Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza 2023-04-05, n. 202303520
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Testo completo
Pubblicato il 05/04/2023
N. 03520/2023REG.PROV.COLL.
N. 04301/2019 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 4301 del 2019, proposto da
Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, in persona del Legale rappresentante pro tempore , rappresentata e difesa dall'Avvocatura Generale dello Stato presso la quale è domiciliata, in Roma, via dei Portoghesi n. 12;
contro
-OMISSIS-, rappresentato e difeso dall’Avvocato A M, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;
per la riforma
quanto all’appello principale:
della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Prima) n. -OMISSIS-/2019, resa tra le parti nella parte in cui condanna l’amministrazione al pagamento a titolo di risarcimento, di un importo commisurato alla indennità di responsabilità;
quanto all’appello incidentale proposto dalla parte appellata:
della medesima sentenza nella parte in cui respinge la domanda di risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali conseguenti al riconosciuto demansionamento;
quanto all’appello incidentale condizionato proposto dall’appellante principale:
della sentenza nella parte in cui riconosce il demansionamento dell’appellato;
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio di -OMISSIS-;
Visti l’appello incidentale di -OMISSIS- e l’appello incidentale condizionato di AGCM;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 16 marzo 2023 il Cons. Marco Poppi e uditi per le parti gli Avvocati presenti come da verbale;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO e DIRITTO
1. L’odierno appellato, dipendente dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (di seguito Autorità) dal 1993, già Dirigente dal 2008 della -OMISSIS-, con ricorso iscritto al n. 8821/2014 R.R. agiva innanzi al T Lazio per essere risarcito dei danni di natura professionale e psico-fisica patiti in conseguenza di una pretesa ingiustificata ed immotivata dequalificazione continuativamente attuata dall’amministrazione nei propri confronti dal marzo 2012.
La condotta causativa del danno veniva dall’appellato individuata nella retrocessione da Direttore della DSIT a Responsabile di un Ufficio privo di mezzi e risorse, comportante un ridimensionamento delle proprie competenze e limitazioni alla possibilità di aggiornarsi che causavano una progressiva dequalificazione del proprio profilo professionale.
Il danno patrimoniale del quale chiedeva il ristoro veniva quantificato in una somma pari a 26 mensilità mentre il danno non patrimoniale per lesione della propria integrità psico-fisica e demansionamento con perdita di qualificazione professionale veniva quantificato in una somma pari a € 131.068,00 e comunque non inferiore a 100.004,00 se calcolata sulla base delle tabelle del Tribunale di Milano o nella misura € 102.280,66 e comunque non inferiore ad € 81.824,53, se calcolata in base alle tabelle del Tribunale di Roma.
Con successivi motivi aggiunti notificati il 16 ottobre 2017, il ricorrente impugnava il provvedimento dell’Autorità del 4 maggio 2017 con il quale veniva respinto il ricorso (reclamo) amministrativo proposto avverso la nota valutativa del 28 marzo 2017 del Segretario Generale che gli aveva negato la corresponsione della indennità di responsabilità istituita a far data dal 1° marzo 2017 ed erogata a cadenza periodica a seguito di una valutazione dell’attività svolta e del positivo riscontro del raggiungimento degli obiettivi assegnati dal Piano di performance .
Il T, con sentenza n. -OMISSIS- del 9 gennaio 2019, pur ritenendo comprovato (nei termini di seguito esposti) il lamentato demansionamento, respingeva il ricorso introduttivo per mancata prova del danno sia patrimoniale che non patrimoniale.
Quanto ai motivi aggiunti, il T respingeva l’eccezione di tardività sollevata dall’Autorità sul rilievo che l’atto impugnato fosse qualificabile come atto negoziale e che la mancata corresponsione dell’indennità di responsabilità integrasse un inadempimento.
Sulla base di tale premessa, riteneva che l’atto gravato, in quanto lesivo di una posizione avente consistenza di diritto soggettivo, dovesse essere impugnato nel termine prescrizionale anziché in quello decadenziale.
Affermata la tempestività dei motivi aggiunti, li accoglieva condannando l’amministrazione al pagamento di una somma, a titolo di risarcimento, commisurata nell’importo corrispondente all’indennità non percepita, pari a € 15.000,00 oltre interessi.
2. L’Autorità impugnava la sentenza con appello depositato il 21 maggio 2019 censurandola nella parte in cui riconosceva il diritto dell’appellato alla percezione del suesposto importo affermando la natura autoritativa, quindi discrezionale e non negoziale, dell’atto impugnato con motivi aggiunti e rilevando, in coerenza con tale qualificazione, la tardività dell’impugnazione proposta oltre lo spirare del termine decadenziale di 60 giorni.
