamente la realizzazione dell’abuso entro la data prescritta dalla legge, non si può ritenere raggiunta la prova in ordine a tale circostanza, posto che la dichiarazione anzidetta non può assurgere al rango di prova, seppur presuntiva, sull’epoca dell’abuso (cfr. sul punto, ex multis , la predetta sentenza di Cons. Stato, Sez. VI, n. 4168 del 2018, nonché Cons. Stato, Sez. IV, 29 maggio 2014, n. 2782 e 27 maggio 2010, n. 3378).

Al riguardo è stato infatti recisamente affermato che tali dichiarazioni, rese sia dalla stessa parte interessata, sia da parte di terzi, non assumono alcun “valore” certificativo o probatorio nei confronti della Pubblica amministrazione, né possono rivestire alcuna rilevanza, neppure indiziaria, nel processo civile o amministrativo (cfr. ex plurimis Cons. Stato, Sez. IV, 21 Ottobre 2013 n. 5109, 15 gennaio 2013 n. 211, 27 dicembre 2011 n.6861, 3 agosto 2011 n. 4641 e 27 maggio 2010, n.3378;
cfr., altresì, analogamente, Cass. Civ., Sez. III, 28 aprile 2010 n. 10191).

In dipendenza di tutto ciò, non potendo l’attuale appellante utilmente avvalersi delle dichiarazioni sostitutive dell’atto di notorietà pur da lui presentate all’Amministrazione comunale in sede di istruttoria della domanda di condono, la prova della risalenza dell’abuso rispetto alla predetta data del 31 marzo 2013 non può che essere ricavata - nella specie - dalla documentazione fiscale attinente all’acquisto dei materiali per il rifacimento dell’impianto elettrico, nonché nelle fatture di ricevimento di merci presso il locale per cui è causa.

Per quanto attiene all’impianto elettrico, risulta invero ex se plausibile l’assunto dell’appellante in ordine ad una necessità di provvedere al suo rifacimento in dipendenza dell’ampiezza del locale (mq. 165,30), non più da destinare – per l’appunto – integralmente a magazzino, bensì anche ad attività commerciale e di laboratorio, con conseguente e del tutto intuibile esigenza di una maggiore illuminazione e, comunque, di un accresciuto consumo di elettricità derivante dall’utilizzazione delle apparecchiature informatiche necessarie per lo svolgimento della nuova attività, ovvero proposte per la vendita o anche ivi trattenute per la riparazione.

Il preventivo per il rifacimento dell’impianto in questione porta la data del 18 marzo 2013, e risulta di per sé credibile che la posa in opera di quanto necessario al suo funzionamento, trattandosi di attività verosimilmente non complessa, si sia effettivamente esaurita entro la data del 31 marzo dello stesso anno.

L’Amministrazione comunale contesta la relativa circostanza, ma in via del tutto generica e senza addurre al riguardo una puntuale smentita all’assunto della controparte.

Il Collegio evidenzia, a sua volta, che risulta peraltro oltremodo significativo che né la parte appellante, né la stessa Amministrazione comunale abbiano affrontato a tale riguardo la possibilità di assumere prove ben più concrete sul punto in dipendenza della circostanza che il progetto dell’impianto di cui trattasi, ove rientrante nelle ipotesi di cui all’art. 5, comma 2, del d.m. n. 37 del 2008, avrebbe dovuto essere comunque depositato, a’ sensi dell’art. 11 del medesimo decreto ministeriale unitamente alle conseguenti certificazioni di conformità o di rispondenza rilasciate dall’impresa installatrice presso lo Sportello unico per l’edilizia obbligatoriamente attivato presso lo stesso Comune.

L’Amministrazione comunale pertanto - in tale eventualità - ben avrebbe potuto provvedere nel procedimento istruttorio attivato nel caso di specie ad un’acquisizione probatoria di documentazione da essa stessa detenuta, evitando quindi di aggravare nei confronti della parte privata il procedimento stesso, a’ sensi del generale divieto contenuto nell’art. 1, comma 2, della l. 7 agosto 1990, n. 241 e posto che l’accertamento d’ufficio sarebbe stato in tale frangente ben possibile, a’ sensi art. 40 del d.P.R. n. 445 del 2000 già nel testo all’epoca vigente, posto che la necessitata presenza di tale documentazione presso la medesima Amministrazione comunale va riguardata, a’ sensi dell’art. 46, lett. i), del predetto d.P.R. n. 445 del 2000, in quanto necessariamente assunta a protocollo dallo Sportello unico predetto, quale “iscrizione a registro o elenco” di una Pubblica amministrazione.

