Consiglio di Stato, sez. III, sentenza 2014-01-20, n. 201400266

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Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. III, sentenza 2014-01-20, n. 201400266
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 201400266
Data del deposito : 20 gennaio 2014
Fonte ufficiale :

Testo completo

N. 03295/2007 REG.RIC.

N. 00266/2014REG.PROV.COLL.

N. 03295/2007 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Terza)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 3295 del 2007, proposto da:
-OMISSIS-, rappresentato e difeso dagli avvocati C Z B e M Z B, con domicilio eletto presso l’avv. C Z B, in Roma, via Orti della Farnesina n. 155;

contro

Ministero delle politiche agricole e forestali - Corpo forestale dello Stato, non costituitosi in giudizio;

per la riforma

della sentenza del T.A.R. LAZIO, sede di ROMA, SEZIONE II TER, n. 01015/2006, resa tra le parti, concernente sanzione disciplinare della destituzione.

Visti il ricorso in appello ed i relativi allegati;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore, nell'udienza pubblica del giorno 24 ottobre 2013, il Cons. Angelica Dell'Utri;

Udita per la parte appellante, alla stessa udienza, l’avv. C Z B;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue:


FATTO e DIRITTO

1.- Con atto notificato il 22 marzo 2007 e depositato il 19 aprile seguente, il dott. -OMISSIS-, -OMISSIS-, ha appellato la sentenza 10 febbraio 2006 n. 1015 del TAR per il Lazio, sede di Roma, sezione seconda ter , con la quale è stato respinto il suo ricorso avverso il decreto dirigenziale 16 dicembre 2003 n. 115, di destituzione dal servizio a decorrere dal 13 marzo 1999, e gli atti sottostanti.

L’appellante ha premesso che una sola ed unica volta, in un colloquio registrato dall’interlocutore e trascritto dai Carabinieri, si è trovato ad accettare una somma di denaro dall’amministratore di una società che aveva partecipato a numerose gare per la fornitura di capi di vestiario;
di qui la condanna in sede penale per il reato di concussione e tuttavia anche dalle sentenze penali emergerebbero elementi, che, se fossero stati oggetto di adeguata e dovuta valutazione, avrebbero condotto ad un diverso e meno drastico provvedimento.

Ha premesso ancora, tra l’altro, che la Cassazione rigettava il suo ricorso con sentenza depositata il 1° ottobre 2003, ma ancor prima l’Amministrazione dava inizio al procedimento disciplinare con lettera di contestazioni del 4 luglio 2003, cui egli controdeduceva ampiamente ponendo in luce i molteplici vizi dell’istruttoria del giudizio penale di primo grado che la Corte d’appello non ha ritenuto di ripetere, mentre la Corte di Cassazione non poteva riaprire il merito della causa.

Nella seduta del 30 settembre 2003 la Commissione di disciplina, ascoltate le difese del deferito e del legale, deliberava l’applicazione della sanzione predetta ex art. 84, comma 1, lett. a), c) ed f) del d.P.R. n. 3 del 1957 “per avere il dipendente posto in essere un comportamento che rivela la mancanza di senso morale con grave abuso di autorità avendo richiesto ed accettato compensi in relazione ad un affare trattato per ragioni di ufficio”.

Il procedimento si concludeva col decreto suindicato dell’Ispettorato generale del Corpo a firma del Vice Capo del Corpo stesso.

2.- A sostegno dell’appello vengono dedotti i seguenti quattro motivi, corrispondenti ai motivi dell’originario ricorso ritenuti infondati dal TAR:

I.- Vizio del procedimento. Violazione dell’art. 9 della legge 7.2.1990 n. 19.

Egli lamenta l’avvio del procedimento disciplinare sulla scorta della sentenza della Corte di appello, cioè quando il quadro delle responsabilità soggettive non era ancora definito, pendendo il giudizio di cassazione;
né la Commissione di disciplina ha ritenuto di dover tenere conto della completa motivazione della Cassazione (la cui sentenza è stata infatti depositata il giorno seguente), da cui potevano emergere utili elementi ai fini dell’istruttoria che la medesima Commissione avrebbe comunque dovuto condurre autonomamente.

Il TAR, si afferma, non ha compreso tale censura, avendo ritenuto che egli intendesse lamentare il decorso di oltre 180 giorni dalla sentenza della Corte di appello;
censura che, invece, era da ritenersi fondata stante la non irrevocabilità di quest’ultima sentenza.

II.- Vizio del procedimento. Violazione degli artt. 103 e ss. (ed in particolare del 114) del d.P.R. 10.1.1957 n.