Con atto depositato il 19 luglio 2019, l’appellato proponeva appello incidentale ex art. 96, comma 3, c.p.a. censurando la decisione di primo grado nella parte in cui, pur riconoscendo la sussistenza del lamentato demansionamento, respingeva la domanda risarcitoria.
Con atto depositato il 30 settembre 2019, l’Autorità proponeva ricorso incidentale condizionato ex art. 96, comma 4, c.p.a. censurando la sentenza nella parte in cui riteneva comprovato il dedotto demansionamento.
L’Autorità e l’appellato rassegnavano le rispettive conclusioni in vista della discussione di merito, rispettivamente, in data 10 e 20 febbraio 2023.
All’esito della pubblica udienza del 16 marzo 2023, la causa veniva decisa.
3. Con il primo motivo di appello, l’Autorità deduce « Errata qualificazione giudica del provvedimento impugnato quale “ atto di gestione del rapporto di lavoro ” – Errata interpretazione e applicazione dell’accordo sindacale del 5 aprile 2016 e della delibera dell’Autorità del primo marzo 2017 – Illogicità e contraddittorietà della motivazione della sentenza – Erroneità manifesta » lamentando l’erroneità della qualificazione del diniego impugnato con motivi aggiunti in termini di « atto di gestione del rapporto di lavoro » avente natura negoziale a fronte del quale l’appellato vanterebbe una situazione giuridica avente consistenza di diritto soggettivo, come tale, impugnabile nel termine prescrizionale.
Con il secondo motivo, che può essere scrutinato congiuntamente stante la sostanziale omogeneità delle censure, l’Autorità deduce « Errata qualificazione giudica del provvedimento impugnato quale “ atto di gestione del rapporto di lavoro ” – Illogicità e contraddittorietà della motivazione della sentenza – Irricevibilità per tardività del ricorso per motivi aggiunti » affermando l’erroneità della sentenza nella parte in cui ritiene che l’atto oggetto dei motivi aggiunti dovesse essere impugnato nel termine prescrizionale vantando il ricorrente una posizione di diritto soggettivo.
A sostegno della tesi per la quale la posizione azionata dall’appellato non avrebbe consistenza di diritto soggettivo, l’Autorità allega che il proprio personale opera in regime di diritto pubblico e, ai sensi dell’art. 3 del D. Lgs. n. 165/2001, il rapporto di lavoro trova disciplina nell’ordinamento di settore, ovvero, nella L. n. 287/1990 che, si afferma, rimettere all’autonomia dell’amministrazione ogni deliberazione concernente l’organizzazione e il funzionamento dell’organismo, nonché il trattamento giuridico ed economico proprio del personale e l’ordinamento delle carriere.
La censura è fondata.
Ai sensi dell’art. 3, comma 1, del D. Lgs. n. 165/2001, « in deroga all'art. 2, commi 2 e 3, rimangono disciplinati dai rispettivi ordinamenti: i magistrati ordinari, amministrativi e contabili, gli avvocati e procuratori dello Stato, il personale militare e delle Forze di polizia di Stato, il personale della carriera diplomatica e della carriera prefettizia, nonché i dipendenti degli enti che svolgono la loro attività nelle materie contemplate dall'articolo 1 del decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato 17 luglio 1947, n. 691, e dalle leggi 4 giugno 1985, n. 281 [«Disposizioni sull'ordinamento della Commissione nazionale per le società e la borsa»] , e successive modificazioni ed integrazioni, e 10 ottobre 1990, n. 287 [«Norme per la tutela della concorrenza e del mercato»]».
Ai sensi dell’art. 10, comma 6, della richiamata L. n. 287/1990 « l’Autorità delibera le norme concernenti la propria organizzazione e il proprio funzionamento, quelle concernenti il trattamento giuridico ed economico del personale e l'ordinamento delle carriere, nonché quelle dirette a disciplinare la gestione delle spese nei limiti previsti dalla presente legge, anche in deroga alle disposizioni sulla contabilità generale dello Stato ».
Dal richiamato contesto normativo si desume che il rapporto di lavoro alle dipendenze dell’Autorità antitrust è espressamente escluso dalla c.d. privatizzazione del pubblico impiego e che, pertanto, la relativa gestione trova disciplina nelle fonti normative interne ( Regolamento del personale e l’ordinamento delle carriere dell’Autorità e Regolamento concernente l’organizzazione e relative delibere attuative).
Che non si tratti di rapporto