Ma, anche in disparte da ciò, relativamente all’impianto elettrico in questione va in ogni caso evidenziato che, a fronte dell’allegazione che lo stesso ben poteva essere realizzato, stante la non particolare complessità dell’intervento, in pochi giorni successivi a quello dell’acquisizione del prelativo preventivo, l’Amministrazione comunale non formula in proposito puntuali e circostanziate contestazioni: e, soprattutto, del tutto illegittimamente ha ricondotto e riconduce – come del resto erroneamente fatto anche dallo stesso giudice di primo grado – l’installazione dello stesso a “opera edilizia” , tanto da intimarne la rimozione mediante un provvedimento del tutto illegittimo, stante l’inequivoca disciplina contenuta al riguardo nell’anzidetto art. 11, comma 2, del d.m. n. 37 del 2008.

Il Collegio reputa che anche le fatture di ricevimento di merci presso il locale per cui è causa possano soddisfare, nella specie, alla prova richiesta, posto che l’obiezione dell’Amministrazione comunale secondo cui le merci medesime risultate recapitate dalla documentazione predetta nel locale di cui trattasi, ben potevano essere consegnate in un “magazzino” piuttosto che in un “negozio” .

Tale obiezione non considera che la scadenza per la presentazione della domanda di condono edilizio era fissata, a’ sensi dell’art. 32, comma 28, del d.l. n. 269 del 2003 convertito con l. n. 326 del 2003 e dell’art. 4, comma 1, della l.r. n. 12 del 2004, al 10 dicembre 2004, che l’attuale appellante ha presentato la propria istanza di condono all’Amministrazione comunale proprio in tale data e che , quindi, solo in data 14 gennaio 2005 – e, cioè in un lasso di tempo ragionevole per raccogliere tutta la documentazione utile al riguardo, tra l’altro anche nella concomitanza delle festività natalizie di inizio d’anno – ha potuto presentare allo stesso Comune la comunicazione di inizio di attività commerciale a’ sensi dell’art. 7 del d.lgs. 31 marzo 1998 n. 114 e, quindi, in data 6 ottobre 2005 quella, sostanzialmente accessoria, di inizio dell’attività di laboratorio.

Se così è, la ricezione della merce nel locale di Via di Boccea n. 307/A non poteva pertanto che avvenire, fino all’anzidetta data del 14 gennaio 2005, in un locale già funzionalmente divenuto idoneo per l’attività commerciale ma che non poteva essere materialmente adibito a tale utilizzo se non dopo la presentazione della comunicazione di inizio della relativa attività, avvenuta per l’appunto in tale data, anche e soprattutto in considerazione della circostanza che, in ordine a quanto previsto dal predetto art. 7, comma 2, lett. c), del d.lgs. n. 114 del 1998, l’attuale appellante, con riguardo all’obbligatoria indicazione dell’ “ubicazione” e della “superficie di vendita dell’esercizio”, solo a quel momento aveva potuto allegare la copia della propria domanda di condono edilizio per documentare che erano già state adempiute le incombenze per rendere l’esercizio medesimo effettivamente “commerciale” al fine di praticare ivi anche l’attività di vendita a quel momento comunicata.

Ove si volesse seguire il ragionamento dell’Amministrazione comunale e del giudice di primo grado si dovrebbe allora concludere, in via del tutto paradossale, che male avrebbe fatto l’attuale appellante a non svolgere nel locale in questione, prima della predetta data del 14 gennaio 2005, un’attività di vendita abusiva.

Queste ultime notazioni di fondo consentono anche di respingere – all’evidenza – gli assunti sia dell’Amministrazione comunale, sia del giudice di primo grado, in ordine ad una pretesa tardività, da parte dell’Abitante, della presentazione della comunicazione dell’avvio dell’attività di vendita rispetto alla precedente presentazione della domanda di condono.