3. Violazione e falsa applicazione dell’art. 3, comma 1, del decreto legislativo n. 165 del 2001, anche in relazione al disposto del successivo art. 72, comma 4. Eccesso di potere. Incompetenza del dirigente superiore Vice Capo del Corpo forestale dello Stato ad irrogare la sanzione.

Ai sensi del cit. art. 114 del d.P.R. n. 3 del 1957, in assenza di altre disposizioni specifiche di permanente applicazione al personale – restato in regime di diritto pubblico - del Corpo forestale dello Stato ex artt. 3, co. 1, e 72, co. 4, del d.lgs. n. 165 del 2001, l’adozione del provvedimento disciplinare non competeva al dirigente Capo del Corpo, e per esso, non ancora nominato, al Vice capo, bensì al Ministro, che avrebbe potuto applicare una sanzione meno drastica.

Al riguardo, il TAR si è limitato ad affermare che il d.lgs. n. 29 del 1993 ha ridisegnato il riparto delle competenze tra organi di vertice politico e dirigenti, riservando ai primi tutti gli atti amministrativi di gestione, compresi quelli relativi al personale ed anche di tipo disciplinare.

Il Giudice di primo grado non ha però tenuto conto del fatto che i comparti del pubblico impiego non privatizzato sono restati disciplinati dai rispettivi ordinamenti previgenti, di cui fa parte, nella specie, il titolo VII del d.P.R. n. 3 del 1957 nella sua interezza e dunque anche la disciplina relativa alla competenza del Ministro.

Né convince, si conclude sul punto, il diverso avviso in materia espresso dall’Ufficio legislativo, richiesto significativamente per ben due volte dall’Ispettorato del Corpo.

III.- Illegittimità degli atti impugnati – Violazione di legge (art. 114 del d.P.R. n. 3 del 1957) ed eccesso di potere per mancanza assoluta di motivazione – Violazione degli artt. 103, 107, 108, 109 e 110 del d.P.R. n. 3 del 1957 per difetto assoluto della prescritta inchiesta.

Sono mancate da parte dell’Amministrazione ogni autonoma valutazione dei fatti - tant’è che non è stata svolta alcuna istruttoria, non è stato nominato un funzionario istruttore e non è stato formato un fascicolo con gli atti delle indagini - ed ogni motivazione sulle ragioni dell’applicazione della sanzione estrema.

Il TAR, trattando tale doglianza congiuntamente al motivo seguente, si è soffermato ad esaminare solo quest’ultimo, limitandosi a riportare un passaggio della sentenza della Corte d’appello ed in tal modo mostrando di incorrere nel medesimo errore della Commissione di disciplina.

IV.- Illegittimità degli atti impugnati – Eccesso di potere – Illogicità per sproporzione della sanzione rispetto al fatto.

L’Amministrazione non ha tenuto conto che, come sembra indubitabile, la somma in questione era stata percepita un’unica volta ed era di entità non particolarmente rilevante.

A fronte di tali elementi la destituzione appare eccessiva e sproporzionata, inosservante della indispensabile gradualità sanzionatoria, la cui necessità è stata posta a base della pronuncia della Corte costituzionale n. 971 del 1988 in tema di destituzione di diritto e della successiva normativa di cui alla legge n. 97 del 2001, nonché ripetutamente affermata dalla giurisprudenza.

Di contro, il primo giudice ha disatteso tale motivo con argomentazioni inconsistenti ed inadeguate, né può essere accettato l’assunto per cui la gravità dei fatti sarebbe in re ipsa .

3.- L’Amministrazione non si è costituita in giudizio, ancorché ritualmente intimata.

L’appello è stato introitato in decisione all’udienza pubblica del 24 ottobre 2013.

4.- Con il primo motivo si deduce che l’Amministrazione non avrebbe atteso l’irrevocabilità della condanna ( intervenuta con il deposito della sentenza della Cassazione in data 1 ottobre 2003 ) per avviare, in data 4 luglio 2003, il procedimento disciplinare.

Il motivo è infondato.

Il termine di 180 giorni fissato dall’art. 9 della legge 7 febbraio 1990, n. 19 per l’inizio del procedimento disciplinare in conseguenza di una sentenza di condanna penale decorre dalla data in cui l’A. ha avuto notizia della sentenza irrevocabile di condanna ( cfr., ex plurimis , Cons. St., VI, 20 ottobre 2005, n. 5907, secondo cui “il dies a qu o stabilito dall’art. 9, comma 2, della legge n. 19 del 1990, per l’inizio del procedimento disciplinare comincia a decorrere dalla data in cui l’a. ha avuto specifica cognizione dei fatti accertati in sede penale”;
cfr. altresì Cons. St., VI, 15 dicembre 2010, n. 8918 ).