3.2.4. Per quanto da ultimo attiene all’origine dell’illegittima azione amministrativa nella specie condotta dal Comune, ossia all’interpretazione data dall’Amministrazione medesima alla clausola obbligatoriamente inserita a’ sensi dell’art.46, comma 1, prima parte (cfr. ivi: “Gli atti tra vivi, sia in forma pubblica, sia in forma privata, aventi per oggetto trasferimento o costituzione o scioglimento della comunione di diritti reali, relativi ad edifici, o loro parti, la cui costruzione è iniziata dopo il 17 marzo 1985, sono nulli e non possono essere stipulati ove da essi non risultino, per dichiarazione dell'alienante, gli estremi del permesso di costruire o del permesso in sanatoria” ) nel contratto d’acquisto del locale stipulato in data 4 aprile 2003, ne va parimenti affermata l’evidente paradossalità.

Anche a prescindere dalla circostanza - in sé quanto mai significativa - che nessuna delle parti ha documentato agli atti del giudizio, nonostante il ben consistente lasso di tempo intercorso dai fatti di causa, eventuali risvolti penali conseguiti dall’assunto qui sostenuto dall’Amministrazione comunale circa la sostanziale sussistenza - nella specie - di un falso ideologico per c.d. “omissione” , va evidenziato che l’Amministrazione comunale pretenderebbe di rendere responsabile dell’omessa dichiarazione dell’avvenuta installazione del nuovo impianto elettrico (ossia – giova ribadire – di un intervento di per sé non rilevante sotto il profilo urbanistico – edilizio) la parte venditrice del locale in questione , in quanto “tale circostanza sarebbe comunque dovuta essere nota al proprietario, il quale avrebbe dovuto dare il proprio assenso” (cfr. così, testualmente, le premesse dell’impugnato provvedimento di diniego del condono).

Obene, a tale riguardo va innanzitutto considerato che, anche in disparte dalla stessa testè ribadita circostanza (in sé assorbente) della natura non edilizia dell’intervento di cui trattasi e della conseguente non sussumibilità dello stesso agli effetti dell’anzidetta disciplina contenuta nell’art. 46, comma 1, del t.u. approvato con d.P.R. n. 380 del 2001, la tesi del Comune ignora in via del tutto eclatante che la clausola ora in esame è essenzialmente finalizzata a garantire l’acquirente, sotto il profilo civilistico di una sua azione per danno nei confronti del venditore, in ordine alla sussistenza di abusi nell’immobile di cui egli sia poi chiamato a rispondere in sede di irrogazione di sanzioni amministrative ripristinatorie ovvero pecuniarie.

Nel caso di specie quanto (si ribadisce: del tutto infondatamente) si vorrebbe ricondurre ad abuso edilizio riferito al venditore “che non poteva non sapere” è stato in realtà eseguito da una longa manus della stessa parte acquirente, già immessa nel possesso del bene mediante la c.d. traditio clavium dell’immobile avvenuta anticipatamente, sin dal mese di febbraio di quello stesso anno, rispetto alla data della formale stipulazione del contratto di compravendita: dimodochè, anche se al momento di quest’ultima il venditore avesse effettivamente avuto conoscenza del medio tempore avvenuto rifacimento dell’impianto elettrico, non avrebbe avuto alcun obbligo di dichiarare la relativa circostanza a discarico di una responsabilità in alcun modo riferibile al proprio operato.

Né, comunque, va sottaciuto che Cass. pen., Sez. V, 8 maggio 2017, n. 22200, ha avuto modo di confermare l’esclusione dell’applicabilità delle norme di commerciabilità negli atti traslativi di immobili in presenza di interventi edilizi cc.dd. “minori” , ossia esclusi dall’applicazione delle sanzioni penali di cui all’art. 44 del t.u. approvato con d.P.R. n. 380 del 2001.

In dipendenza di ciò, quindi, non solo non sembra sussistere anche sotto questo ulteriore profilo il falso ideologico “per omissione” prospettato dall’Amministrazione comunale, ma neppure ricorrerebbe la nullità dell’atto di compravendita, atteso che il notaio rogante in tale frangente non ha stipulato un atto proibito da norma imperativa, a’ sensi dell’art. 28, primo comma, della l. 16 febbraio 1913, n. 89, non avendo neppure l’obbligo al riguardo di far dichiarare alle parti contraenti la sussistenza di abusi penalmente non sanzionati.

4. In dipendenza di tutto quanto sopra evidenziato, l’appello va pertanto accolto e, per l’effetto, in riforma della sentenza impugnata, il ricorso e i motivi aggiunti di ricorso proposti in primo grado vanno accolti, con conseguente annullamento degli atti con essi impugnati.

La particolarità delle questioni trattate induce il Collegio a compensare integralmente tra le parti le spese e gli onorari di entrambi i gradi di giudizio.

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