Ne deriva che nel caso di specie legittimamente l’A. ha avviato il procedimento disciplinare sulla base della intervenuta conoscenza del dispositivo della sentenza della Cassazione sfavorevole al ricorrente, letto in udienza il 13 giugno 2003.

In altri termini, tenuto conto che le sentenze della Corte di cassazione sono rese pubbliche mediante lettura del dispositivo – nella specie, di rigetto del ricorso - (cfr. artt. 545 c.p.p.), mentre il deposito delle motivazioni è atto successivo (cfr. art. 548 c.p.p.), a quella stessa data l’affermazione di responsabilità dell’imputato in base a quei fatti era da ritenersi già definitivamente accertata in sede penale, quindi non più contestabile;
d’altra parte la Corte di Cassazione non poteva – del che lo stesso appellante dà atto –riesaminare il merito della causa, sì che correttamente l’Amministrazione ha fatto riferimento ai fatti come accertati dalla sentenza della Corte di appello di Roma 14 febbraio 2002 n. 1384 “passata in giudicato” ( o, meglio, divenuta irrevocabile ) a seguito dell’intervenuto rigetto del ricorso per cassazione (cfr. art. 648, co. 2, c.p.p.).

5.- In ordine al secondo motivo, secondo cui la competenza ad infliggere la sanzione apparterrebbe non al Capo del Corpo ma al Ministro, si osserva che, se è vero al c.d. pubblico impiego non privatizzato continua ad applicarsi il pregresso ordinamento, è altrettanto vero che quello stesso ordinamento è stato innovato dal d.lgs. 3 febbraio 1993, n. 29, i cui principi sono stati ribaditi dal d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, nel senso della netta separazione dei poteri di indirizzo politico e di controllo, spettanti agli organi elettivi di governo, da quelli gestionali attribuiti alla dirigenza.

Come correttamente rilevato dal TAR, l’art. 16 del d.lgs. n. 29/1993, come modificato ed integrato dal d.lgs. n. 80/1998 e dal d.lgs. n. 165/2001, dispone che i dirigenti di uffici dirigenziali generali svolgono le attività di organizzazione e gestione del personale e di gestione dei rapporti sindacali e di lavoro ( lett. h);
tale disposizione è applicabile anche al personale delle forze di polizia non contrattualizzato, per il quale, in assenza ( come per il Corpo Forestale dello Stato ) di disposizioni normative disciplinari specifiche, si faceva in precedenza riferimento all’articolo 114 del DPR n. 3/1957.

In particolare, è consolidato orientamento giurisprudenziale l’avvenuto passaggio dal Ministro al dirigente capo del personale della competenza ad adottare tutti gli atti di gestione delle risorse umane, ivi compresi i provvedimenti sanzionatori e, tra essi, quelli di destituzione, trattandosi di atti di “gestione” e non di “indirizzo politico”, dopo che con gli artt. 3 e 16 del d.lgs. n. 29 del 1993 (poi artt. 4 e 16 del d.lgs. n. 165 del 2001) è stato implicitamente abrogato l’art. 10 del d.P.R. 30 giugno 1972 n. 748, il quale, pur prevedendo la spettanza al dirigente con funzioni di capo del personale dei provvedimenti in tema di stato giuridico ed economico del personale, manteneva in capo al Ministro quella in tema di provvedimenti disciplinari – a suo tempo prevista dall’art. 114, co. 5, del d.P.R. 10 gennaio 1957 n. 3 –, benché solo se superiori alla riduzione dello stipendio, ed in tema di sospensione cautelare facoltativa (cfr., per tutte, Cons. St., sez. IV, 19 marzo 1998, n. 484, nella specie richiamata dal primo giudice).

Di qui la preclusione per il Ministro all’esercizio di competenze gestionali e l’estensione di tale preclusione anche all’ambito degli atti di gestione riguardanti il personale ad ordinamento militare, inclusi - come detto – quelli recanti l’irrogazione di sanzioni disciplinari e compresa la destituzione dall’impiego (cfr., tra le più recenti, Cons. St., Sez. IV, 14 gennaio 2013, n. 158).

Del resto, per un verso il richiamo nel provvedimento impugnato all’art. 114 del d.P.R. n. 3 del 1957 si riferisce evidentemente alle modalità della deliberazione della commissione di disciplina, ivi dettate, e non già alla ormai abrogata competenza ministeriale di cui al co. 5;
e, per altro verso, non risulta alcuna specifica disposizione legislativa, che, a norma dell’art. 4, co. 3, del d.lgs. n. 165 del 2001, per il Corpo forestale dello Stato deroghi alle attribuzioni dirigenziali indicate al precedente comma.

Non viene peraltro così meno l’ulteriore garanzia per il dipendente di adire il Ministro ( e dunque di ottenere una sanzione a lui più favorevole come disposto dal V comma dell’art. 118 ), dal momento che il provvedimento sanzionatorio adottato dal Capo del Corpo, come enunciato del resto dal parere richiamato nel contesto motivazionale del provvedimento oggetto del giudizio, è oggetto di ricorso gerarchico improprio.

6.- Neanche il successivo motivo, con il quale ci si duole della mancanza di una autonoma valutazione dei fatti da parte dell’Amministrazione rispetto all’accertamento effettuato in sede penale, può essere condiviso.

Si è già detto che la veridicità dei fatti materiali posti a base della sanzione e la loro imputabilità al dott. -OMISSIS- erano stati definitivamente accertate in sede penale;
ed ai sensi dell’art. 654 c.p.p. la sentenza penale che accerti nei confronti dell'interessato la sussistenza di determinati fatti ha efficacia nel giudizio disciplinare che si fondi sui medesimi fatti.

Pertanto, l’Amministrazione non poteva operare una diversa ricostruzione di quegli stessi fatti e, dunque, non era tenuta a svolgere alcuna ulteriore istruttoria al riguardo, bensì doveva limitarsi a valutarne la rilevanza e gravità sotto il diverso profilo disciplinare, ovviamente in via autonoma e nell’esercizio della propria, tipica discrezionalità amministrativa.

E tanto è stato fatto dalla Commissione di disciplina, che ha ricondotto quei fatti, consistenti nell’accettazione di compensi in relazione ad un affare trattato per ragioni d’ufficio, alle gravi condotte previste dall’art. 84, lett. a), c) ed f), edittalmente tali da escludere ogni compatibilità con l’ulteriore permanenza in servizio, in tal modo indicando la loro precisa qualificazione giuridica ed il loro carattere lesivo degli interessi dell’Amministrazione, laddove le ragioni che hanno indotto ad irrogare quella sanzione emergono chiaramente dal contesto procedimentale e, in ispecie, dallo specifico riferimento ai fatti di reato contenuti nella sentenza penale di condanna della Corte d’appello, confermata dalla Corte di cassazione.

Per quanto appena esposto, siffatta valutazione deve considerarsi sufficiente sotto il profilo motivazionale (cfr. Cons. St., sez. IV, 31 gennaio 2005 n. 251).

7.- Infine, venendo al quarto motivo di impugnazione concernente l’assunta sproporzione della sanzione irrogata, come accennato la medesima valutazione costituisce tipica espressione della discrezionalità amministrativa e, pertanto, è insindacabile dal giudice amministrativo se non per evidenti vizi di logicità e proporzionalità, nella specie non ravvisati dal primo giudice, né, in effetti, ravvisabili.

Invero, non è dubitabile che l’episodio di concussione, di cui trattasi, in quanto commesso durante l'attività di servizio ed in ragione della stessa attività di servizio, in relazione alla posizione in quel momento rivestita dall’interessato e quindi in considerazione del metus suscitato nel soggetto passivo ( operatore del settore partecipante a gare d’appalto indette dall’Amministrazione ), appare di per sé particolarmente ed oggettivamente grave, estremamente riprovevole anche per il disvalore notoriamente riconnesso a tale comportamento dalla collettività, nonché fonte – pure per quest’ultimo aspetto - di grave pregiudizio e disdoro al prestigio, all’immagine ed all’onorabilità del Corpo, ancorché l’episodio stesso avesse ad oggetto una somma ( lire 3.700.000, relativamente ) tenue;
elemento, questo, che non vale certo ad attenuare la gravità della violazione degli obblighi alla cui osservanza è tenuto il pubblico funzionario ed a scolorire lo scarso livello morale così dimostrato, incompatibile con il preteso mantenimento dello status .

Pertanto, altrettanto indubitabile è l’insussistenza di sproporzione della sanzione applicata.

Di qui la reiezione anche dell’ultimo motivo.

8.- In conclusione, l’appello dev’essere respinto, con conseguente conferma della sentenza appellata sia pure con le suestese integrazioni motivazionali.

Non v’è luogo a pronuncia sulle spese del grado, stante la mancata costituzione in giudizio dell’Amministrazione appellata.

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